Il consiglio del Buddha a Meghiya

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Il consiglio del Buddha a Meghiya

di Sister Ajahn Candasiri

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.

SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

Tradotto da Gabriella De Franchis

Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito amaravati.org

Questo sutta, che appare due volte nel canone Pali (Ud. Iv i, An ix i
3), racconta di un giovane monaco, il Venerabile Meghiya, attendente
del Buddha.

Questo bhikkhu, una mattina, tornando dal giro della questua, scoprì
un meraviglioso e incantevole boschetto di manghi. Pensò che sarebbe
stato il luogo ideale per praticare la meditazione, così chiese al
Buddha se poteva recarsi là per la meditazione quotidiana.

Il Buddha rispose chiedendogli di aspettare finché un altro monaco non
fosse venuto a sostituirlo nelle sue mansioni d’attendente. Tuttavia,
il Venerabile Meghiya era ansioso di andare e insistette con la sua
richiesta: “Non c’è altro che bisogna fare qui per il Signore e nulla
da aggiungere a quanto è stato fatto, ma per me c’è qualcos’altro che
deve essere fatto e qualcosa da aggiungere a quanto è stato fatto.”.

Dopo la terza simile richiesta, il Buddha acconsentì: “Fai ora,
Meghiya, ciò che ritieni opportuno fare”. Così Meghiya andò nel
boschetto di manghi e dopo avere trovato un adeguato punto all’ombra,
si sedette, schiena dritta e iniziò la meditazione. Ma per tutto il
tempo la sua mente fu piena di pensieri inadeguati – di sensualità,
malevolenza e crudeltà. Ciò fu fonte di sorpresa e di costernazione.

Era partito pieno di fede e di aspirazione, si era trovato una
situazione che sembrava perfetta per la pratica e stava sforzandosi
enormemente – ma tutto stava andando storto, non stava portando i
risultati che si aspettava o che aveva sperato. Alla fine di quello
che doveva essere stato un pomeriggio molto difficile, tornò dal
Buddha per raccontargli dei suoi problemi.

Sembra che il Buddha non fosse affatto sorpreso nel sentire quanto era
successo. (Il commentario Pali suggerisce appunto, che il Buddha si
era rifiutato di dargli il permesso di andare, perché sapeva che non
era ancora pronto per praticare in quel modo). Poi elencò le cinque
condizioni che portano alla maturazione della liberazione del cuore,
quando questa non è ancora avvenuta:

Buoni amici

Vita virtuosa

Discorsi proficui

Sforzo sostenuto

Visione profonda dell’impermanenza, che conduce alla cessazione del Male.

Altre quattro cose, disse, dovevano essere sviluppate (bhavetabba):

Meditazione su ciò che è spiacevole (ripugnante o disgustoso) per
abbandonare la passione (la brama o il desiderio).

Gentilezza, per abbandonare la cattiva volontà.

Presenza mentale nell’inspirazione e nell’espirazione (anapanasati)
per eliminare il pensiero discorsivo.

Contemplazione dell’impermanenza (aniccasanna), per sradicare
l’orgoglio e l’egoismo: “perché, in chi riflette sull’impermanenza,
s’instaura il pensiero del non-sé; pensando al fatto che non c’è un
sé, si giunge al punto in cui è sradicato il concetto “Io sono”, alla
calma (nibbana) anche in questa vita.”

Possiamo approfondire questi punti.

Punto primo, i buoni amici (kalyanamitta hoti kalyanasampavanko): di
solito s’intende che questo significa avere un insegnante saggio o dei
saggi compagni spirituali. Sarebbe certamente appropriato in questo
contesto: il Buddha fa notare al giovane monaco l’importanza di stare
con persone che lo possano influenzare in modo sano. Tuttavia, la
parola ‘hoti’ significa ‘egli è’, quindi una traduzione più letterale
potrebbe essere: “ Egli è un amico, un conoscitore, di ciò che è bene
e sano.” Questo pone in evidenza la necessità che qualsiasi sforzo
spirituale sia motivato da un senso di ciò che è giusto, da un amore
per il bene e da un desiderio di manifestarlo nella propria vita.

Mentre la pratica motivata dall’egoismo, dal desiderio di ottenere
potere, prestigio o di approfittare degli altri causerebbe, invece che
allontanare, la sensazione di essere sempre più intrappolati nel mondo
della ricerca del proprio sé (samsara).

Il Buddha spiega che avere un buon consigliere, buoni amici o
semplicemente amore per il bene, è la base naturale per il sorgere di
altre condizioni. Così, secondo punto: “Ci si può aspettare, da chi ha
saggi compagni, che sia virtuoso” (silana hoti).

Noi impariamo dagli esempi. Nella vita del Sangha, sebbene ci sia un
formazione formale nel vinaya (disciplina monastica), la maggior parte
di quanto apprendiamo e delle nostre aspirazioni, viene dalla semplice
osservazione di come gli altri agiscono: dal loro modo di comportarsi,
da ciò che dicono (o che non dicono), da quando e come lo dicono.
L’accompagnarsi a persone che seguono gli stessi precetti stimola
interesse in questo addestramento del corpo, della parola e della
mente; veniamo incoraggiati dai risultati. Così la giusta traduzione
della seconda condizione è che ‘un monaco è virtuoso, con controllo
mantiene gli impegni presi; è perfetto nella pratica del retto
comportamento, vede il pericolo nelle debolezze frivole e si esercita
nei sentieri della pratica’.

Terzo punto: il discorso proficuo. Il sutta afferma che questo tipo di
discorso sorge facilmente e che c’è la volontà di condividere la
propria comprensione con gli altri: sorge naturalmente, secondo il
modo in cui si vive la propria vita.

Questo discorso è quello definito come ‘serio e adatto ad aprire il
cuore e conduce ad un abbandono definitivo dei valori mondani
(nibbidaya): al distacco, alla cessazione, alla calma, alla
comprensione, alla perfetta visione profonda, al Nibbana. Ciò vuol
dire parlare di desiderare poco, contenimento, solitudine, evitare la
società, di mettere in primo piano lo sforzo, virtù, concentrazione e
saggezza, di lasciare andare e di conoscenza e intuizione del lasciare
andare.’

La compagnia di amici saggi, che sono a proprio agio con se stessi,
dissipa qualsiasi sensazione di dovere reprimere o negare le
inclinazioni che non sono in accordo con queste linee guida; ci si
rende conto che non si tratta di sforzarsi per una ‘santità’ di tipo
puritano, ma che queste qualità sorgono spontaneamente con la
maturazione della pratica.

La quarta condizione è lo sforzo sostenuto. Si dimora, ‘risoluti
nell’energia, per abbandonare le cose non proficue e intraprendere ciò
che è proficuo – saldi e forti nello sforzo, senza abbandonare ciò che
si è intrapreso (senza abbandonare il fardello della rettitudine)’. Di
nuovo, un saggio maestro o un buon amico, possono incoraggiarci e
guidare i nostri sforzi verso ciò che è salutare.

In un cammino religioso, inevitabilmente, ci sono volte in cui la
pratica sembra stagnante, senza vita o totalmente improduttiva. Può
esserci la tendenza ad abbandonare tutto e tornare a cercare rifugio
nel mondo, in ciò che ci è familiare e che ci sembra comodo.

Un saggio maestro e buoni amici ci fanno ricordare della nostra
aspirazione profonda e del nostro potenziale, del pericolo intrinseco,
o dell’insoddisfazione, del mondo dei nostri sensi. Questo ci permette
di continuare verso i nostri traguardi. Praticando insieme, in un
certo senso, ci sosteniamo a vicenda quando c’è incertezza – solo
praticando al meglio delle nostre capacità.

Quinto punto: ‘un monaco possiede la visione profonda e comprende la
via della crescita e del decadimento, avendo la penetrazione Ariyan
che riguarda la via che porta alla completa distruzione del Male.’

Abbiamo bisogno che qualcuno ci ricordi dove guardare per trovare la
nostra liberazione. Non si tratta di raggiungere uno stato speciale
nel futuro, anche se tali stati possono essere la base per la visione
profonda, ma proprio in questo stesso momento.

L’ultimo Ajahn Buddhadasa era solito dire: “Non bisogna aggrapparsi a
nessuna cosa, qualsiasi essa sia!” è una visione profonda così sottile
che possiamo facilmente non afferrarla. Il nostro desiderio di
sicurezza e il potere dei nostri condizionamenti, sono tanto forti, da
poterci fare abbandonare questa chiave della porta dell’Immortalità;
siamo costretti dall’ignoranza, dalla nescienza, dal non vedere, non
volere guardare, finché non è troppo tardi.

Così abbiamo bisogno d’incoraggiamento per continuare a cercare, per
continuare a ricordare, per trovare quel punto di non attaccamento –
che non è un rifiuto verso le cose ma, piuttosto, un giusto
apprezzamento della nostra condizione umana.

Alcuni apprendono velocemente (in base al commentario, il Venerabile
Megiya ha ottenuto l’ingresso nella corrente proprio sentendo
quest’insegnamento); altri hanno bisogno di avere ripetute le lezioni
molte volte. Siamo presi da una specie di desiderio – un progetto,
un’idea, un dispiacere o un cruccio – fa male, e alla fine lasciamo la
presa.

Questo succede sempre, finché finalmente non impariamo a non
raccogliere le cose, a non attaccarci a nessuna cosa. La bellezza
della Natura sta nella sua transitorietà – non in qualcosa che permane
e che si può pretendere di possedere. Il Buddha, attraverso i suoi
sforzi, si è risvegliato a questa realtà, che lo ha liberato dal
dovere ‘arrancare e viaggiare lungo questo cerchio?’ (samsara). Questa
è la visione profonda, come spiegò al Venerabile Meghiya, che può
liberarci da tutta la sofferenza dell’attaccamento.

Il Buddha conclude con il descrivere le tecniche di meditazione che
dovrebbero essere coltivate in risposta a particolari condizioni che
possono sorgere nelle nostra mente. E’ importante considerare questa
capacità di risposta. Non ci viene richiesto di lavorare semplicemente
per sviluppare un particolare tipo di meditazione.

L’incoraggiamento sta nell’essere consapevoli di ciò che accade nelle
nostre menti in ogni momento, ed esercitare la nostra intelligenza per
scegliere la tecnica adatta a fare sorgere e mantenere uno stato di
calma, per potere permettere il sorgere della saggezza.

Quindi abbiamo: (i) La meditazione su ciò che è sgradevole (asubha)
per prevenire gli stati di passione, desiderio o brama. A volte questo
è tradotto come meditazione su ciò che è ripugnante e disgustoso, che
è appunto il caso di certi aspetti della nostra fisicità. Tuttavia un
approccio più analitico può essere efficace per indurre un senso di
neutralità e disinteresse, in opposizione all’avversione, che non è
altro che un’altra forma di desiderio.

Per esempio c’è la contemplazione su i capelli, i peli del corpo, le
unghie, i denti e la pelle che monaci e monache devono fare al momento
in cui incominciano il percorso monastico ed è un modo per smontare
l’illusione della bellezza fisica o del fascino delle persone.

Contemplare gli oggetti dal punto di vista degli elementi che le
compongono – terra, acqua, fuoco e aria, può aiutare a placare la
passione o l’interesse in cose come il cibo; guardare la forma, il
colore o la consistenza, piuttosto che essere automaticamente
assorbiti dall’attesa che qualcosa venga consumato, o provare
godimento nell’odore o nel gusto.

Poi, (ii) per affrontare la malevolenza o la cattiva volontà, è
raccomandata la pratica della gentilezza o dell’augurare il bene
(metta). Questo non significa che devono piacerci tutti, ma almeno
evitare di lasciare che la mente indugi in stati di negatività o
avversione verso gli altri.

La terza meditazione (iii) è di consapevolezza dell’inspirazione e
dell’espirazione (anapanasati). Il Buddha ha raccomandato
universalmente questa via per focalizzare la mente sul momento
presente; concentrare l’attenzione sulla respirazione, piuttosto che
essere sballottati e attirati qua e là da pensieri che ci distraggono.
Mentre la quarta contemplazione (iv) è sull’impermanenza.

Un modo per avvicinarsi a questo è attraverso l’accurata attenzione
verso il modo in cui noi facciamo esperienza di ‘noi stessi’ e degli
altri in ogni momento. Questo lacera l’illusione di una personalità
fissa e perenne, che è in ogni caso, correlata al corpo o alla mente:
c’è solo consapevolezza. Questi quattro esercizi di meditazione devono
essere praticati in continuazione per permettere la trasformazione
delle abitudini, profondamente radicate, che sorgono a causa della
nostra ignoranza.

Ma, come il Buddha fece notare al Venerabile Meghiya, la maturazione
dell’emancipazione del cuore sorgerà in modo alquanto naturale quando,
come base della nostra pratica, ci saranno le cinque condizioni.

° ° ° ° °

Ajahn Candasiri è nata in Scozia nel 1947 ed ha avuto una educazione
cristiana. Dopo l’università, ha studiato e lavorato come
ergoterapista principalmente nel campo delle malattie mentali. Nel
1977, un interesse per la meditazione la portò ad incontrare Ajahn
Sumedho, subito dopo il suo arrivo dalla Thailandia. Ispirata dai suoi
insegnamenti e dal suo esempio, iniziò l’addestramento monastico a
Chithurst, come una delle prime quattro anagarika. All’interno della
comunità monastica si è impegnata nello sviluppo dell’addestramento
vinaya delle monache. Ha condotto molti ritiri di meditazione per
laici e trova particolarmente piacevole insegnare ai giovani e
partecipare al dialogo tra Cristiani e Buddhisti.

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