I tre Gioielli della meditazione

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I tre Gioielli

di Giuliano Giustarini

Monache e monaci, seduti nella sala di meditazione, rivolti verso
un’enorme statua del Buddha, ricevono le prime luci dell’alba ; le
loro voci intonano un canto lento e pacificante. Uomini e donne, con
la testa rasata e abiti estremamente semplici, offrono il loro
risveglio quotidiano a un soave raccoglimento.

Questa tranquilla atmosfera segna, nei monasteri buddhisti, l’inizio
di una nuova giornata. Al mattino, quando il cielo è ancora buio, i
monaci si recano nella sala principale del monastero e lì rendono
omaggio ai Tre Gioielli, cioè al Buddha, al Dhamma e al Sangha. Questo
omaggio ha inizio con un triplice inchino, che rappresenta la presa di
rifugio nei Tre Gioielli ; poi seguono i canti, intervallati da un
periodo di meditazione in silenzio.

A chi si inchinano queste persone ?

In cosa si rifugiano ?

E in che modo questa presa di rifugio ha a che fare con quella
saggezza e quella consapevolezza che liberano l’uomo dal dolore
esistenziale ?
La presa dei rifugi è un fattore essenziale nel cammino di crescita
proposto dal buddhismo e deve perciò essere compresa in profondità :
soltanto se viene fatta con una motivazione chiara e autentica può
divenire uno strumento efficace al raggiungimento della liberazione
dalla sofferenza. Essa implica, di fatto, una conversione, non intesa
come mera adesione a un particolare credo o istituzione religiosa, ma
come scelta di cambiamento interiore, come urgenza di scoprire, di
conoscere, lasciandosi dietro la zavorra dell’egoismo.

Il primo dei Tre Gioielli e il Buddha. Il rifugio nel Buddha è, da un
lato, il rifugio nel Buddha storico, Siddharta Gautama : si prende
così come punto di riferimento la vita di un uomo che ha rinunciato a
tutto per dedicarsi completamente alla ricerca della libertà ultima e
incondizionata. È un esempio che spinge a interrogarsi sul senso
dell’esistenza, sulla validità o meno degli obiettivi che si è soliti
inseguire, obiettivi limitati alla soddisfazione momentanea e perciò
legati al dolore. E nel momento in cui il rifugio nel Buddha suscita
quella stessa urgenza, presente nel giovane Siddharta, di comprendere
le cause del dolore e di sradicarle, esso alimenta la crescita
spirituale della persona e si pone come un faro nell’oscurità delle
abitudini mentali.

Il rifugio nel Buddha è anche, come sottolinea il maestro thailandese
Ajahn Chah, il rifugio in ‘colui che sa’, cioè nella consapevolezza.
Significa osservare i processi fisici e mentali senza rimanerne
soggiogati. La parola ‘Buddha’, di fatto, significa risvegliato. Di
conseguenza la presa di rifugio nel Buddha è un salutare ritorno in
quella parte di noi che è già risvegliata, che è ‘pura osservazione’.

L’alternativa è il rifugio nella confusione e nella reattività che
determinano una situazione di attrito con la realtà e quindi generano
sofferenza. Da questo punto di vista il rifugio nel Buddha offre una
opportunità di pace e di serenità, una sospensione, almeno temporanea,
dei principali fattori inquinanti della mente, cioè l’ignoranza,
l’attaccamento e l’avversione.

Il secondo gioiello è il Dhamma. Il termine ‘Dhamma’ (in sanscrito
‘Dharma’) può assumere diversi significati, in relazione al contesto
in cui viene adoperato. Ad esempio può indicare i fenomeni del mondo
relativo, soggetti alla nascita e alla morte, impermanenti,
insoddisfacenti e privi di un’esistenza intrinseca. In questo caso si
parla dei dhamma che compongono il mondo condizionato e – nella
trascrizione occidentale – si usa volutamente l’iniziale minuscola.

Quando viene scritto con la maiuscola, il termine Dhamma
(letteralmente ‘legge’) può indicare sia l’insegnamento del Buddha,
sia la realtà ultima, l’incondizionato. E a questi due significati si
riferisce la presa di rifugio nel Dhamma : rifugio in un insegnamento
che conduce alla liberazione e rifugio nella liberazione stessa.
“Come il grande oceano ha un unico sapore, quello del sale, così il
Dhamma ha un unico sapore, quello della libertà” – Udana, V, 5

In questo modo la realtà ultima non è vista come una meta lontana e
difficilmente raggiungibile, ma come qualcosa che, secondo le stesse
parole del Buddha, è ‘presente qui e ora’, qualcosa che infonde
fiducia nel cammino interiore.

Significa smettere di dibatterci affannosamente nelle nostre ansie,
paure, preoccupazioni e di inseguire ciecamente la promessa illusoria
che esista una felicità ultima nel mondo condizionato.

Così facendo l’influenza delle contaminazioni mentali (come già detto
poc’anzi, ignoranza, attaccamento e avversione) sulla nostra esistenza
diminuisce, lasciando uno spazio in cui può penetrare la luce della
visione profonda, o consapevolezza. Si tratta perciò di un rifugiarsi
in quella verità incondizionata che, come afferma il maestro
thailandese Ajahn Maha Boowa, è già dentro di noi .

Al contrario, il tentativo di aggrapparci a una verità ritenuta
esterna può soltanto peggiorare la situazione di conflitto presente,
delineando un’ulteriore separazione tra noi e il contenuto
dell’esperienza.

A conferma di ciò, Ajahn Buddhadasa mette in guardia dal considerare
la presa dei rifugi come una fuga dalle difficoltà della vita.
L’esperienza fenomenica non viene negata o svilita, ma ‘svuotata’
della sua tossicità, cioè vista secondo la sua natura interdipendente,
mutevole e in ultima analisi insoddisfacente.

Il che equivale a una capacità di assaporare l’esperienza sensoriale
senza esserne schiavi, imparando, sempre di più, a ‘toccare’ la vita
nella sua totalità, dalle radici ai frutti, dolci o amari che siano.
Prendere rifugio nel Dhamma, così, non costituisce un ‘rannicchiarci’
in un angolo nascosto dove le emozioni non potranno toccarci, ma
rappresenta un’apertura verso questa stessa totalità della vita.

È però importante osservare che questa apertura ci è in gran parte
sconosciuta : quando ci affidiamo incautamente alle nostre emozioni
non ci stiamo affatto aprendo, ma stiamo cercando di afferrare un
aspetto della realtà rifiutandone altri. Nel momento in cui ci
attacchiamo a un’emozione piacevole non ci accorgiamo che ci stiamo
chiudendo in un atteggiamento di rifiuto nei confronti della vastità
dell’esperienza. Quando poi, inevitabilmente, ci si presenta qualcosa
di doloroso, o noioso, o deludente, lo respingiamo ritenendolo la
causa reale del nostro disappunto.

Proprio a cagione di questa tendenza nociva Ajahn Buddhadasa enfatizza
la necessità di non rivolgersi a un cammino interiore soltanto nei
momenti sfavorevoli, cercando un rimedio agli affanni della vita.
Anche nei periodi apparentemente più rosei possiamo osservare la
tossicità dell’attaccamento, la separazione che creiamo tra noi e la
vita stessa. Anche allora è ‘urgente’ rifugiarsi nel Dhamma, scegliere
l’apertura anziché la chiusura, il conflitto.

“Il Dhamma comprende tutti gli esseri viventi e l’infinità dei mondi :
la portata dell’amore del Dhamma non conosce confini”
Ajahn Buddhadasa

Il rifugio nel terzo gioiello, il Sangha, implica la comprensione del
contesto in cui agisce il lavoro interiore. La crescita interiore non
è un cammino individuale, ma un processo che si svolge in una
relazione universale. La pratica dunque non si limita a una dimensione
personale, cioè a una meticolosa osservazione degli elementi inerenti
la propria esperienza, ma riguarda anche il rapporto con una realtà
esterna. In altre parole, la pratica si configura nel Sangha.

Per Sangha si intende infatti la ‘comunità’ dei praticanti, vale a
dire l’insieme di coloro che dirigono le proprie energie verso il
risveglio, verso la fine del dolore. È possibile stabilire una
relazione di fiducia e di reciproco sostegno con coloro con i quali si
condivide una particolare direzione di vita, e questa relazione è
senza dubbio un terreno estremamente fertile per il lavoro interiore.
Un ambiente dove la consapevolezza è incoraggiata e non ostacolata
dalla visione dualistica è un pilastro fondamentale della pratica.

Dunque il rifugio nel Sangha comporta un rapporto di fiducia con tutti
coloro che si dirigono verso l’estinzione della sofferenza. Ma, se si
approfondisce un po’ questo aspetto, si può notare che, in realtà,
ogni essere lotta per liberarsi dalla sofferenza, dagli angusti
confini della condizione esistenziale. E da questo punto di vista la
parola ‘Sangha’ assume un valore esteso a ogni creatura ed appare
finalizzata al risveglio di qualità come l’amore e la compassione. Non
si può intendere per Sangha un’élite di privilegiati che praticano uno
specifico sistema sapienziale. Non si può escludere dall’accezione del
termine ‘Sangha’ coloro che percorrono un diverso cammino o che
apparentemente non percorrono alcun cammino.

Anche chi impiega la propria vita ad alimentare sofferenza in se
stesso e negli altri, lo fa perché si rapporta al proprio dolore
attraverso i parametri di una mente contaminata, confusa. Ma in realtà
questo individuo agisce sulla spinta di un intimo bisogno di armonia,
di pace, quindi dell’illuminazione. Ignorando le cause del proprio
‘disordine’, continua a puntellarle con azioni e pensieri distruttivi.

Alla luce di queste considerazioni, escludere qualcuno dall’ambito del
Sangha è una forma di giudizio, di separazione che impedisce di
entrare in contatto con la vita stessa. Il rifugio nel Sangha, invece,
conduce a un risveglio interiore che ha luogo nella relazione e
nell’amore, e perciò si presenta come uno strumento per trascendere
l’identificazione con l’io-mio, cioè per superare la concezione,
talvolta sottile, di una ‘mia’ pratica, una ‘mia’ meditazione, un
‘mio’ progresso spirituale.
In conclusione, rifugiarsi nei Tre Gioielli richiede una profonda
comprensione della propria motivazione a percorrere un sentiero
spirituale, insieme alla capacità di integrare il triplice rifugio nel
proprio modo di vivere e di indirizzarlo così verso la liberazione
ultima.

“Non accontentatevi di servire a parole il Buddha, il Dhamma e il
Sangha vivendo in base a tutt’altri ideali. Pronunciando la formula
del rifugio, prendete davvero rifugio, altrimenti non vivrete ai
livelli che l’essere umani vi consente”
Ajahn Buddhadasa

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