I Rifugi Lungo la Via buddhista

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I Rifugi Lungo la Via

(del venerabile Bhikkhu Bodhi)

© Ass. Santacittarama, 2008. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Silvana Ziviani

(Il seguente discorso è stato tenuto dal Venerabile Bhikkhu Bodhi nei giorni
dell’inaugurazione del Tempio di Amaravati, Inghilterra, e è stato
pubblicato col titolo “Refuges along the Path” nel Forest Sangha Newsletter,
N° 50.)

(Venerabile Bhikkhu Bodhi è un monaco theravada americano, traduttore e
commentatore del Canone pali e per diversi anni editore in capo della
“Buddhist Publication Society” di Kandy, Sri Lanka.)

L’argomento che ho scelto di trattare oggi, mi sembra uno dei più basilari;
ma comunque è sempre importante per noi tornare agli inizi e rivedere i
primi passi che abbiamo fatto da seguaci sulla Via buddhista. Pur tenendo
l’attenzione desta su quei percorsi della Via che non abbiamo ancora
compiuto, tuttavia non dobbiamo mai dimenticare i passi iniziali, che ancor
oggi ci indicano lo scopo e la direzione. Se non teniamo sempre a mente
questi primi passi essenziali, corriamo il rischio di scoraggiarci o di
diventare eccessivamente ottimisti, perdendo così l’orientamento della
direzione della Via.

Il tema è la Presa di Rifugio nella Triplice Gemma, un atto che definisce il
proprio stato di buddhista. Quando qualcuno vuol diventare un buddhista,
viene iniziato al Dhamma attraverso la formula della Presa di Rifugio, e in
seguito essi possono ripetere questa formula ogni giorno. Inoltre, ogni
cerimonia buddhista, inizia con la Presa di Rifugio. Ma spesso questa
recitazione tende a diventare un rituale meccanico e inconsapevole, di cui
si capisce poco il significato. Per impedire che accada questo, per fissare
la mente stabilmente sulla nostra prima risoluzione di seguire il Dhamma, è
utile rivedere sovente questo atto, considerandolo sotto i suoi diversi
aspetti.

All’inizio, ciò che dovrebbe attirare subito la nostra attenzione è il fatto
di intraprendere la via buddhista chiedendo rifugio. La parola ‘rifugio’
significa qualcosa che dà protezione dal pericolo, e ciò solleva la domanda:
“Qual è il pericolo che ci sovrasta e ci fa sentire la necessità di chiedere
rifugio?”. Nei Sutta il Buddha descrive la condizione umana normale come una
situazione assai precaria. Paragona la vita umana ad un uomo che viene
trascinato dalla corrente di un fiume verso l’oceano. L’uomo tenta di
salvarsi afferrandosi all’erba e ai rami che crescono lungo la riva, ma
questi si rompono sempre e infine egli viene trascinato via verso la morte.

Possiamo considerare tre livelli di pericolo da cui dobbiamo proteggerci. Il
primo è il pericolo che corriamo nella vita quotidiana, soprattutto il
pericolo di oscillare continuamente tra due estremi – l’estremo di
afferrarsi a ciò che si desidera e di cercare di evitare ciò che
consideriamo indesiderabile. Quindi cerchiamo il piacere e siamo contrari al
dolore; cerchiamo successo e siamo contrari al fallimento; cerchiamo
approvazione ed evitiamo le critiche; cerchiamo la notorietà e siamo
contrari alla cattiva reputazione. Se non siamo in grado di proteggerci da
questi due estremi che ci trascinano a loro piacimento, accadrà che saremo
insoddisfatti quando non abbiamo ciò che vogliamo e quando invece abbiamo
successo ci attaccheremo ai risultati preparandoci così il terreno per
l’infelicità futura.

Anche se riusciamo a vivere abbastanza bene la maggior parte della vita,
senza grandi catastrofi, tuttavia dobbiamo affrontare la vecchiaia. Ogni
tanto avremo degli acciacchi e anche se riusciamo a mantenerci sani per
tutta la vita dobbiamo inevitabilmente morire. Se la mente non è protetta,
quando soffriamo per la vecchiaia, ci sentiremo depressi. Se ci ammaliamo ci
sentiremo impotenti di fronte alla malattia, e quando saremo sul letto di
morte, saremo sopraffatti dalla paura, dal terrore, dalla disperazione. Ma
se abbiamo allenato e disciplinato la mente, possiamo affrontare tutte
queste calamità, senza esserne eccessivamente scossi. Quindi la prima
ragione per cercare rifugio è percorrere la strada dell’allenamento mentale
che ci permetterà di controllare gli alti e bassi della vita quotidiana,
senza dover essere trascinati nelle due opposte direzioni, senza essere
sommersi nella tristezza o nella disperazione dall’ineluttabile avanzata
della vecchiaia, della malattia e della morte.
Un secondo tipo di pericolo da cui abbiamo bisogno di protezione è quello
associato alla rinascita.

Il Buddha sempre ci insegna che questa vita presente, che inizia con la
nascita e finisce con la morte, è solo un anello di un’infinita catena di
esistenze, di una serie di rinascite. Il tipo di esistenza che avremo alla
nostra prossima rinascita è determinato dalle azioni che compiamo qui e ora.
Queste azioni sono chiamate kamma. Kamma è l’azione volontaria, azioni del
corpo, della parola e della mente che nascono da un’intenzione. Sotto la
soglia della consapevolezza, tutti questi atti di volontà lasciano sottili
depositi nella corrente continua della coscienza, nel nostro continuum
mentale. Possiamo immaginare questi depositi kammici come dei semi, semi che
sono latenti finché incontrano le condizioni adatte a manifestarsi. Allora
maturano e portano i loro effetti, i frutti.

Dei molti semi che depositiamo nella mente con le azioni della volontà, ve
ne sarà uno particolarmente rilevante e potente che si incaricherà di
formare la nuova esistenza, cioè produrrà la rinascita. Quando sentiamo
parlare di rinascita, pensiamo di dover rinascere in regni celesti
benedetti, o come re, regine e milionari. Questi pensieri, generalmente,
sono solo fantasie. Il Buddha ci dice che ci sono vari piani di esistenza in
cui può aver luogo la rinascita, e molte rinascite avvengono nel regno
inferiore a quello umano. I primi testi descrivono cinque sfere principali
di rinascita. Tre sono regni di sofferenza: l’inferno, luogo di intensa
sofferenza; il regno animale; e la sfera dei pretas o spiriti affamati –
esseri afflitti da una fame e da una sete insaziabili, che non possono mai
soddisfare. Poi ci sono i reami fortunati: il regno umano e il piano
celeste. Questi due ultimi sono considerate rinascite fortunate poiché vi è
più probabilità di felicità che di sofferenza e perché offrono l’opportunità
per un progresso spirituale in conformità col Dhamma. Negli altri regni di
dolore, questo progresso non è possibile.

Ci sono vari tipi di kamma che portano alla rinascita in diversi regni.
Tuttavia, se dovessimo contare solo sulle nostre limitate risorse – sulle
nostre comuni menti non illuminate – non avremmo idea di cosa siano. Quindi
è essenziale per noi fare affidamento su una guida perfettamente
qualificata, su qualcuno che ci possa insegnare – in modo preciso, esatto e
completo – quali tipi di azioni dobbiamo abbandonare se vogliamo scampare al
pericolo di una rinascita in un basso regno, e che tipo di azioni dobbiamo
coltivare per garantirci una rinascita fortunata. Questa è la seconda
ragione per chiedere rifugio: per proteggersi dal pericolo di una cattiva
rinascita e per assicurarci una piacevole rinascita congeniale alla nostra
ricerca del nobile Dhamma.

Tuttavia, anche se riusciamo ad assicurarci una buona rinascita, abbiamo da
affrontare un terzo pericolo, un pericolo radicato nella natura stessa
dell’essere senziente. Il Buddha ci insegna che l’esistenza in qualsiasi
regno, in qualsiasi modo, è impermanente, destinata a finire. Siccome tutte
le forme di esistenza condizionata sono impermanenti, sono per ciò stesso
insoddisfacenti, insicure e destinate alla sofferenza. La nascita porta alla
vecchiaia e alla morte, la morte è seguita da una nuova nascita ed anche la
migliore rinascita deve finire di nuovo nella morte e nella sofferenza,
inseparabili dall’esistenza condizionata. Questa è la sofferenza del
samsara.

Lo scopo ultimo dell’apparizione di un Buddha è di offrirci una via d’uscita
dalla sofferenza del samsara e di far conoscere al mondo questa via. Quindi
lo scopo ultimo per un seguace del Buddha, è quello di superare
completamente questo ciclo di divenire, di ottenere quello stato che non è
soggetto alla nascita, al cambiamento, alla morte, di raggiungere il
Nibbana, l’Incondizionato, la Non-Morte. Ora, per ottenere la Non-Morte, per
riuscire a liberarci dalla ruota delle nascite e delle morti dobbiamo
riuscire a capire che cosa ci tiene in schiavitù e che fattori dobbiamo
coltivare per eliminare le cause di questa schiavitù. Quindi dobbiamo
contare su una guida perfettamente qualificata, dobbiamo prendere rifugio
presso uno che ha completamente capito tutto ciò e che ce lo può insegnare
con estrema precisione.

L’unico che ha queste doti è il Perfetto Illuminato, e il Dhamma è
l’insieme degli insegnamenti che ci danno la necessaria sicurezza.

Ora, quando prendiamo i Rifugi, ne nominiamo tre: prendiamo rifugio nel
Buddha, nel Dhamma e nel Sangha. Questi tre Rifugi sono inseparabilmente
uniti e indivisibili. Dei tre, il Buddha è il supremo Insegnante, colui che
ci indica la via. Il Dhamma è l’Insegnamento stesso, la mappa del sentiero,
la via della liberazione e l’ultimo traguardo. Il Sangha è la comunità dei
nobili discepoli che impersonano l’ideale, il modello da emulare, i nostri
consiglieri, coloro che ci aiutano a percorrere la via della liberazione.

Per poter prendere i Rifugi in piena consapevolezza, è importante capire
chiaramente il significato di essi, sia a livello individuale che
collettivo. Il primo è il Buddha. E’ abbastanza significativo che i tre
Rifugi si strutturino partendo da una persona invece che da un ideale
astratto come il Dhamma. Sebbene il Dhamma sia la via pratica verso la
salvazione, il Buddha viene prima, poiché, quando siamo persi nella giungla
della confusione, prima di tutto cerchiamo una persona che ci indichi la
strada. Abbiamo bisogno di rivolgerci a qualcuno che abbia già raggiunto il
traguardo egli stesso, e che rappresenti o manifesti questo raggiungimento
nella sua stessa persona.

Quindi i tre Rifugi cominciano con il Buddha come il supremo rifugio
personale, come un maestro insuperabile. Ma non andiamo a prendere Rifugio
in un determinato individuo storico. La parola Buddha significa
‘l’Illuminato’. Questo riconoscimento è stato attribuito a tutta una serie
di individui che hanno scoperto il Dhamma nel momento in cui il prezioso
Insegnamento era scomparso dal mondo. Quindi, quando prendiamo rifugio nel
Buddha, in effetti prendiamo rifugio in un insieme di qualità che fanno di
quella persona un Buddha, nel lignaggio degli Esseri perfettamente
illuminati.

Si possono riassumere queste qualità brevemente, come abbandono di tutti gli
errori e il raggiungimento di tutte le virtù. Gli errori sono le negatività
con tutta la scia di vasanas o impressioni residue, che il Buddha ha
completamente e totalmente eliminato in modo irreversibile. Quindi la sua
purezza è perfetta e senza paragoni. Tra le incalcolabili e inconcepibili
virtù che il Buddha ha acquisito, due sono quelle che si possono considerare
qualità supreme. Una è la perfetta saggezza, la saggezza che comprende tutti
i fenomeni nei loro vari aspetti e interrelazioni. La saggezza che conosce
la via verso l’illuminazione e la liberazione in tutti i suoi particolari.
La saggezza che conosce la disposizione di tutti gli esseri viventi. La
saggezza che sa come insegnare alla gente nel modo appropriato per guidarli
sul sentiero del risveglio e per portare a maturazione le loro potenzialità
spirituali.

L’altra suprema qualità del Buddha è la sua grande compassione. Il Buddha
non raggiunse l’illuminazione solo per sé, ma per portare la benedizione del
Dhamma nel mondo. La tradizione buddhista riporta che il Buddha è passato
attraverso innumerevoli vite come Bodhisattva. Spinto da una grande
compassione ha sostenuto molte prove di inconcepibile rigore per raggiungere
lo scopo della suprema buddhità, perché il Dhamma – la via della liberazione
dalla sofferenza – fosse disponibile quando non fosse più conosciuto e
preservato nel mondo. Questa grande compassione del Buddha continua ad
operare a distanza di secoli dalla sua dipartita, poiché è preservata e
impersonata nel suo Dhamma.

Come rifugio, la funzione di un Buddha è quella di indicare il Dhamma come
Insegnamento, come Via e come Meta finale. Il Dhamma come Insegnamento è
l’insegnamento verbale del Buddha preservato nel Tipitaka (Vinaya Pitaka,
Sutta Pitaka e Abhidhamma Pitaka). Come insegnamento, il Dhamma è
essenzialmente la mappa della strada da seguire per arrivare alla meta
indicata dal Buddha. E’ un insieme di riferimenti assai precisi e
dettagliati, da capire e praticare, da applicare alla nostra vita
quotidiana.

Possiamo spiegare la Via in molti modi, ma la sua più eccelsa e chiara
espressione è il Nobile Ottuplice Sentiero. E’ un corso di pratica che si
percorre e alla fine di questo percorso si arriverà alla Meta. Anche la Meta
è inclusa nel Dhamma come Rifugio. La meta è il Dhamma ultimo, l’elemento
incondizionato, il Nibbana. Sebbene il Nobile Ottuplice Sentiero sia la via
più nobile, tuttavia non è il Dhamma ultimo, non è il Rifugio finale. E’ un
mezzo per raggiungere il Rifugio finale, e quindi il suo valore è
strumentale non intrinseco. Il rifugio finale è soltanto quello che non è
desiderabile come un fine per raggiungere qualcos’altro, e ciò significa che
deve essere qualcosa di incondizionato. E questo è la non-Morte, il Nibbana.
Quindi, quando uno dice: “Prendo rifugio nel Dhamma”, in effetti dirige la
propria mente al Nibbana, come alla liberazione ultima da ogni sofferenza.

Il terzo Rifugio è il Sangha. Qui dobbiamo fare un’importante distinzione
fra due tipi di Sangha. Uno è l’Ariyan Sangha, è la comunità dei Nobili,
coloro che hanno raggiunto alti livelli di realizzazione da cui scaturirà la
certezza della liberazione finale. I testi parlano di quattro gradi di
realizzazione: il livello di colui che “entra nella corrente”, quello che
“rinascerà una sola volta”, quello che “non rinascerà più” e l’arahant.
Coloro che hanno raggiunto uno di questi livelli di risveglio o che sono
stabilmente sulla via che porta a questi quattro livelli, formano l’Ariyan
Sangha, la Comunità dei Nobili. Secondo me, l’Ariyan Sangha non va visto
esclusivamente come un ordine monastico, ma comprende chiunque abbia
raggiunto uno di questi livelli di risveglio. La funzione di Rifugio del
Sangha è quella di servire come guida nella pratica della Via. E’ naturale
che le guide più affidabili siano quelle che hanno percorso esse stesse il
cammino e che ne hanno sperimentato i frutti, per cui possono indicare la
via per loro esperienza diretta.

Ma il Buddha nella sua saggezza non considera che il Sangha sia formato solo
da esseri che hanno raggiunto i più alti livelli di realizzazione. Ha
stabilito una comunità monastica formata da gente che vuole dedicarsi
completamente alla pratica del suo insegnamento, che vuole percorrere il
Sentiero della liberazione senza essere distratti dalle preoccupazioni e
dagli impegni di una vita secolare. A tale scopo il Buddha ha fondato un
Sangha perché porti avanti il suo messaggio e si impegni totalmente nella
pratica.

Quando uno prende rifugio nel Sangha, nel senso più alto prende rifugio
nell’Ariyan Sangha. Nello stesso tempo, tuttavia, uno si impegna ad
accettare il Sangha monastico come propria guida lungo la Via. I monaci e le
monache sono i kalyanamittas, i nobili amici, e perfino quelli che non hanno
raggiunto alcun gradino di illuminazione, se però sono virtuosi, conoscitori
delle scritture e affidabili, possono dare un grande aiuto e sostegno.
Perfino quelli che accettano silenziosamente l’elemosina, se usano
saggiamente il loro tempo, diventano un eccellente campo di meriti per gli
altri, e le offerte che gli si danno diventeranno semi fruttiferi portatori
di un grande potenziale di meriti.

Generalmente si pensa che prendere i Rifugi sia il primo gradino della
pratica buddhista, una formula che si recita all’inizio della propria vita
da buddhisti, ma che poi si lascia cadere dietro di sé. Invece, l’atto di
prendere i Rifugi può essere usato come un mezzo di pratica, un metodo per
elevare se stessi, poiché quando uno prende i Rifugi in effetti dà una
particolare direzione alla propria mente. Se lo si fa consapevolmente,
lentamente e deliberatamente, quest’atto mette in moto alcuni fattori
mentali, le cinque facoltà spirituali (indriya).

Esse sono fede, energia, consapevolezza, concentrazione e saggezza.
Prendendo consapevolmente i Rifugi si fanno sorgere, si potenziano e si
rinforzano queste cinque qualità mentali fino al punto che esse diverranno
le linee guida del nostro sviluppo spirituale.

Prendere i Rifugi è innanzi tutto un atto di fede (saddha). Quando si
prendono i Rifugi ci si affida ad un certo ideale e a una determinata
persona che rappresenta quell’ideale. Si pone il proprio cuore nel Buddha
come la guida suprema; si consegna la propria volontà al Buddha come
maestro. Seguire la sua via non è un atto di volontà personale, ma al
contrario di abbandono completo della propria volontà. Non significa che uno
abdica alla propria intelligenza e al diritto di una indagine critica,
poiché il Buddha mai richiede questo ai suoi discepoli; vuol dire che,
suscitando la fede, si mette da parte il proprio punto di vista egocentrico,
che generalmente fa delle proprie opinioni il punto di riferimento per
giudicare ogni cosa.

Invece si accetta il Buddha riconoscendo che è infinitamente più saggio di
noi. Questo è fatto come un atto di fede, un atto di fiducia, poiché non si
conosce ancora il Dhamma direttamente, non lo si capisce pienamente.
Tuttavia riconoscendo la saggezza dell’insegnamento del Buddha, si lasciano
cadere i propri dubbi e riserve mentali. Con fiducia ci si affida al Buddha
come al supremo Maestro, e si decide di seguire il suo Dhamma e di
rispettare il suo Sangha. In altre parole, uno vede i Tre Rifugi come propri
rifugi. In questo modo prendere i Rifugi diventa un atto di fede.

Ma quest’atto di prendere i Rifugi va fatto anche capendo quello che si fa.
Se è solo l’esuberanza della fede e della devozione a guidarci, esso non
porterà grandi frutti. Per avere veramente risultati, la fede deve essere
unita a pañña, alla saggezza, alla comprensione. Non è quella profonda
saggezza che penetra la reale natura delle cose; tuttavia è una comprensione
riflessiva che nasce da una profonda considerazione della natura della vita.
Comunque è sempre saggezza, per cui prendere i Rifugi comporta anche
suscitare la saggezza; che si svilupperà e maturerà attraverso la pratica
continua della Via, specialmente con la meditazione e la contemplazione
profonda, fino a che diventerà un’intuizione sorta dall’esperienza diretta.

Sia la fede che la saggezza hanno bisogno di essere attivate, cioè hanno
bisogno di vigore, di energia (viriya). Ma per impedire che l’energia prenda
la mano e diventi un eccessivo entusiasmo, dobbiamo equilibrarlo con la
concentrazione, con la compostezza mentale. E questa è samadhi o
concentrazione. Quando l’energia e la concentrazione sono in armonia, la
presa di Rifugio può essere un momento di passaggio a stati di profonda
meditazione.

In molti Sutta il Buddha insegna la contemplazione del Buddha, del Dhamma e
del Sangha come mezzi per sviluppare samadhi. Nell’Anguttara Nikaya (Libro
degli Unici) c’è persino una serie di Sutta in cui dice: «C’è una cosa che
porta alla pace suprema, alla conoscenza diretta, all’Illuminazione, al
Nibbana. Cos’è questa cosa? Raccoglimento sul Buddha è questa cosa.». E nei
seguenti due Sutta si dice la stessa cosa a proposito della contemplazione
del Dhamma e del Sangha. Quindi si possono usare i tre Rifugi come oggetti
di contemplazione per arrivare ad una concentrazione profonda. E se questa
concentrazione è unita alla saggezza tramite la pratica della meditazione
profonda, diventa allora parte della via che conduce all’Illuminazione e al
Nibbana.

Perché queste quattro facoltà – fede e saggezza, energia e concentrazione –
funzionino bene, bisogna che siano equilibrate e questo equilibrio viene
mantenuto attraverso l’influsso armonizzante di un’altra facoltà, quella più
importante, di sati o presenza mentale. La presenza mentale assicura che né
la fede né la saggezza, né l’energia e neanche la concentrazione prevalgano
sulle altre. Permette che le quattro facoltà sviluppino il proprio
contributo esattamente nella giusta misura. Quindi, quando si prendono i
Rifugi bisogna farlo con consapevolezza al fine di equilibrare le altre
facoltà. In questo modo, prendendo i Rifugi, tutte e cinque le facoltà
funzioneranno all’unisono, per portare al traguardo finale. E con ciò la
Presa di Rifugi raggiunge la completezza.

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