Le rivelazioni di Yoganandaji sulle reincarnazioni passate di noti personaggi…

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Le rivelazioni di Yoganandaji sulle reincarnazioni passate di noti personaggi…

tratto da:

IL SENTIERO

Autobiografia di uno yogi occidentale,
discepolo di Paramahansa Yogananda

di (Donald Walters) SWAMI KRIYANANDA

Traduzione di MAURO MERCI

EDIZIONI MEDITERRANEE – ROMA

A una considerazione spirituale, il karma presenta differenti livelli di manifestazione che
dipendono dal grado di chiarezza con il quale esso esprime la coscienza divina. L’amore, per
esempio, è un karma più spirituale dell’odio, in quanto corrobora la consapevolezza della essenziale
unicità della vita. L’odio rafforza invece l’illusione della separazione da Dio e dagli altri
esseri. Dire la verità è un karma più spirituale che il dire menzogne, poiché la sincerità aiuta a
sviluppare una raffinata consapevolezza di ciò che realmente è, la Realtà divina che esiste al di là
di tutte le apparenze.

Il karma si può descrivere come un sistema di ricompense e punizioni, mediante le quali l’ego impara
a manifestare, al termine della sua evoluzione, la propria innata natura divina. La sofferenza è
conseguenza karmica di quelle azioni che, in un modo o nell’altro, non sono in armonia con quella
natura. L’apprendimento completo di tutte le lezioni richiede un periodo di tempo superiore a quello
che ci viene concesso in una sola vita; opportunità di errare e di correggerci. Spesso, in realtà, è
necessario reincarnarsi più volte per imparare persino una sola lezione importante.

La dottrina della reincarnazione motiva compiutamente le enormi diseguaglianze di salute,
intelligenza, talento e opportunità nella vita dell’uomo che, altrimenti, parrebbero ingiuste. Essa
è, come affermò Hume, “l’unico sistema che la filosofia può prendere in considerazione”.

L’obiezione più frequente è:

“Se tutti si reincarnano, perché nessuno ricorda le vite precedenti?”. La risposta è semplice: molti
ricordano! In Occidente, naturalmente, i bimbi che esprimono i loro ricordi prenatali imparano
presto, per i rimproveri e l’incredulità dei genitori, a tenere per sé i loro pensieri; ma,
ciononostante, un numero notevole di casi ben documentati ha ricevuto una considerevole pubblicità.

Nota: Cito alcuni libri che trattano questo argomento: Dr. Ian Stevenson, Twenty Cases Suggestive of
Reincarnation; Dr. Gina Cerminara, Many Mansions; Ruth Montgomery, here and Hereafter; Reincarnation
in the Twenty Century a cura di Martin Ebon. E non sono i soli! Fine nota. Dato il mio interesse
relativamente noto per tale argomento, numerose persone mi hanno narrato il ricordo delle vite
passate nelle loro personali esperienze.

Una signora, insegnante di pianoforte, mi narrò di aver eseguito un pezzo per un bambino di quattro
anni, suo allievo. subito, con l’aria di non star parlando a vanvera, il bambino annunciò: “Conosco
questo pezzo. Lo suonavo sempre sul mio violino”. Sapendo che aveva studiato soltanto il pianoforte,
la donna gli chiese spiegazioni e quello dimostrò di conoscere correttamente le difficili posizioni
delle dita e i movimenti del braccio usati per suonare il violino. “Non ha mai visto un violino
prima d’ora”, insistette in seguito la madre. “Non ha neppure mai udito musica per violino!”.

Una delle testimonianze più interessanti mi fu inviata anni or sono da un mio amico di Cuba.
L’articolo apparso in Francia fu ristampato su un giornale cubano. Secondo la relazione, una bimba
francese, figlia di ferventi cattolici, non appena poté esprimersi, aveva cominciato a pronunciare
parole riconoscibili in lingua indiana, come ad esempio “rupee”. Due parole soprattutto era solito
ripetere: “Wardha” e “Bapu”. I genitori, perplessi e incuriositi, cominciarono a leggere libri
sull’India. Appresero così che “Wardha” era il villaggio dove il Mahatma Gandhi aveva stabilito il
suo ashram e che “Bapu” era il soprannome familiare usato dagli amici più intimi e dai discepoli. La
bambina affermava che nella sua vita precedente aveva vissuto a Wardha con Bapu.

Un giorno qualcuno si recò a far visita ai suoi genitori con una copia dell’Autobiografia di uno
yogi, nella quale Yogananda descrive la visita compiuta nel 1936 al Mahatma Gandhi nel suo ashram di
Wardha. Non appena la bambina vide la fotografia di Yogananda sulla copertina, esclamò con gioia:

“Oh, ma questo è Yogananda! Venne a Wardha. Era bellissimo!”.

Chi è convinto di vivere soltanto una volta è costretto a scendere a dei compromessi con le proprie
speranze di perfezione. I credenti ortodossi possono cercare di vivere in modo tale da evitare il
fuoco dell’inferno dopo la morte, ma i più, ritengo, sono ugualmente tentati di chiedersi
opportunisticamente: “Quanto male posso commettere senza incorrere nella condanna eterna?”.

La fede nel principio della rinascita aiuta l’uomo a guardare con gioiosa fiducia alla propria
evoluzione, senza timore o scoraggiamento.

“L’evoluzione ha fine?”, chiese un giorno un visitatore a Paramahansa Yogananda.

“Non ha mai fine”, fu la risposta. “Il progresso continua finché l’uomo non ha raggiunto
l’infinito”.

A Mount Washington la reincarnazione era parte normale del nostro modo di pensare e non ci stupivamo
affatto quando il maestro, come succedeva a volte, accennava alle nostre o alle altrui vite passate.

Guardando Jan Savage, un bambino di nove anni, un giorno esclamò ridendo: “Il piccolo Jan non è un
bambino. E’ ancora un vecchio!”.

Una volta gli confessai che avevo sempre desiderato vivere in solitudine. La sua reazione fu: “E’
perché così vivevi una volta. La maggior parte di quelli che sono con me hanno vissuto in solitudine
parecchie vite passate.” Queste sue osservazioni erano tanto casuali che di rado coglievo
l’occasione di rivolgergli delle domande più precise, alcuni però esprimevano un interesse più
profondo e le risposte del Maestro erano a volte del tutto esplicite.

Alcuni anni dopo che il dottor Lewis aveva perso la madre, Yogananda, conoscendo la devozione che il
dottore aveva nutrito per lei, lo informò: “E’ rinata. Se vai a…” e menzionò una località del New
England, “la potrai rivedere”. Il dottor Lewis si mise in viaggio.

“Fu un’esperienza inquietante”, mi raccontò al suo ritorno. “La bambina aveva soltanto tre anni, ma
in molti dei suoi atteggiamenti ella assomigliava proprio a mia madre. Notai anche che dal primo
momento in cui mi vide mostrò per me una immediata simpatia, quasi mi riconoscesse”.

La signora Vera Brown andò una sera a teatro col maestro e alcuni discepoli. Una ragazzina seduta
nella fila davanti a loro richiamò la sua attenzione. “Non riuscivo a staccarle gli occhi di dosso”,
mi confessò più tardi. “C’era qualcosa in lei che mi affascinava. Sembrava molto più vecchia e
saggia della sua età, traspariva da lei una profonda tristezza. Finita la rappresentazione, il
Maestro mi chiese: “Eri affascinata da quella ragazzina, vero?”. “Si, signore”, risposi. “Non so
perché, ma non ho potuto fare a meno di guardarla per tutto il tempo che siamo rimasti nella sala”.

“Nella sua vita precedente”, disse il Maestro, “ella morì in Germania in un campo di concentramento.
Ecco perché ha un’espressione tanto triste. La sua tragica esperienza, però, e la compassione che
sviluppò conseguentemente l’hanno resa santa. E’ stata la saggezza che hai intuito in lei ad
attrarre tanto la tua attenzione”.

Un giorno gli fu dato da reggere un neonato. “Stavo quasi per lasciarlo cadere”, raccontò in seguito
agli amici. “Tutt’a un tratto avevo visto, latente in quella piccola forma dall’aspetto innocente,
la coscienza reincarnata di un assassino”.
Le discussioni sulla reincarnazione in sua presenza acquistavano un profondo interesse. Un giorno
chiesi al Maestro: “Giuda aveva conseguito in qualche misura una realizzazione spirituale?”.

“Naturalmente il suo karma non doveva essere tanto buono”, rispose il Maestro, “ma, ciononostante,
egli era un profeta”.
“Davvero?”. Questa variazione sul tema comune della scelleratezza di Giuda mi lasciò esterrefatto.

“Ma certo”, confermò enfaticamente il Maestro. “Fu a buon diritto uno dei dodici apostoli. Ma
dovette poi passare attraverso duemila anni di sofferenze per il suo tradimento. Fu liberato in
questo secolo, in India. Gesù apparve a un maestro di laggiù e gli chiese di liberarlo. Conobbi
Giuda in questa vita”, soggiunse.

“Voi!”. Continuai avidamente a indagare. “Che aspetto aveva?”.

“Sempre molto tranquillo e sulle sue. Manifestava ancora un certo attaccamento per il denaro. Un
giorno un altro discepolo cominciò a beffarsi di lui per questo difetto, ma il maestro scosse il
capo. “No”, lo ammonì, “lascialo in pace”.
Nel 1936 Yogananda visitò Stonehenge in Inghilterra e in quella occasione osservò, rivolto al suo
segretario, Richard Wright (il fratello di Daya Mata): “Anch’io ho vissuto qui tremilacinquecento
anni fa”.

A volte ci affascinava con accenni, sempre casuali, alle vite passate di famosi personaggi storici.
“Winston Churchill”, ci narrò, “era Napoleone. Napoleone voleva conquistare l’Inghilterra;
Churchill, come primo ministro, soddisfece tale ambizione. Napoleone voleva distruggere
l’Inghilterra; nei panni di Churchill gli toccò presiedere alla disintegrazione dell’Impero
britannico. Napoleone fu mandato in esilio, ma ritornò in seguito al potere; Churchill, in modo
analogo, fu costretto a ritirarsi dalla scena politica, ma dopo qualche tempo resse nuovamente le
sorti dell’Inghilterra”.

E’ un fatto notevole che Churchill, in gioventù, abbia trovato ispirazione nelle imprese militari di
Napoleone.

“Hitler”, continuò il Maestro, “fu Alessandro il Grande”. Un interessante punto di paragone in
questo caso è che tanto l’uno che l’altro adottarono in guerra una strategia basata su attacchi
fulminei, il blitzkrieg come lo chiamava Hitler. In oriente, naturalmente, dove le conquiste di
Alessandro furono responsabili della distruzione di fiorenti e progredite civiltà, l’appellativo “il
Grande” è citato sempre in tono sarcastico.

Il Maestro aveva sperato di ridestare in Hitler il ben noto interesse di Alessandro per le dottrine
indiane, indirizzando così le ambizioni del dittatore verso il conseguimento di obiettivi più
spirituali. Compì anche il tentativo di incontrare Hitler nel 1935 ma la sua richiesta fu respinta.

Mussolini, a detta del Maestro, fu Marco Antonio; il kaiser Guglielmo fu Giulio Cesare; Stalin fu
Gengis Khan.

“E Franklin Roosevelt?” chiesi.

“Non l’ho mai detto a nessuno”, rispose il Maestro con un sorrisetto malizioso. “Non vorrei passare
dei guai!”.

Abraham Lincoln, ci informò, era stato uno yogi nella regione dell’Himalaya, dove era morto col
desiderio di dedicare la propria vita futura a instaurare l’eguaglianza razziale. La sua nascita
come Lincoln fu appunto destinata all’ademp
imento di tale voto. “Egli è rinato ancora una volta in questo secolo”, disse il Maestro, “come
Charles Lindbergh”.

E’ interessante osservare come il plauso pubblico negato a Lincoln che pur l’aveva meritato
ampiamente, fu tributato a Lindbergh spontaneamente. E’ anche interessante notare che dopo la morte
di Lindbergh un suo amico hawaiano, Joseph Kahaleushi esclamò: “Questo non è un uomo insignificante,
è simile a un presidente!” Nota: The Reader’s Digest, dicembre 1974, pag. 258. Fine nota.

Charles Lindbergh mostrava vivo interesse per la filosofia indiana. Avendo soddisfatto il suo
desiderio, come yogi, di operare in favore dell’uguaglianza razziale, e avendo rifiutato, come
Lindbergh, il successo che gli fu tributato come ricompensa karmica per il suo buon successo come
Lincoln, si può supporre che nella prossima vita diventerà nuovamente uno yogi.

Parlando di mistici, Yogananda ci raccontò che Teresa Neumann, la cattolica tedesca di Konnersreuth,
in Germania, segnata dalle stigmate, era Maria Maddalena. “Ecco perché”, esclamò il maestro, “le
furono concesse le visioni della passione e crocifissione di Cristo”.

“Lahiri Mahasaya”, mi disse una volta a Twenty-Nine Palms, “fu il più grande santo del suo tempo. In
una vita precedente fu re Janaka Nota: Janaka, oltre che re, fu anche uno dei più grandi maestri
dell’India Antica. Fine nota. Babaji lo iniziò in quel palazzo dorato poiché egli era vissuto prima
in un palazzo.

Secondo la versione di un altro discepolo, il Maestro avrebbe detto a qualcun altro che Lahiri
Mahasaya fu anche il grande mistico medioevale Kabir.

“Babaji”, disse, “è un’incarnazione di Krishna, il più grande profeta dell’India”.

Il Maestro ci rivelò poi che lui stesso fu il più intimo amico e discepolo di Krishna, Arjuna.
(“Principe dei devoti” così è denominato nella Bhagavad Gita). Non fu difficile per noi credere che
fosse stato quel poderoso guerriero. L’incredibile forza di volontà di Yogananda, l’innato dono per
il comando, la sua forza fisica, potente quando voleva adoperarla, tutto contribuiva a
caratterizzare quella tempra di eroe al quale non era preclusa nessuna conquista. Parlando di quella
incarnazione, il maestro spiegò: “Ecco perché, in questa vita, ho dei rapporti così intimi con
Babaji”.

Egli conosceva l’importanza di alternare gli insegnamenti astratti con queste interessanti pagine
di vita. Per la maggior parte della gente non esiste il ricordo fra una vita e l’altra, poiché vi
sono delle barriere che si frappongono insuperabili. Ma per l’uomo saggio le barriere scompaiono.
L’interesse reale del Maestro, e anche il nostro, era però focalizzato sul conseguimento
dell’illuminazione divina. Questa familiarità con la legge della reincarnazione ci aiutava a
rinsaldare la nostra determinazione per il raggiungimento dell’illuminazione divina e per sfuggire
in tal modo alla serie monotona delle morti e rinascite.

Ciò servì anche a chiarire alcune nostre difficoltà spirituali.

Henry Schaufelberger ed Ed Harding (un altro discepolo più anziano) furono afflitti, per un certo
tempo, da una animosità reciproca profonda ed apparentemente irrazionale.

“E’ che voi eravate nemici in una vita precedente”, fu la spiegazione che Henry ricevette dal
Maestro al quale aveva chiesto consiglio. Conoscerne il motivo, aiutò entrambi a comprendere meglio
il problema e a superarlo.

Come ho già spiegato, la dottrina della reincarnazione è in stretta relazione con la legge del
karma. A volte si ode l’obiezione: “Ma che posso imparare dalla sofferenza se non ricordo le azioni,
compiute in vite precedenti, che l’hanno provocata? La risposta è: tanto l’azione quanto la sua
conseguenza karmica sono il riflesso palese di una tendenza mentale che un individuo porta ancora
con sé; è su questa tendenza che la legge del karma opera.

Se, per esempio, per la mia cupidigia, avessi in passato privato qualcuno della sua eredità
ingannandolo e in questa vita soffrissi le conseguenze di quell’azione con la perdita di un’eredità,
tanto l’azione da me compiuta, quanto quella subita, servirebbero a sottolineare la mia avidità.
Potrei aver dimenticato ciò che ho fatto, ma se ora decido che la frode è un’azione che non deve
essere né compiuta né subita e risolvo da parte mia di non frodare più, avrò per lo meno sciolto un
nodo di questa tendenza. Ci possono essere altri nodi da sciogliere, poiché una serie di azioni
sarebbero sorte da quella singola tendenza e l’avrebbero rinforzata. Se sono saggio, la perdita di
quell’eredità non mi farà solo riflettere sull’immoralità della frode, ma mi indurrà anche a
risalire alle origini di questa forma di disonestà: l’avidità di denaro. Concluderei allora che è
questo l’errore e cercherei di scoprire ed estirpare in me ogni germe di cupidigia. Quando questo
sforzo fosse coronato da successo, verrebbe stabilito un campo di forza di non-attaccamento che
annullerebbe o minimizzerebbe le conseguenze karmiche di ogni altro atto di avidità compiuto in
passato.

Il potere del karma dipende in gran misura dall’intensità di pensiero associato ad esso.

Supponiamo che abbia superato la cupidigia e conseguito il distacco dai possessi materiali prima di
perdere quell’eredità. In tal caso il danaro perduto mi verrebbe restituito senza che me lo
aspettassi, o in ogni modo non ne soffrirei tanto.
Patanjiali, l’antico interprete delle dottrine yoga, afferma nei suoi Yoga Sutra che, quando si sia
superata ogni tendenza all’avarizia, si attrae la ricchezza sufficiente per le proprie necessità
vitali; Patanjali si esprime pittorescamente così: “Si avranno gioielli in abbondanza”. (Nota: Yoga
Sutra II, 37).

E’ importante comprendere che la legge del karma è assolutamente impersonale. Dal proprio karma si
può imparare qualora ci sia la volontà di farlo, ma è anche possibile rifiutarsi.

Una reazione stolta alla perdita dell’eredità che abbiamo portato come esempio sarebbe cercare di
“prendersi la rivincita” sul mondo, frodando altri dei loro possessi; chi scegliesse questa strada,
però, non farebbe che rafforzare la tendenza che ha attratto su di lui la prima sventura, seminando
maggiore sofferenza in futuro.

Il dottor Lewis chiese una volta al Maestro perché un suo conoscente fosse nato con un piede
deforme. “E’ perché nella sua ultima vita diede un calcio a sua madre”, rispose Yogananda.

Il fatto di avere in questa vita un piede deforme non avrà certo indotto quell’uomo a non prendere a
calci sua madre, ora.

Deve però aver agito indirettamente su tale tendenza. La madre dopo tutto, come origine della sua
esistenza fisica, rappresentava per lui in modo particolarissimo la sacralità della vita. Quando la
prese a calci, egli di fatto espresse il suo disprezzo per la vita stessa. Il suo piede deforme in
questa incarnazione deve averlo fatto sembrare, per lo meno ai suoi occhi, un oggetto di disprezzo.
Una reazione poco saggia a questa immagine di se stesso avrebbe potuto fargli odiare più che mai
l’esistenza, attitudine che sarebbe rimasta in lui per molte vite, fino a quando disperato, non
decidesse di cambiare. Una reazione saggia gli avrebbe fatto comprendere quanto sia grande la
fortuna di possedere un corpo perfetto. Automaticamente sarebbe nato in lui il rispetto per la vita
e per tutte le madri.

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