L’arte di vivere la tecnica della meditazione vipassana 6a

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L’arte di vivere la tecnica della meditazione vipassana 6

secondo S.N.Goenka) – di William Hart (parte sesta)

traduzione di
MARIA ANGELA PALA e PIERLUIGI GONFALONIERI

CAPITOLO SESTO

LA PRATICA DELLA CONCENTRAZIONE

Con la pratica di sila tentiamo di controllare le nostre parole e le nostre azioni fisiche. Tuttavia, le cause della sofferenza si trovano nelle nostre azioni mentali. Misurare soltanto le nostre parole e azioni è inutile se la mente continua a ribollire fra bramosie, avversioni e azioni mentali dannose. Sdoppiati in questo modo, non potremo mai essere felici. Prima o poi bramosia e avversione proromperanno e ci spingeranno a trasgredire sila, danneggiando noi stessi e gli altri

Il nostro intelletto ci avverte che è sbagliato commettere azioni dannose: dopo tutto, per migliaia di anni le religioni hanno predicato l’importanza della morale. Ma quando sopraggiunge una tentazione, essa sovrasta la mente e allora si trasgredisce sila. Un alcolizzato può essere perfettamente conscio che non dovrebbe bere perché l’alcol gli fa male, ma, quando il desiderio nasce, egli cerca l’alcol e si intossica. Non può fermarsi, perché non ha alcun controllo sulla sua mente. Ma quando si impara a non commettere un’azione mentale dannosa, diviene facile trattenersi da parole e azioni dannose.

Poiché il problema ha origine nella mente, dobbiamo confrontarci con esso a livello mentale; e per farlo dobbiamo intraprendere la pratica di bhàvanà, che significa letteralmente «sviluppo mentale» e che, nel linguaggio comune, si designa con il termine «meditazione». Sin dai tempi del Buddha, il significato della parola bhàvanà era diventato vago in quanto la pratica era caduta in disuso.In tempi recenti è stata utilizzata in riferimento a qualsia-si tipo di esercizio mentale o di elevazione spirituale, persino ad attività come leggere, parlare, ascoltare o riflettere su Dhamma. Il termine « meditazione », come viene per lo più tradotto il sostantivo pàli bhàvanà, viene usato anche in riferimento a svariate attività, dal rilassamento mentale ai sogni a occhi aperti e alle libere associazioni fino all’autoipnosi. Tutto questo è ben lontano da ciò che il Buddha intendeva significare con bhàvanà. Con questo termine egli si riferiva a specifici esercizi mentali, a tecni-che precise per concentrare e purificare la mente.

Bhàvanà comprende due importanti parti o sezioni: la concentrazione (samàdhi) e la saggezza (panna). La pratica della concentrazione è anche definita « sviluppo della tranquillità» (samatha-bhàvanà) e quella della saggezza «sviluppo della comprensione profonda» (vipassanà-bhàvana).

La pratica di bhàvanà inizia con la concentrazione, che è la seconda suddivisione del Nobile Ottuplice Sentiero.

È l’azione benefica di imparare a controllare i processi mentali, per padroneggiare la propria mente. Tre parti del sentiero si collocano sotto questo tipo di pratica: il giusto sforzo, la giusta consapevolezza e la giusta concentrazione.
Il giusto sforzo

E il primo passo della pratica di bhàvanà. La mente viene facilmente sopraffatta dall’ignoranza, facilmente influenzata dalla bramosia e dall’avversione. Sta a noi rinforzarla, così che diventi salda e stabile, uno strumento utile per esaminare la nostra natura ai livelli più profondi, per scoprire e quindi rimuovere i nostri condizionamenti.

Il medico che desidera diagnosticare la malattia di un suo paziente, preleverà un campione di sangue e lo esaminerà al microscopio: e per far questo innanzitutto dovrà metterlo a fuoco e fissarlo in questa posizione. Solo allora sarà possibile osservare il campione, scoprire la causa della malattia e determinare la cura appropriata per eliminarla. Allo stesso modo noi dobbiamo imparare a mettere a fuoco la mente, fissarla e mantenerla su un singolo oggetto di attenzione. In tal modo la trasformiamo in uno strumento atto ad esaminare la nostra realtà più sottile e profonda.

Il Buddha ha indicato varie tecniche per concentrare la mente, adattandole alle caratteristiche di ciascuna persona che andava da lui per ricevere l’insegnamento. La tecnica più appropriata per esplorare la realtà interiore, la tecnica che il Buddha stesso praticò, è quella dell’ànàpàna-sati, la « consapevolezza della respirazione ».

La respirazione è un oggetto su cui concentrare l’attenzione alla portata di tutti, perché tutti respiriamo dal momento in cui veniamo alla luce fino al momento in cui moriremo. È un oggetto di meditazione universalmente accessibile e universalmente accettabile. Per iniziare la pratica di bhàvanà, i meditatori si siedono, assumono una posizione eretta e confortevole e chiudono gli occhi. Dovrebbero stare in una stanza tranquilla, senza possibilità di distrazioni. Volgendosi dal mondo esteriore a quello intcriore, essi constatano che l’attività più preminente è il loro respiro; per cui rivolgono l’attenzione a questo oggetto: il respiro che entra ed esce dalle loro narici.
Non si tratta di un esercizio di respirazione, ma di un esercizio di consapevolezza. Lo sforzo non è quello di controllare il respiro, ma di prendere coscienza di come il respiro stesso si manifesta: se è lungo o corto, pesante o leggero, forte o delicato.

Si fissa l’attenzione sul respiro il più a lungo possibile, senza alcuna distrazione che rompa la continuità della consapevolezza.

Tutti i meditatori si accorgono subito di quanto sia difficile. Se ci sforziamo di concentrarci sulla respirazione, iniziamo a lamentare dei dolori alle gambe. Se cerchiamo di eliminare tutti i pensieri che ci distraggono, ecco che ci si presentano alla niente migliaia di cose: ricordi, progetti, speranze, timori. Una di queste ci cattura l’attenzione e dopo un po’ ci rendiamo conto che abbiamo completamente dimenticato il respiro. Iniziamo di nuovo, con rinnovata determinazione, e di nuovo, poco dopo, ci rendiamo conto che la mente è sgusciata via a nostra insaputa. Chi è che controlla? Quando ci si dedica a questo esercizio, diviene subito chiaro che di fatto la mente è al di fuori del nostro controllo. Come un bambino viziato che prende un giocattolo, si annoia e ne prende un altro, e poi un altro ancora, la mente corre da un pensiero, da un oggetto di attenzione a un altro, fuggendo dalla realtà.
Questa è un’abitudine radicata della nostra mente, è il modo in cui si è sempre comportata durante la nostra vita. Ma una volta che iniziamo a indagare la nostra vera natura, questa distrazione deve cessare. Dobbiamo cambiare gli schemi mentali abituali e imparare a rimanere nella realtà. Cominciamo facendo in modo di fissare l’attenzione sul respiro. Quando notiamo che essa sta divagando, con calma e pazienza riportiamola di nuovo indietro. Se non ci riusciamo, riproviamo una seconda volta e magari una terza. Sorridendo, senza tensione, senza scoraggiarci, continuiamo a ripetere l’esercizio. Dopo tutto, le abitudini di una vita non si cambiano in pochi minuti. Il compito richiede una pratica continua e ripetuta, molta calma e pa-zienza. Ecco come sviluppare la consapevolezza della realtà. Questo è il giusto modo di compiere degli sforzi.
Il Buddha ha descritto quattro tipi di giusto sforzo:

— prevenire l’insorgere di stati d’animo malvagi e nocivi;
— abbandonarli qualora dovessero sorgere;
— generare stati d’animo benefici che ancora non ci sono;
— mantenerli senza interruzione, sviluppandoli fino al la piena maturità e perfezione.

praticando la consapevolezza del respiro, si praticano contemporaneamente tutti e quattro i tipi di sforzo sopraelencati. Sedendoci tranquilli e fissando l’attenzione sul respiro senza che intervengano altri pensieri, inneschiamo e manteniamo un salutare stato di autoconsapevolezza. Ci sforziamo di non cadere in distrazioni o in assenze, di non perdere di vista la realtà. Se sorge un pensiero, non lo seguiamo ma riportiamo di nuovo la nostra attenzione sul respiro. In tal modo, sviluppiamo la capacità della mente di rimanere concentrata su un determinato oggetto di attenzione e di resistere alle distrazioni: due qualità essenziali per la concentrazione.

– La giusta consapevolezza –

Osservare la respirazione è anche un mezzo per praticare la giusta consapevolezza. La nostra sofferenza discende dall’ignoranza. Reagiamo perché non conosciamo la nostra realtà. La mente trascorre la maggior parte del tempo persa in fantasie e illusioni, rivivendo esperienze piacevoli o spiacevoli e anticipando il futuro con impazienza o con paura. Mentre siamo persi in tali bramosie o avversioni, non siamo consapevoli di ciò che sta avvenendo in questo istante, di ciò che stiamo facendo ora. E tuttavia, per ciascuno di noi, questo istante, qui-e-ora, è proprio il più importante. Non possiamo vivere nel passato, perché se ne è andato. Non possiamo vivere nel futuro, perché è sempre al di là della nostra portata. Possiamo vivere solo nel presente.

Se siamo inconsapevoli delle nostre azioni presenti, siamo condannati a ripetere gli errori del passato e non potremo mai riuscire a realizzare i nostri sogni nel futuro. Ma se siamo in grado di sviluppare la capacità di essere consapevoli del momento presente, possiamo servirci del passato come di una guida per regolare le nostre azioni future, così da poter conseguire il nostro scopo.
Dhamma è il sentiero del qui-e-ora. Pertanto dobbiamo sviluppare la nostra capacità di essere consapevoli del momento presente. Abbiamo bisogno di un metodo per concentrare l’attenzione sulla nostra realtà del momento, e questo metodo è la tecnica di ànàpàna-sati. La sua pratica sviluppa la consapevolezza di sé qui-e-ora: in questo momento inspirando, in questo momento espirando. Praticando la consapevolezza del respiro, diventiamo consapevoli del momento presente.

Un’altra ragione per sviluppare la consapevolezza del respiro è il desiderio di sperimentare la realtà ultima. Concentrarsi sul respiro può aiutarci a esplorare qualsiasi cosa di noi che ci è ancora sconosciuta, a portare alla co-scienza tutto ciò che è inconscio.

Tale concentrazione agisce da ponte fra la parte conscia e quella inconscia della mente, perché il respiro funziona sia consciamente che inconsciamente. Possiamo decidere di respirare in un modo particolare, di controllare la respirazione. Possiamo persino smettere di respirare per un po’. E tuttavia, quando interrompiamo i tentativi di controllare la respirazione, essa continua senza alcuna sollecitazione.

Per esempio, possiamo iniziare a respirare intenzionalmente, con una certa forza, per poter fissare più facilmente la nostra attenzione. Appena la consapevolezza del respiro diventa chiara e stabile, permettiamo al respiro di procedere naturalmente, sia esso forte o leggero, profondo o superficiale, lungo o corto, veloce o lento. Non facciamo alcuno sforzo per regolarlo, lo sforzo è solo quello di esserne consapevoli. Attraverso la consapevolezza della respirazione naturale, possiamo cominciare a osservare il funzionamento automatico del corpo, un’attività che generalmente è inconscia. Dall’osservazione della realtà grossolana del respiro intenzionale, siamo passati ad osservare la realtà più sottile del respiro naturale. Abbiamo iniziato a muoverci oltre la realtà superficiale verso la consapevolezza di una realtà più sottile.

Un’altra ragione per sviluppare la consapevolezza del respiro consiste nel fatto che essa ci permette di liberarci dalla bramosia, dall’avversione e dall’ignoranza, divenendone in primo luogo consapevoli. È un’operazione in cui il respiro ci può aiutare, in quanto agisce come riflesso del proprio stato mentale. Quando la mente è calma e in pace, il respiro è regolare e non faticoso. Ma ogni volta che nella mente sorgono stati negativi, siano essi di ira, odio, paura o passione, allora il respiro diventa più aspro, pesante e rapido, avvertendoci così del nostro stato mentale e consentendoci di affrontarlo.

C’è però un’altra ragione per praticare la consapevolezza del respiro. Dal momento che il nostro scopo è conseguire una mente libera da qualsiasi negatività, dobbiamo fare attenzione che ogni passo che compiamo verso tale scopo sia puro e benefico. Anche allo stadio iniziale del conseguimento di samàdhi, dobbiamo usare un oggetto di attenzione benefico, come lo è il respiro. Infatti non possiamo provare bramosia o avversione nei confronti del respiro, in quanto è una realtà totalmente scissa sia dall’illusione che dalla delusione. Costituisce quindi un oggetto d’attenzione appropriato.

Nel momento in cui la mente è pienamente concentrata sul respiro, è libera dalla bramosia, libera dall’avversione, libera dall’ignoranza. Per quanto breve possa essere tale momento di purezza, è tuttavia assai potente perché sfida tutti i nostri condizionamenti passati. Tutte le reazioni accumulate sono stimolate e iniziano a manifestarsi come difficoltà di vario tipo, mentali o fisiche, che ostacolano i nostri sforzi tesi a sviluppare la consapevolezza. Possiamo sperimentare l’impazienza di progredire, che è una forma di bramosia, così come può sorgere avversione, sotto forma di collera e depressione, perché i progressi ci sembrano lenti. Talvolta veniamo sopraffatti dalla sonnolenza e ci assopiamo non appena ci sediamo a meditare. Talvolta siamo in uno stato di agitazione tale che non riusciamo a star fermi o cerchiamo delle scuse per evitare di meditare. Talvolta, infine, lo scetticismo mina la volontà di lavorare: dubbi ossessivi e irragionevoli sul nostro insegnante o sull’insegnamento stesso, oppure sulla nostra capacità di meditare. Quando sorgono queste difficoltà, ci viene persine in mente di lasciar perdere completamente la pratica.
E in queste circostanze che dobbiamo comprendere che questi ostacoli sono una reazione al nostro successo nella pratica della consapevolezza del respiro. Se perseveriamo, poco per volta essi spariranno e il lavoro diventerà più facile, in quanto anche in questo primo stadio della pratica alcuni strati di condizionamento vengono sradicati dalla superficie della mente. In tal modo, anche quando pratichiamo la consapevolezza del respiro, iniziarne a ripulire la mente e ad avanzare verso la liberazione.

– La giusta concentrazione –

Fissare l’attenzione sul respiro sviluppa la consapevolezza del momento presente. E una giusta concentrazione consiste nel mantenere questa consapevolezza momento per momento, il più a lungo possibile.
Anche nelle azioni quotidiane della vita ordinaria è richiesta la concentrazione, ma questa non è necessariamente giusta concentrazione. Una persona può concentrarsi per soddisfare un desiderio sensuale o per prevenire una paura. Un gatto aspetta con tutta l’attenzione concentrata sulla tana di un topo, pronto ad assalirlo non appena compare. Un borsaiolo si concentra sul portafoglio della sua vittima, aspettandoli momento di prenderlo. Di notte, dal suo lettino, un bimbo fissa impaurito l’angolo più oscuro della stanza, immaginando dei mostri nascosti nell’ombra. In nessuno di questi casi c’è la giusta concentrazione, la concentrazione, cioè, che può essere usata per la liberazione. Samàdhi deve avere come suo centro un oggetto che è libero da tutte le bramosie, da tutte le avversioni e da tutte le illusioni. Nel praticare la consapevolezza del respiro si scopre quanto sia difficile mantenere una consapevolezza ininterrotta. Nonostante la ferma determinazione di non distogliere l’attenzione dal respiro, in qualche modo essa scivola via inosservata. Scopriamo di essere come un ubriaco che, cercando di camminare lungo una linea retta, procede invece a zigzag.

Ed effettivamente siamo ubriachi, per la nostra ignoranza e le nostre illusioni, e così continuiamo a vagare nel passato o nel futuro, nella bramosia o nell’avversione. Non possiamo rimanere sul giusto sentiero della consapevolezza prolungata.

I meditatori dovrebbero essere sufficientemente saggi da non farsi deprimere o scoraggiare da queste difficoltà, bensì comprendere che ci vuole molto tempo per cambiare le abitudini mentali sedimentate nel corso di tanti anni e che ciò può essere fatto solo attraverso un lavoro costante, ininterrotto, paziente e perseverante. Il nostro compito consiste semplicemente nel riportare l’attenzione al respiro non appena notiamo che si è smarrita. Se possiamo far questo, abbiamo compiuto un importante passo verso il cambiamento di tutte le abitudini vagabonde della nostra mente. E attraverso una pratica ripetuta diventa possibile riportare di nuovo l’attenzione sul respiro sempre più rapidamente. Con gradualità, i periodi di negligenza si accorciano sempre più, mentre aumentano quelli di samàdhi, di consapevolezza prolungata.

Quando la concentrazione si rafforza, cominciamo a sentirci rilassati, felici e pieni di energia. A poco a poco il respiro cambia, diviene più lieve, regolare, leggero, superficiale. A volte può sembrare che la respirazione sia del tutto cessata. Di fatto, appena la mente si tranquillizza, anche il corpo si calma e il metabolismo rallenta, per cui è richiesto meno ossigeno.

A questo livello, alcuni possono avere delle esperienze inusuali: vedere luci o avere visioni mentre siedono ad occhi chiusi, o udire suoni fuori dall’ordinario, per esempio. Tutte queste cosiddette esperienze extrasensoriali sono dei semplici segnali che indicano che la mente ha conseguito un più alto livello di concentrazione. In se stessi, questi fenomeni non hanno importanza e non bisogna prestar loro attenzione. L’oggetto della consapevolezza rimane il respiro, tutto il resto è distrazione. Né ci si deve aspettare tali esperienze: in alcuni casi avvengono, in altri no.

Tutte queste esperienze inusuali sono unicamente delle pietre miliari che segnalano un progresso sul sentiero. Talvolta queste pietre miliari possono essere fuori vista, o noi possiamo essere così attenti al sentiero che tiriamo dritto senza notarle. Ma se prendiamo una di queste pietre miliari come meta finale e ci aggrappiamo ad essa, cessiamo di fare progressi. Dopotutto, sono innumerevoli le esperienze sensoriali inusuali che si possono avere. Coloro che praticano Dhamma non cercano tali esperienze, ma piuttosto la comprensione profonda della realtà, così da ottenere la liberazione dalla sofferenza.

Pertanto continuiamo a prestare attenzione solo al respiro. Non appena la mente acquista maggiore concentrazione, il respiro diviene più leggero e più difficile da seguire, e quindi per rimanere consapevoli bisogna esercitare uno sforzo ancora più grande. In tal modo continuiamo a levigare la mente, a rendere più acuta la concentrazione, fino a farla diventare uno strumento con cui penetrare al di là della realtà apparente, in grado di osservare la realtà interiore più sottile all’interno di noi stessi.

Esistono molte altre tecniche per sviluppare la concentrazione: ripetere una parola o fissarsi su un’immagine visiva o anche compiere più e più volte una determinata azione fisica. Così facendo ci si assorbe nell’oggetto di attenzione e si consegue uno stato beato di trance. Sebbene tale stato sia senza dubbio molto piacevole per tutta la sua durata, quando finisce ci si ritrova catapultati nella vita ordinaria con gli stessi problemi di prima. Queste tecniche operano sviluppando uno strato di pace e di gioia alla superficie della mente, ma in profondità il condizionamento rimane intatto. Gli oggetti che queste tecniche utilizzano per conseguire la concentrazione non hanno alcun nesso con la nostra realtà momento per momento. La beatitudine che si ottiene è sovrapposta, creata intenzionalmente piuttosto che sorta spontaneamente dalle profondità di una mente purificata. Il giusto samàdhi non può essere un’intossicazione spirituale. Deve essere libero da ogni artificio, da ogni illusione.

Anche nell’insegnamento del Buddha sono vari gli stati di trance —jhàna — che possono essere ottenuti. Al Buddha stesso furono insegnati otto stati di assorbimento mentale prima di divenire illuminato, ed egli continuò a praticarli per tutta la vita. Tuttavia, gli stati di trance da soli non poterono liberarlo. Perciò, quando insegnava gli stati di assorbimento, sottolineava che la loro funzione era unicamente quella di aiutare a sviluppare la comprensione profonda della realtà, al pari delle pietre che servono per attraversare un fiume. I meditatori sviluppano la facoltà della concentrazione non per sperimentare stati di beatitudine o di estasi, quanto piuttosto per forgiare la mente come uno strumento con cui esaminare la propria realtà e rimuovere i condizionamenti che causano sofferenza. Questa è la giusta concentrazione.

Domande e risposte

DOMANDA: Perché insegnate agli studenti a praticare ànàpàna-sati concentrandosi sulle narici e non sull’addome?

SATYA NARAYAN GOENKA: Perché per noi ànàpàna-satì viene utilizzato come preparazione per la pratica di Vipassana, e in questo tipo di Vipassana è necessaria una concentrazione particolarmente forte. Più l’area di attenzione è limitata, più forte sarà la concentrazione. Per sviluppare la concentrazione a un tale grado, l’addome è troppo grande. L’area più adatta è quella delle narici. Ecco perché il Buddha ci ha consigliato di lavorare su quest’area.
Mentre si pratica la consapevolezza del respiro, è permesso contare i respiri o dire « dentro » mentre si inspira e «fuori » mentre sì espira?

No, non ci deve essere una continua verbalizzazione. Se ogni volta aggiungete una parola alla consapevolezza della respirazione, gradualmente la parola diventerà predominante e vi dimenticherete completamente del respiro. Direte « dentro » o « fuori » non facendo più attenzione all’atto dell’inspirare o dell’espirare. La parola diventerà un mantra. Rimanete soltanto con il respiro, il semplice respiro, nient’altro che il respiro.
Perché la pratica di samàdhi non è sufficiente per la liberazione?

Perché la purezza mentale sviluppata con samàdhi è raggiunta principalmente per mezzo della soppressione, non dell’eliminazione del condizionamento. È proprio come se qualcuno pulisse una cisterna di acqua fangosa aggiungendo una sostanza che faccia precipitare la soluzione, per esempio l’allume. L’allume fa sì che le particelle di fango sospese nell’acqua precipitino sul fondo della cisterna, lasciando l’acqua cristallina. Allo stesso modo samàdhi rende cristallini i livelli superiori della mente, ma nell’inconscio resta un deposito di impurità. Per raggiungere la liberazione, queste impurità latenti devono essere rimosse. E per rimuovere le impurità dalla profondità della mente si deve praticare Vipassana

.Non è dannoso dimenticare il passato e il futuro e prestare attenzione solo al momento presente? Dopotutto, non è così che vivono gli animali? Sicuramente chiunque dimentichi il passato è condannato a ripeterlo.
Questa tecnica non vi insegnerà a dimenticare interamente il passato o a non avere interesse per il futuro. Ma l’abitudine attuale della mente è quella di immergersi costantemente nei ricordi passati e in desideri, progetti o timori per il futuro e di rimanere ignoranti del presente. Questa abitudine malsana ci rende la vita infelice. Con la meditazione si impara a mantenere uno stabile punto d’appoggio nella realtà presente. Con questa solida base è possibile trarre la necessaria guida dal passato e fare giuste previsioni per il futuro.

Trovo che, quando medito e la mente vaga, può sorgere una bramosia; poi penso che non devo sviluppare bramosia, e comincio ad agitarmi. Come devo comportarmi in questi casi?

Per quale motivo essere agitati a causa della bramosia? Basta che accettiate il fatto: « Oh, guarda, c’è bramosia »; ecco tutto. E ne uscirete fuori. Quando scoprite che la mente ha vagato, basta accettare questo fatto, e automaticamente essa ritornerà al respiro. Non dovete creare tensioni perché c’è bramosia o perché la mente ha divagato; così facendo si crea nuova avversione. Accettate la realtà, è sufficiente questo.
Tutte le tecniche di meditazione buddiste erano già praticate nello yoga. Che cosa c’era di veramente nuovo nella meditazione insegnata dal Buddha?

Quello che oggi viene definito yoga è in realtà uno sviluppo posteriore. Patanjaìi visse circa 500 anni dopo i tempi del Buddha e naturalmente il suo Yoga Sùtra mostra l’influenza dell’insegnamento del Buddha. Certo le pratiche yoga erano note in India anche prima del Buddha ed egli stesso, prima di conseguire l’illuminazione, le sperimentò. Tutte queste pratiche, tuttavia, erano limitate a sìla e a samàdhi, la concentrazione fino al livello dell’ottavo jhana, l’ottavo stadio di assorbimento, che si trova ancora nel campo dell’esperienza sensoriale. Il Buddha scoprì il nono jhàna, Vipassana, cioè lo sviluppo della comprensione profonda della realtà che porta il meditatore alla meta ultima al di là dell’esperienza sensoriale.

Mi accorgo di essere molto propenso a sminuire gli altri. Qual è il modo migliore per affrontare questo problema?

La meditazione. Se l’ego è forte, si cerca di sminuire gli altri, di abbassare la loro importanza e accrescere la propria. Ma la meditazione dissolve naturalmente l’ego. E quando esso si dissolve, non è più possibile fare qualcosa che offenda un altro. Lavorate e il problema si risolerà automaticamente.

A volte mi sento in colpa per ciò che ho fatto.

Sentirvi in colpa non vi aiuterà, vi causerà solo danno. La colpa non ha posto nel sentiero di Dhamma. Se vi accorgete di aver agito in modo errato, accettate semplicemente il fatto senza cercare di giustificarlo o di nasconderlo. Potete anche andare da qualcuno che rispettate e dirgli: « Ho fatto questo errore, ma in futuro starò attento a non ripeterlo ». E poi meditate, e scoprirete di poter superare tutte le difficoltà.
perché tendo a rinforzare questo ego? Perché continuo a voler essere Io?

Questo è ciò che la mente è stata condizionata a fare, a causa dell’ignoranza. Ma Vipassana può liberarvi da questo dannoso condizionamento. Invece di pensare sempre a voi stessi, imparerete a pensare agli altri.

Come succede questo?

Il primo passo è riconoscere quanto si sia egoisti ed egocentrici. A meno che non si comprenda questa verità, non si può emergere dalla pazzia dell’amore di sé. Man mano che proseguirete nella pratica, vi accorgerete che anche il vostro amore per gli altri è nei fatti un amore egoistico. Capirete di amare qualcuno perché vi aspettate qualcosa da lui, vi aspettate che si comporti in un modo che vi piace: nel momento in cui questo qualcuno inizia a comportarsi in modo diverso, il vostro amore sparisce. Così vi domanderete se amate questa persona o voi stessi. La risposta vi diventerà chiara, ma non cercandola a livello intellettuale, bensì con la pratica di Vipassana. E una volta che avrete fatto questa esperienza diretta, potrete iniziare a emergere dal vostro egoismo, imparando a sviluppare un amore reale per gli altri, un amore altruistico, a senso uni-co: dare senza aspettarsi niente in cambio.
Io lavoro in una zona dove ci sono molti emarginati che chiedono l’elemosina.

Anche in Occidente? Pensavo che i mendicanti esistessero solo nei paesi poveri!

So che molti di questi emarginati hanno a che fare con la droga. Mi chiedo se dando loro dei soldi non li incoraggio a drogarsi.

Ecco perché dovete fare attenzione che ogni donazione elargita venga utilizzata correttamente. In caso contrario non aiuta nessuno. Invece di dare dei soldi a queste persone, renderete loro un vero servizio aiutandoli a uscire dalla tossicodipendenza. Qualsiasi cosa decidete di fare, dovete farla con saggezza.

Quando voi dite «Siate felici», l’altra faccia della medaglia per me è « Siate tristi »!

Perché essere tristi? Uscite dalla tristezza!

Giusto, ma pensavo che stessimo lavorando per raggiungere un equilibrio.

È l’equilibrio che rende felici. Senza equilibrio, c’è la tristezza. Siate equilibrati, siate felici!

E non: « Siate equilibrati, non siate niente »?

L’equilibrio rende felici, non annulla. Si diventa positivi quando la mente è equilibrata.

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