Come comportarsi in un ashram

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Come comportarsi in un ashram

di Swami Vidyatmananda

Quando gli inglesi detenevano il potere in India, ne erano le guide e
facevano ben poca attenzione alla sensibilità degli Hindu’. Portarono le
loro costumanze dall’Inghilterra, come sovente facevano con i loro mobili. E
gli
Hindu’ con i quali si allearono – se pur successe mai – si adoperavano di
conformarsi alla etichetta occidentale. Il famoso “Passaggio in India”, di
E.M. Foster, e’ considerato un capolavoro; mostra con ironia il lato
ridicolo, il modo di agire delle classi superiori britanniche, trapiantate
in questa paese caldo, tropicale, e gli sforzi di certi Hindu’ per
adattarvisi.

In quanto indigeni e subalterni, gli Hindu’ che si recavano in occidente
dovevano seguire le abitudini occidentali, o, allora, venivano considerati
come dei pagani. Questi fatti causarono loro, naturalmente, molte angoscie.
Delle foto di Gandhi, scattate durante la sua frequenza alla vita
universitaria, in Inghilterra, verso la fine del diciannovesimo secolo,
mostrano la sua aria affettata, in giacchetta e cravatta.

Egli scrisse nella sua Autobiografia, o “Le mie esperienze di Verita’”, a
quale punto fu difficile per lui l’adattarsi ai costumi inglesi, il
mangiare, il
vestirsi, il farsi un bagno in una bagnarola. Nel 1931, quando ritorno’ in
Inghilterra – stavolta per discutere con il governo dei futuri statuti del
suo paese – Gandhi si senti’ sufficientemente sicuro di se’ per recarvisici
vestito, come al suo solito, di un dhoti (abito della parte inferiore del
corpo), manufatto nel suo paese d’origine, e di un chadar (soprabito, tipo
scialle).

Ricordo con stupore l’oltraggio che questa sfida provoco’ all’epoca. Ci si
attendeva che gli uomini di stato portassero, se non dei pantaloni rigati,
almeno un completo decente.

Gli swami dell’ordine di Ramakrishna che si recarono in occidente, dopo
Swami Vivekananda, per non offuscare la sensibilita’ occidentale arrivavano
con dei vestiti, spesso confezionati in anticipo da sarti britannici in
India. In cattedra, o sulla scena, indossavano degli abiti che imitavano i
modelli del clero dell’epoca: colletti bianchi da pastore, che spiccavano
sulle loro vesti, e dei pantaloni neri. La sola distinzione del sannyasin
(monaco hindu’) che si permettevano di indossare era la guerrua, dal colore
arancione tradizionale della veste di sannyasin e, nell’occasione, e in solo
uno, o due casi, un turbante. Per quanto sia dato saperne, nessuno Swami,
dopo Vivekananda, apparve in pubblico indossando gli abituali abiti dello
sannyasin: guerrua, dhoti e chadar, sino alla comparsa di Swami
Prabhavananda, nel 1940. Trovandosi, egli, ad Hollywood, penso’ di riuscire
in codesta innovazione, mentre si rese anche conto che i tempi cambiavano.
Nel
1956, quando vedemmo giungere dall’India Swami Vandanananda per il servizio
di assistente alla Societa’ Vedantica della California del Sud, gli
chiedemmo di acquistare degli abiti occidentali manifatturati a Calcutta
prima di
partire, in modo da giungere a New York vestito in maniera conveniente. Di
fatto, prima che lasciasse l’India, sistemammo le cose in modo tale a che lo
Swami si potesse recare presso un americano residente a Calcutta, per
pranzare un paio di volte, si’ che potesse abituarsi a manipolare forchetta
e coltello, ed a conoscere altre abitudini occidentali.

Ma, esiste anche il rovescio della medaglia. Degli adepti occidentali,
visitando i luoghi santi dell’India, e ospiti presso i monasteri della
Missione Ramakrishna, ebbero delle umilianti esperienze mentre cercavano di
capire e di seguire l’etichetta hindu’. Il mio libro” A Yankee and the
Swami” e’ il diario di un americano che si confronta con i costumi hindu’.
E’
interessante indicare che questo libro divenne un manuale di insegnamento
studiato dagli adepti occidentali che si trovavano in procinto di fare un
pellegrinaggio in India. Fugacemente, osserverei che durante l’epoca di cui
parlo nel libro – gli inizi degli anni 1950 – gli Hindu’ in India erano piu’
tolleranti a riguardo della goffaggine degli occidentali nel loro paesi di
quanto non lo fossimo, da noi, verso le loro inettitudini sociali.

All’inizio del lavoro vedantico in Inghilterra ed in America, gli Swami
stavano attenti a non insistere presso gli occidentali per imporre loro le
costumanze sociali e religiose dell’India. Non ebbero mai l’intenzione di
induizzare chiunque fosse. Fecero pochissimi sforzi per introdurre le
pratiche religiose osservate in India dai fedeli e si comportarono in modo
che i santuari e gli altari del Centro si trovassero in un ambiente privato,
distante da quelli pubblici aperti alla gente, che, facilmente, avrebbe
frainteso quel che li’ svolgeva. Solo nel 1936, quando venne terminato il
tempio vedantico ad Hollywood, il santuario fu ufficializzato, come facente
parte dell’auditorium, e paragonato agli altari delle chiese cristiane;
tuttavia, all’inizio, questi santuari restavano chiusi durante i servizi
pubblici. Sino a quarant’anni fa, la cappella di Gretz rimase serrata a
tutti coloro che non erano dei veri e propri adepti, poiche’ essi si
sarebbero potuti sentire scossi dal suo carattere hindu’.

Ora, le cose sono molto cambiate; si notano frequentemente degli orientali
in occidente e non stupisce piu’ il vederli indossare i loro abiti
tradizionali e seguire le loro abitudini. Cio’ deriva, probabilmente ed in
parte, dal fatto che numerosi visitatori occidentali sono andati in India,
hanno conosciuto i costumi orientali e vi ci sono abituati. L’esplosione
hippie ed il movimento del giovane confronto degli anni ’60 e dell’inizio
del ’70 confermano tale tendenza. Quei ragazzi decisero di adottare i valori
morali di bonta’, realismo e semplicita’ e proclamarono tutto cio’
indossando ogni tipo di abito, assumendo un’attitudine che si disse
naturale – a sfida
di cio’ che essi consideravano l’ipocrisia delle generazioni passate, il cui
modo di essere sembrava loro nascondesse il manierismo e l’ingiustizia. Gli
hippies hanno tratto l’ispirazione dal genere di vita che conobbero nel modo
di comportasi della gente hindu’.

Per l’adepto del Vedanta in occidente si e’ formato un codice di
comportamento che conserva la nota del suo occidentalismo, ma conformemente
allo spirito delle idee religiose hindu’; un codice di etichetta che si e’
sviluppato in modo naturale, come risulato del suoi viaggi, dell’interesse
verso lo yoga, della presenza degli swamis in occidente e di una progressiva
ricerca degli occidentali rivolta al piu’ grande comportamento religioso
nella vita. Quel che noi chiamiamo discipline di ashram, che guidano ogni
comportamento nei centri vedantici, e’ più il risultato delle iniziative di
devoti che quello di un’impostazione da parte degli swamis della Missione
Ramakrishna. La disciplina di un ashram e’ un amalgama di abitudini
orientali ed occidentali. Le persone che vengono nei centri e negli ashrams
vedantici
si domandano, sovente, come e perche’ tutto cio’ funzioni. Ecco, quindi, le
ragioni del presente articolo:” Come comportarsi in un ashram.”

L’etichetta hindu’ parte dall’idea che il mondo visibile e’, ne’ piu’ e ne’
meno, che una massa di energie, o di qualita’, chiamate gunas. Esistono tre
gunas,
delle quali si potrebbe dire che esse rappresentano il bianco, il rosso e il
nero; e che costruiscono, rispettivamente, l’interiorizzazione, o la virtù;
la passione, o attività; e l’ignoranza, o inerzia. Il mondo – visto in ogni
suo istante – e’ la totale somma di tutti questi gunas, nelle loro
differenti manifestazioni e combinazioni. Nel santo, il guna della
non-passione – o
sattva – predomina. Nell’ambizioso, e’ l’attività – o rajas – che emerge.
Nel pigro, o colui che prende tempo, si puo’ dire che egli possieda in alto
grado la qualita’ nera, o tamas.

Questi gunas sono contagiosi; quindi, una persona letargica, in presenza di
qualcuno che sia attivo puo’ arrivare a sentirsi spinta verso lo sforzo, o
verso uno spirito di azione. L’individuo agitato, di fronte alla
tranquillita’, prova pace. Ma, cio’ opera anche in senso opposto, quando, ad
esempio, il benessere che viviamo diminuisce sotto l’atmosfera di un
individuo depresso.

Il pensiero hindu’, e sicuramente la sua struttura tradizionale e sociale,
si e’ sempre basato sulla credenza che ogni individuo si collochi lungo la
propria linea esistenziale, a secondo del guna che predomina in lui e si
comporti secondo tale situazione; ossia, secondo il suo dharma individuale.

Dio – si dice – e’ al di la’ dei gunas e chiunque realizza la sua unione con
Lui si suppone li abbia trascesi e non sia più dominato da essi. Poiche’ la
vita sta nel superare i gunas, nel corso delle vite successive, durante le
quali lo sforzo risiede nell’elevarsi sempre piu’ in alto, l’hindù ha
cercato di farsi influenzare dal piu’ elevato tra di essi e di evitare ogni
influenza che avrebbe ritardato questa progressione. Cio’ ha governato il
suo
comportamento e determinato le abitudini che egli ha, poi, seguite. Il suo
scopo ed il suo oggetto sono stati quelli di salire sempre piu’ nella
gerarchia dei gunas, sino a passare interamente al di la’ di essa ed
immergersi in Dio.

Cosi’, Dio viene considerato del tutto adorabile, e del tutto degno di un
culto. Benche’ Egli sia senza forma, Dio – per il bene dell’umanita’ –
assume diversi aspetti e modi di farsi conoscere. Le incarnazioni e le
immagini
rappresentano i ritratti del Suo Essere. In quanto divinita’ sovrana,
riesiede nei templi e nei santuari. L’uomo che desidera venire protetto da
Dio, e forse vuole amarlo e rassomigliargli, Lo va a trovare nel suo
santuario, mostrandoGli rispetto e cercando di agire come Egli vuole.
Attraverso queste intenzioni, l’uomo riesce a purificarsi a sufficienza ed a
stabilire dei contatti con Dio. Per delle ragioni pratiche, ognuno puo’
organizzare – per cosi’ dire – una succursale di un tempio nella propria
casa; non con le sue mani, ma con il proprio cuore.

Dunque, l’atteggiamento fondamentale seguito in un ashram riguarda
l’attitudine che deve manifestarsi in un tempio, o in un santuario. La
pulizia e’ uno dei primi doveri, poiche’ essa contiene un forte elemento di
sattva. Questo si riferisce non soltanto al corpo; ossia, al fatto che il
devoto debba essere fisicamente pulito, nel suo organismo e negli abiti che
indossa. Ma, anche al fatto che egli si sforza di conservare nel tempio una
propria purezza mentale. Prima di entrarci egli lascia fuori le sue
calzature. Cio’, per non portare la sporcizia della strada in un luogo ove
la gente si siede a terra; inoltre, ripiegare le gambe sotto di se’ per
meditare risulta scomodo se si indossano delle scarpe. Infine, esiste per
cio’ una
ragione piu’ sottile. Togliersi le calzature davanti ad una divinita’ e’ un
gesto di umilta’ interiore e di rispetto.

Per abolire ancor piu’ ogni legame con la sua posizione secolare e verso gli
affanni del mondo, il devoto puo’ anche sentire il bisogno di indossare un
abito riservato unicamente alla cappella, e con il quale si trovi a suo agio
per meditare; o, almeno, di drappeggiarsi in un chadar. Il chadar
rappresenta in se’ una sorta di uniforme, per il fatto che sopprime tutte le
differenze individuali che distraggono, e proclama una solidarietà nello
sforzo. Cio’ evoca egualmente il sentimento di essere separati dagli altri –
soli, con Dio.

E’ cosa normale, entrando nella dimora del proprio Ideale, salutarLo con un
gesto che Gli mostri il proprio rispetto; un prosternarsi chiamato pranam;
ossia, l’atto di giungere le mani, in un gesto che si chiama namaskar.

E’ superfluo indicare che, davanti al proprio Ideale, si debba osservare il
silenzio ed evitare ogni movimento disordinato. La parola “asana” significa
postura, ed anche il cuscino sul quale ci si siede. Le gambe e le mani
ripiegate, il tronco e la testa retti, sono un’attitudine di recettivita’.
Allungare le proprie gambe davanti alla divinita’, o mostrarGli le proprie
membra, o assumere posizioni accasciate, tutto cio’ viene considerato una
mancanza di rispetto.

E’ cosa naturale, quando si rende visita a qualcuno che si adora, portargli
un dono. Il piu’ grandi dei regali, quello che il Signore ama di piu’, e’ il
sentimento presente nel proprio cuore; ci viene detto nella Gita che, se un
tale sentimento esiste, una fogliolina simbolica, o l’offerta di acqua
semplice Lo renderanno piu’ che soddisfatto. Sicuramente, i devoti fanno
anche doni in argento. Ma, l’offerta abituale consiste in fiori e cibo. I
fiori dati durante il rituale – chiamato puja – dall’adoratore – detto
pujari – sono resi ai devoti, dopo il culto, se essi lo desiderano, e li si
conserva come delle sante reliquie, proprio come i Cattolici conservano le
palme benedette dai preti, nella domenica delle Palme. Quando, poi, i fiori
saranno appassiti, essi non dovranno venire gettati nell’immondizia.
Conviene, se possibile, farli ritornare alla terra; in un luogo ove non
saranno calpestati da piede umano.

Va da se’ che ogni fiore offerto debba essere puro e senza macchia; che non
sia stato offerto a qualcun’altro, o, anche, odorato. Essi vengono
abitualmente lavati, prima di essere donati e, a volte – affinchè siano
maggiormente graditi al ricevente – vengono sfiorati da profumo e pasta di
sandalo.

Le abitudini a riguardo del cibo offerto sono simili. La frutta risulta
accettabile se e’ fresca e naturale. Lo zucchero candito e’ il benvenuto; e’
un festino. Un nutrimento cotto puo’ anch’esso venire dato, ma dovra’
pervenire
da una fonte piu’ pura possibile. In India, i bramini fanno sovente da
cucinieri perche’ si pensa che in quanto tali posseggano delle qualita’
sattviche

Ogni devoto che prepara il cibo da offrire deve restare mentalmente e
fisicamente pulito durante tutto il tempo e, naturalmente, non deve gustare
gli ingredienti durante il processo della cottura, o quando esso e’
terminato. La lingua – si deve sapere – viene considerato un agente di
profanazione; o, nei termini che utilizziamo, dovrebbe mostrarsi un
trasmettitore efficace delle qualita’. Infliggere le vostre qualità
agli altri, trasmettendo loro qualunque cosa sia stata nella vostra bocca, o
l’abbia toccata, costituisce la peggiore delle ineducazioni. Ne discuteremo
piu’ avanti, quando parleremo dell’atteggiamento da mostrare a tavola.
Inoltre, il Signore, dovendo essere il primo a sentire il profumo di un
fiore, deve anche essere il primo a gustare un cibo.

Proprio come i fiori sono offerti durante la puja, cosi’ il cibo viene dato
ai devoti dopo il culto. Essendo, questo, stato accettato da Dio, esso
diviene, cosi’, molto sattvico. La parola che indica il fenomeno e’
“prasad”, che significa “benedetto dall’accettazione di Dio ed imbevuto
della qualita’
della sua energia”. Un errore che i devoti compiono spesso e’ quello di
indicare il cibo che essi portano per essere offerto, come “una consegna di
prasad”. Finche’ esso non viene offerto non si tratta che del dono di
semplice cibo; e’ solamente dopo che viene trasformato in prasad.

Il concetto di puja fatto in un centro, o ashram, di Ramakrishna e’, in
termini molto semplici, il seguente: il Signore e’ considerato come un
invitato d’onore, un personaggio augusto che fa la grazia di renderci
visita. L’adoratore e’ l’ospite, ansioso di compiere ogni cosa gli sia
possibile per piacere al suo invitato; idea che non differisce minimamente
dal tema della messa cattolica, che e’ un rinnovo dell’atto d’amore
dell’ultima cena che il Cristo ha diviso con i suoi discepoli, prima della
crocifissione. Ricordiamoci della grande importanza accordata
all’ospitalita’ nei paesi orientali. La puja consiste nell’offrire cose
gradevoli, fiori,
nutrimento, incenso, profumo, luce, musica, ed anche l’acqua per bere e per
lavarsi. L’acqua del Gange e’ considerata convenevole alla puja, e, se
possibile, viene offerta. In ogni caso, l’acqua donata viene considerata
trasformata in quella del Gange, per il fatto che sia stata accettata dal
Signore. A volte, dopo il culto, viene bevuta in piccole quantita’ e con
devozione, grazie al suo potere purificante.

Lasciate che vi narri un piccolo aneddoto, che si riferisce alla fede degli
hindu’, per quanto riguarda le qualita’ purificatrici dell’acqua del Gange.
E’ costume in India versare qualche goccia dell’acqua del Gange nella bocca
di
un moribondo, come gesto di purificazione. Una volta, ad Hollywood, il mio
guru, Swami Prabhavananda, mi chiese di accompagnarlo a visitare un
discepolo che stava morendo. ” Prendete un po’ d’acqua del Gange dal
santuario” – mi chiese – “per portarla assieme a noi”. Andai nella mia
camera, vuotai una boccetta di aspirine, la lavai con cura, la asciugai a
fondo e la riempii con una piccola quantita’ di acqua del Gange, presa da un
grande recipiente, conservato nel santuario. Mentre andavamo
verso l’abitazione del morente, dissi allo swami che avevo accuratamente
lavato il recipiente. Egli si mise a ridere:” Non sapete” -disse – ” che
l’acqua stessa del Gange purifica ogni cosa che tocca?”

Cio’ illustra un altro principio del pensiero sociale hindu’. La purezza e’
di due tipi; o, piuttosto, vi e’ una purezza ed una pulizia. La pulizia, in
quanto igiene, e’ molto importante presso gli occidentali ed e’ sovente
confusa con la purezza; mentre, la purezza hindu’, in realta’, riguarda non
tanto il fisico, ma implica delle qualita’ sattviche. Di modo che, un
ristorante con tovaglie molto linde ed un argenteria brillante, benche’
igienicamente pulito, non aggiungera’ nulla di spirituale ad un pasto, a
causa dell’attitudine mentale e fisica dei cuochi e dei camerieri; mentre, i
piatti serviti in modo molto semplice – se Dio e’ stato presente nella loro
preparazione – puo’ avere un effetto piu’ sattvico; cioe’, il nutrimento
risultera’ puro.

I gesti che il pujari compie durante la cerimonia sono chiamati mudras. Si
dice che essi aiutino la concentrazione, che siano i simboli fisici di idee
spirituali e liberino delle energie spirituali capaci di contribuire
all’efficacia del rituale. Le parole, pronunciate in silenzio, o in modo
udibile, dal pujari sono chiamate mantras, e costituiscono delle
invocazioni, delle preghiere, delle citazioni di scritture, o delle formule
che contengono il nome divino.

Bisogna sottolineare che una delle idee interessanti che riguardano la puja
e’ che, considerato il fatto che il Signore possiede gia’ tutto, diviene
presuntuoso, da parte del devoto, cercare di offrirGli qualunque cosa. Ed
allora, la prima iniziativa del pujari e’ di assumere un’attitudine divina
lungo tutto il cerimoniale, poiche’, in realta’, il rituale evidenzia che si
sta offrendo a Dio quanto gia’ gli appartiene.

Durante l'”arati”, l’officiare serale, si offrono a Dio gli elementi
dell’universo: terra, aria, acqua, fuoco ed etere. Cosa sono mai lo spazio,
il tempo, la causalità, se non una celebrazione cosmica nella quale Dio
gioisce di cio’ che e’ suo? Ma, si dice pure che, benche’ sia il
proprietario di tutto, Egli non abbia bisogno di nulla; Dio accetta per la
grazia quanto
colui che l’adora Gli offre, poiche’, gradendo tali atti di amore, Dio
avvicina gli uomini a Se’.

L’uomo possiede cinque sensi, e, poiche’ la sua comprensione non va oltre,
egli suppone che anche il Signore abbia cinque sensi. Cerca, allora, di
compiacerGli facendo appello al Suo senso del gusto, ed offrendoGli dei
cibi; mutando, cosi’, in agente spirituale il suo proprio senso del gusto, e
dividendo con Dio cio’ di cui egli stesso si nutre.

Similmente, Gli vengono donati dell’incenso e del profumo come risultato del
riflesso condizionato che nasce nell’uomo, di sorta che tutto cio’ che si
riferisce al proprio odorato spinge quest’ultimo verso la divinita’.

Lo stesso avviene a proposito dell’udito. Abbiamo di gia’ parlato dei
mantras, e si suppone che pronunciarli provochi delle vibrazioni spirituali.
E’ nato un intero repertorio di canti, graditi all’orecchio di Dio e dei
suoi adoratori. I canti intonati all’inizio (bhajan) ed alla fine della
meditazione mattutina ed a Farati sono stampati in un opuscolo che puo’
essere richiesto al Centro. La serie di jai ripetuti alla fine dei canti
puo’ intepretarsi come delle grida di vittoria dedicati ai diversi eroi
vedantici.”Jia” significa: “saluto a”, oppure:”vittoria a”. La lista dei jai
e del loro significato si trova in questo libro dei canti.

Il quarto senso riguarda quello del tatto. Ci riferiamo, allora, al senso
del tatto di Dio nel conforto che intendiamo farGli provare, offrendoGli
degli abiti di prima qualita’, un tempio gradevole, delle decorazioni di
buon gusto. In India, nei giorni di calura, si conduce Dio in una
passeggiata in
barca, o anche verso dei padiglioni al centro intimo del tempio. Il tatto
provoca uno scambio di vibrazioni, o di energia. Ecco la ragione per cui in
India la gente non si da’ una stretta di mano, ma si saluta congiungendo le
palme (namaste). Toccare i piedi di un’immagine, o di una persona adorata –
come un parente -, oppure un Guru, e’ un gesto di rispetto ed anche il
desiderio di assorbire l’energia spirituale, o la qualita’ dell’immagine, o
della persona. Lo scambio di vibrazione opera in due sensi. Un santo puo’
trovare doloroso il lasciarsi toccare i piedi da persone piene, in
particolar modo, di “peccati”, in quanto tale contatto “tira” troppo da lui.
Toccare i piedi esprime anche dell’umilta’. E’ una benedizione raccogliere
la polvere dei piedi di una persona onorata e portare questa polvere alla
propria fronte.

La vista, il quinto senso, proprio come il tatto, viene considerato un
processo, durante il quale delle energie, o delle influenze sottili sono
trasmesse. La parola utilizzata per descrivere questo fenomeno e’ darshan.
La divinita’, oppure il santo, danno il proprio darshan a chi giunge in sua
presenza, in un’attitudine di adorazione, per gioire della loro visione. Ci
appelliamo al senso visivo di Dio nello sforzarci di proteggerLo in una
cappella pulita, ordinata e decorata in giusto modo.

In rapporto alla tradizione di ricordarsi costantemente il prevalere del
Signore, i devoti assumono l’abitudine di pensare a Lui, prima di ogni altra
cosa. Prima di iniziare la giornata, essi si inchinano verso di Lui,
alzandosi ogni mattino. Arrivando all’ashram, andando nella cappella,
riconoscono la Sua essenza, salutandone l’immagine e rendendo omaggio al suo
rappresentante, lo Swami in carica. Ogni regalo che essi ricevono, o tutto
cio’ che acquistano per loro stessi, Glielo offrono prima di utilizzarlo. Il
cibo e le bevande sono mentalmente dedicati a Lui prima di venire consumati.
Lasciando casa propria, oppure l’ashram, si prende congedo dal Signore; e ci
si pone sotto la Sua protezione, come ultimo atto, prima di addormentarsi.
In procinto di un viaggio, si chiede l’aiuto della Madre Divina,
ripetendo:”Durga, Durga” alla partenza.

Gli ashram vedantici venerano differenti santi ed eroi spirituali, onorando
la loro festa in modo piu’ o meno importante: Natale, il giorno di Kalpataru
(11 gennaio), l’anniversario di Ramakrishna, Pasqua, la nascita di Krishna
sono celebrati pubblicamente a Gretz. Vi sono altre giornate festive,
chiamate “tithis pujas”, o “guru purnima”, che vengono celebrate in privato
(benche’, chiunque lo desideri possa assistervi). Le date (che cambiano ogni
anno, a seconda della posizione lunare) vengono indicate in una lista,
distribuita anch’essa su richiesta del fedele. Essa comprende gli
anniversari dei discepoli importanti di Ramakrishna, la Durga Puja, la Kali
Puja, la Shivaratri, e le date di Ram Nam – in cui la storia della vita di
Rama e le sue gloriose azioni vengono celebrate in musica.

Dopo il Signore viene il Guru. Alla Missione, il guru tipico e’ un sannyasin
hindu’, appartenente all’ordine e designato tale dalla casa madre a Belur
Math. Vi sono anche dei sannyasin occidentali nell’ordine di Ramakrishna;
ma, sinora, soltanto due hanno diretto un centro, e nessuno di essi e’ stato
autorizzato a servire dei guru.

Un guru viene considerato come il rappresentante speciale di Dio, capace di
condurre gli altri a Lui. E’ versato in particolar modo nelle Scritture e
nei rituali hindu’, e rappresenta una persona con certe abitudini e dalla
saggezza paratica.

Benche’ venga frequentemente affermato che il guru e’ Dio, nessun guru
ragionevole prendera’ alla lettera questa idea. Egli manifesta qualita’
divine. Fa della sua vita un esempio, e adopera la maggior parte del suo
tempo e delle proprie energie ad aiutare gli altri, senza attendere una
qualunque ricompensa. La riserva di spiritualita’ che ha acquisito lungo
degli anni di rinuncia e di maturazione, egli puo’ distribuirla ai discepoli
(chelas) attraverso il rito dell’iniziazione (diksha), nel quale vien
concessa una formula, o mantra, che contiene il nome divino. Questi mantras
si rinvengono nelle scritture e sono dedicati all’una, o all’altra delle
divinita’ scelte, o “istham”. Il japa e’ la ripetizione silenziosa del
mantra, mentre si utilizza sovente un rosario di 108 grani, chiamato
“mala”.Il mala
deve essere conservato nel suo sacchetto speciale, o in una borsa, e,
durante il suo utilizzo, restare coperto. Ogni esibizione esterna di una
pieta’ eccessiva e’ considerata di cattivo gusto.

Si deve, tuttavia, sottolineare che ognuno e’ in grado di scoprire un mantra
conveniente in un libro santo hindu’ ed utilizzarlo per il suo profitto,
senza l’intervento di un guru. Esistono, oggi, delle pubblicazioni diffuse
che contengono la maggior parte dei mantras importanti, con l’indicazione
della loro corretta pronuncia. Ma, nella concezione hindu’, l’iniziazione
aggiunge in piu’ qualcosa di molto importante: la trasmissione di un potere
spirituale, attraverso l’udito, che apporta una nuova energia alle capacita’
latenti del chela (discepolo).

Se il chela desidera considerare il suo guru come Dio, cio’ può aiutarlo. In
quanto amico, confidente, esempio, confessore, il guru e’ di grande aiuto.
Ma, nella misura in cui egli utilizza la realta’ tangibile per condurre
verso l’intangibile. Un’ eccessiva identificazione con il guru fisico puo’
portare
alla dipendenza, al fanatismo, alla gelosia, alla formazione di gruppi e di
sette. Ogni guru che permetta di essere oggetto di culto diviene un pericolo
per il suo proprio equilibrio e per quello dei suoi chelas. E’ molto sottile
il confine che permetta quell’identificazione che aiuti il discepolo, ed
eviti nel contempo una qualunque glorificazione, che finisce per nuocere a
lui ed all’organizzazione. Gli Swamis dell’ordine di Ramakrishna sono
consapevoli di questo problema e le autorita’ di Belur Math sorvegliano di
continuo le attivita’ degli swamis autorizzati a dare l’iniziazione.

Voglio raccontarvi un fatto accaduto, e pertinente. Swami Siddheswarananda,
fondatore del Centro di Gretz, era un guru molto popolare. Parlava
apertamente dell’idolatria eccessiva di cui era oggetto da parte di certi
discepoli, e della sua attitudine verso di essi. Spiegava, inoltre, che
l’accordare un’adorazione esuberante risultava necessario per alcuni chelas,
in vista del loro avanzamento spirituale. Ma, interiormente, Swami
Siddheswarananda non accettava questo sbandieramento nei riguardi della
propria persona. La sua attitudine era quella di farla scorrere (al reale
Guru). Un vecchio discepolo, Mr. J.-L. Jazarin, racconta che, una volta, in
Svizzera, vide Swami Siddheswarananda fare il gesto del namaskar, in strada,
verso un cartello su cui era scritto :”Divieto di sosta”; egli disse,
ridendo, che il cartello rappresentava per lui un upa-guru (precettore
supplementare). E spiego’ che rifiutare di accettare l’adulazione quando
essa poteva aiutare un discepolo non era un atto di modestia, ma di egoismo.
Ma,
per quanto lo riguardava, non permetteva che quella si fermasse a lui, e,
quindi, la orientava alla sorgente della vera ispirazione.

Inutile dire che il chela deve essere rispettoso, umile, obbediente, pieno
di buona volonta’ verso il suo guru, perche’ e’ ancora un apprendista e tali
qualita’ aprono il suo spirito verso l’arte di apprendere.

Il comportamento dei devoli associati alla Missione Ramakrishna implica
l’accettazione di una gerarchia. E’ un’idea dell’estensione del rispetto
verso il guru. Il fondatore e capo del movimento, considerato sempre vivo,
e’ Sri Ramakrishna, che spesso e’ chiamato Thakur (Signore), il Maestro, o
Guru
Maharaji. Tuttavia, cio’ non indica un senso esclusivo. Ramakrishna e’
veduto come l’ideale incarnazione del pensiero della religione universale e
della
riconciliazione. I devoti possono assumerlo come un ideale di scelta
(istham) se lo desiderano; ma, cio’ non e’ necessario. Ogni concetto del
personaggio spirituale puo’ venire scelto come oggetto di adorazione, ed in
tal caso Ramakrishna va considerato come un guru che facilita la
realizzazione di questo aspetto particolare dell’Unico. Sri Sarada Devi e’
riverita come rappresentante l’idea della Madre (Shakti), o principio
attivo. Swami Vivekananda e’ riverito come colui che ha reso popolare la
rivelazione di Ramakrishna, la dottrina insegnata dai sannyasin del
movimento Ramakrishna.

Si puo’ dire che il Vedanta fornisca una base razionale di comprensione,
entro un certo limite, di Dio, e che Ramakrishna abbia rivivificato i metodi
pratici della realizzazione del Divino. Vivekananda ha, poi, combinato
questi elementi in maniera attraente e ha dato agli uomini un corso pratico
da seguire, adatto alle differenze individuali.

Questo, significa il Vedanta di Ramakrishna. Il simbolo dell’ordine di
Ramakrishna rappresenta il Vedanta, sotto forma grafica. Mostra un loto
sopra un lago, illuminato da un sole che sorge, e cinto da un cobra. Sulle
onde nuota un cigno bianco. Sotto, si legge una frase sanscrita formulata da
Swami Vivekananda: “Tanno Hamsah Prochodayat”; ossia:”Che Egli ci illumini”.
Il simbolo e’ un potente ideogramma per l’equilibrio armonioso e lo sviluppo
dell’aspirante religioso. L’acqua simbolizza il karma yoga, per un progresso
spirituale, attraverso il lavoro disinteressato; il loto, per il bakty yoga,
indica lo sviluppo dell’amore divino; il sole che sorge, per l’inana yoga,
e’ la pratica della discriminazione e della conoscenza. Tutti sono legati
dal
raja yoga – la concentrazione e la meditazione – che il “serpente” della
spiritualita’ risveglia; il cigno al centro simbolizza l’aspirante, e
potenzialmente l’Anima Suprema. Supportato da tutto cio’, deve emergere
l’uomo ideale di Swami Vivekananda, sereno nella felicita’, perfezionato
nella bellezza del suo proprio Se’. La frase indica lo scopo ultimo di
Vivekananda, che tutti i devoti debbono raggiungere ed al quale conducono il
lavoro, il culto, gli sforzi e le lotte:” Possa Egli illuminarci tutti.”

Il rappresentante di Ramakrishna in terra e’ il presidente dell’Ordine di
Ramakrishna, eletto da un comitato di anziani swamis; essi stessi, a loro
volta, scelti dai sannyasins dell’Ordine. In India, solo il Presidente ed i
Vice-Presidenti hanno il potere di iniziare. Vi sono un Segretario generale
e diversi altri funzionari. Ma, la gerarchia opera per rango di anzianita’
nell’Ordine; cioe’, seguendo la data di entrata in esso. Di fatto, e’
possibile che un funzionario debba rispettare, come un suo superiore, uno
swami non funzionario, che si trovi nell’Ordine da piu’ tempo.

E’ necessario spendere una parola, qui, in proposito al rispetto. Oggi, la
giovinezza e’ glorificata dal suo aspetto attraente fisico e dal suo charme.
Ma, queste, sono qualita’ che il possessore non ha acquisito, e che fanno
parte di un dono della natura “ignorante”. I devoti che cercano di
progredire spiritualmente lottano contro la natura e cominciano a rendersi
conto, dopo un certo tempo, di come sia lenta e difficile la purificazione.
Vedono che un lungo lavoro e’ necessario per svilupparla in essi e
cominciano a rispettare coloro che, invece, la possiedono. Le civilta’
orientali sono
caratterizzate dal fatto di avere valorizzato gli anziani ed i saggi. Il
rispetto del valore spirituale viene inculcato al devoto vedantico e cresce
a misura che il suo ego diminuisce.

Uno swami e’ un individuo che ha fatto voto di rinuncia: il sannyas. Tale
grado e’ dato una volta all’anno a Belur Math (d’abitudine, il giorno
dell’anniversario di Thakur). I suoi candidati seguono da nove a dieci anni
di apprendistato. Il sannyas permette alla persona che lo riceve di essere
chiamato swami, o sannyasin, e di indossare la veste di colore ocra.
Nell’organizzazione sorella – per le donne -, il Sri Sarada Math, il termine
equivalente e’ pravajika (sannyasin). Si raggiunge il sannyasin dopo aver
ricevuto il brahmachari. Questo stato viene conferito durante una cerimonia
ora permessa in occidente (America), come a Belur Math. Normalmente, cio’
accade dopo cinque, o sei anni di noviziato. Un brahmachari indossa il
colore bianco.

Il termine “monaco” e’ abitualmente riservato a coloro che hanno assunto il
sannyas, e quello di brahmachari a tutti i novizi – che essi abbiano preso,
oppure no, il brahmacharya formale. L’aggettivo “sadhu” e’ la denominazione
generale che si da’ sovente a coloro che si trovano in un monastero, nel
loro
assieme, e qualunque ne sia il grado. Ci si puo’ sempre rivolgere ad un
sadhu, chiamandolo “Maharaj”. Un sadhak e’ un aspirante, un lavoratore, e le
discipline spirituali che osserva un sadhak si chiamano sadhana.

L’ordine di Ramakrishna e’ un organismo di uomini. Nei centri e negli
ashrams vi e’ una mescolanza dei due sessi. Cio’ deve avvenire in modo
corretto. La
modestia nel comportamento ed il contegno sono importanti. Un ashram viene
fondato e tutelato come un ritiro fuori del mondo, un angolo di vita che non
e’ mondana, un piccolo porto per coloro che desiderano restare lontani dal
samsara (la ruota delle rinascita e delle morti). E’ cosa importante, di
conseguenza, che coloro i quali entrano in un ashram rettifichino il loro
comportamento in modo tale da non trascinare parte del mondo con essi

Va da se’ che coloro che divengono degli adepti debbano aderire alle
pratiche che conducono alla liberazione. Il parco non dovra’ venire
considerato come
un terreno da camping, o una spiaggia. I rapporti tra gli individui devono
matenersi su di una base relativamente formale. Gli incontri avverranno
nella parte pubblica della casa, e non nel parco, o nelle camere. Si
sconsiglia di portare con se’ degli animali, poiche’ fanno nascere
un’atmosfera di frivolita’ e di distrazione, e possono divenire causa di
difficolta’; i sentimenti per gli animali, difatti, variano da persona a
persona. Tra i fedeli deve esistere una purezza di rapporti, l’accettazione
delle debolezze altrui, l’attenzione ad evitare lo scandalo,
l’interiorizzazione della parola e dell’azione, una meditazione regolare, e
lo sforzarsi di non mettersi in mostra. Una delle abitudini piu’ pericolose
sta nello speculare sul grado di elevazione spirituale altrui, o nel
rivelare quello che vi concerne. Chiunque non possegga queste rispettive
qualita’ urta l’ambiente e ritarda la propria realizzazione.

Mangiare e’ un fatto importante nella vita hindu, e riveste un ruolo
significativo nella vita dell’ashram. La preghiera che precede il pasto (il
24° versetto del quarto capitolo della Gita) proclama che il fatto di
nutrirsi rappresenta un atto spirituale. Nei centri vedantici si e’
instaurata un’etichetta che incorpora le idee orientali e quelle
occidentali.

L’etichetta a riguardo del cibo si basa sulle idee menzionate prima: il
contatto con la lingua insudicia; e nulla deve portare le proprie vibrazioni
in contatto con quelle altrui. Il cibo e’ un trasmettitore molto efficace di
vibrazioni.

In India i convitati si siedono per ceto e sono serviti da chi mangera’ più
tardi. Non ci si passa i piatti, l’un l’altro, e non ci si serve da soli. Le
persone mangiano con le mani e, mancando l’uso di tovaglioli, ci si lecca le
dita frequentemente (beninteso, le mani vengono lavate in modo conveniente,
dopo il pasto). Mentre, in occidente, il pranzo si svolge in modo
famigliare, ed ognuno passa all’altro i piatti, quando si serve. Quindi, la
situazione, qui, e’ ben diversa, ed ogni contatto delle mani con la bocca –
come quello di leccarsi le dita – non e’ sicuramente augurabile. Ridere, o
soffiarsi il naso rumorosamente; o delle conversazioni troppo esuberanti a
tavola, sono cose da evitarsi, per non correre il rischio di gettare
materiale estraneo nel piatto del vicino, o nel vostro.

A tavola, servendosi, si fara’ in modo che il cibo cada nel piatto, evitando
di toccare quest’ultimo con i coperti del servizio. Non si utilizzeranno il
cucchiaio, o la forchetta che sono gia’ stati messi in bocca, per depositare
nel proprio piatto il cibo che ci viene passato.

L’abitudine occidentale di appoggiarsi, o di sedersi sul tavolo, mentre si
mangia, non viene accettata, poiche’ e’ cosa indelicata posare la parte
inferiore dei corpo sul posto dove ci si nutre.

A volte, ci si chiede: “Il Movimento Ramakrishna e’ una setta, e dove, gli
swamis che dirigono il centro, differiscono dai personaggi che, spesso,
hanno una cattiva reputazione?

Cio’ sembra implicare il fatto che una setta sia necessariamente qualcosa di
cattivo. Ma, non e’ il caso nostro. Il dizionario definisce una setta come
un assieme di persone che formano un gruppo distinto, unito da credenze ed
interessi comuni. La parola “culto”, spesso utilizzata per indicare una
devozione ossessiva verso una persona, o un ideale, puo’ anche riferirsi ad
un sistema, oppure ad una comunita’ culturale religiosa, le cui motivazioni
siano degne. Non e’ cosa disdicevole affermare che la Cristianita’ sia
apparsa, originariamente, come una setta; e, quando si separo’ dal
Cattolicesimo, il Movimento Luteriano venne, all’inizio, considerato,
anch’esso, una setta. Durante il Medio Evo, l’immensa devozione verso la
Madre del Cristo venne indicata come un culto della Vergine Maria.

Ogni organizzazione umana rischia di imboccare una falsa strada; cioe’, di
provocare una regressione nei suoi simpatizzanti, piuttosto che elevarli. Di
conseguenza, quando questo fatto avviene in una setta, oppure un capo crea
un culto indirizzato al suo proprio profitto, o alla sua personale
glorificazione, allora la parola setta, o culto vengono utilizzati nel senso
di denigrazione, che giustamente si addice al fenomeno.

Tuttavia, delle sette, o dei capi conosciuti come perniciosi possono a volte
fare un certo bene ai loro aderenti; per esempio, quando dei giovani dediti
alla droga, o che conducono una vita licenziosa vengono aiutati a
purificarsi ed a rintracciare un ideale di vita.

L’obiettivo del Vedanta e’ la liberazione spirituale di coloro che lo
seguono. L’organizzazione non ne rappresenta che il tutore e lo swami in
carica non e’ che il giardiniere utile quando la pianta e’ piccina. Swami
Vivekananda diceva:” E’ cosa buona nascere in una chiesa. Non altrettanto,
il rimanervi”. Lo sviluppo del programma del CentroVedantico Ramakrishna
parla
di dogmi e di templi come dettaglio secondario, essendo il nostro obiettivo
quello di manifestare il divino in noi.

Quindi, il Vedanta di Ramakrishna costituisce una nuova chiesa? Si’, e no.
Al di fuori dell’iniziazione, gli swamis non compiono alcun altro rito, come
il
battezzare dei bambini, o dei giovani; il consacrare i matrimoni, dare
l’estrema unzione, sotterrare i morti. Non considerano l’Ordine, oppure essi
stessi, come cio’ che conferisce la salvezza. E, sicuramente, essi non
operano nella gerarchia per fondare un’organizzazione Ramakrishna che possa
e debba detenere un’influenza temporale. Viene, difatti, proibito ai membri
monastici di occuparsi minimamente di politica. Ognuno di essi e’ libero di
entrare, o di lasciare l’organizzazione, a qualunque momento. Tuttavia, il
centro Vedantico puo’ essere considerato come una chiesa, nel senso che
offre un focolare locale, ove gli individui possano riunirsi per operare in
direzione della propria salvezza, ed in presenza di un capo e di altri che
si occupano della medesima ricerca.

A Gretz, ed in alcuni altri centri, vi sono determinate facilitazioni di
Ashram, per le quali i capi famiglia possono vivere a stretto contatto con i
monaci , durante il loro ritiro spirituale; cio’ somiglia alle comunita’
Esseniche dei tempi di Gesu’ e a quelle originali che nacquero agli inizi
del Cristianesimo. Ed obbedisce all’indicazione di Ramakrishna, per il quale
i
capi famiglia, di tanto in tanto, dovrebbero assentarsi dai loro obblighi
secolari per trascorrere qualche giorno in santa compagnia.

I sadhaks laici sono chiamati discepoli capi famiglia. Essi occupano un
onorevole posto nel movimento. Non figurano nella gerarchia, ma la
sostengono e ne ricevono un profitto spirituale. I centri, i templi e gli
ashrams rappresentano il risultato fisico della cooperazione tra monaci e
laici. Il ministero spirituale e la direzione quotidiana vengono portati
avanti dallo Swami in carica, grazie all’opera dei suoi aiuti monastici e
laici.

Gli adepti laici hanno un certo lavoro da compiere in riferimento al tempio.
I monaci hanno la loro vita quotidiana dedicata a servire gli adepti laici;
ed i fedeli acquistano una filiazione religiosa aiutando i membri monastici
nel loro lavoro. E’ uno scambio equo nel quale non vi sono ne’ perdenti, ne’
coloro che vi guadagnano; ne’ superiori, ne’ inferiori. Gli swamis svolgono
a volte un’ attività pratica, proprio in dimostrazione di cio’.

Formulando quelle regole che avrebbero guidato la vita monastica durante
centinaia di anni, san Benedetto parla dell’equipaggiamento quotidiano –
strumenti ed approvvigionamenti – come altrettanto preziosi del vasellame
santo esposto sull’altare, che si dovra’ utilizzare e di cui ci si dovra’
prendere cura con eguale rispetto. Gli occupanti ogni ashram seguono codesta
regola e la estendono agli edifici ed ai loro domìni.

Sant’Agostino immagino’ la Chiesa come una citta’ terrestre di Dio, nella
quale i cristiani vivevano in armonia, preparando il proprio trasferimento
nella sua controparte celeste. Noi tutti abbiamo un simile concetto a
riguardo del centro Vedantico. Si tratta di una comunita’ di gente virtuosa.
Ramakrishna diceva che i suoi devoti formavano una nuova casta, o una casta
a parte. Cioe’, i membri della Missione Ramakrishna costituiscono una
fratellanza grazie alla loro adesione al suo ideale. Il nostro movimento non
tende alla speranza di raggiungere il cielo nel senso cristiano del
concetto, ma alla trasformazione di se’, che porta, in questa stessa vita,
alla perfezione. Il Vedanta insegna come realizzarla. Il Centro dovrebbe
venire considerato solo un ambiente spirituale, ed ogni cosa deve condurre a
questo fine.

La vita in un ashram e’ un’esperienza nell’arte di sviluppare la destrezza e
la sottigliezza. Benche’ altre costumanze possano venire codificate – come
ho cercato di fare in questo articolo – il reale successo per vivere in un
ashram passa naturalmente attraverso l’interiorizzazione. Il carattere si
affina. Ci si rende conto che le regole che conducono al successo nel mondo
non hanno valore in un ashram (autorita’ sociali, mettersi in mostra – ad
esempio). Si tratta di una sorta di comunita’ interamente diversa, con
diversi obiettivi e modi di raggiungerli. In generale, ne’ il guru, e ne’
altri ve lo diranno. Dovrete apprenderlo, sentirlo con il vostro intuito;
semplicemente facendo delle sciocchezze, sviluppando la modestia, il
silenzio, il rispetto. Riassumendo: sattva – ed ancora sattva.

da www.vidya.org

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