Buddhismo: La fine delle rinascite

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La fine delle rinascite

(del venerabile Ajahn Viradhammo)

Dal Forest Sangha Newsletter, n. 36.

Traduzione di Giuliano Giustarini.

Nel buddhismo si prendono in considerazione due livelli esistenziali. Il
primo livello è quello convenzionale, di ‘me’ come persona e di te come
persona. Per esempio c’è Viradhammo, un uomo sulla cinquantina, fisicamente
giù di forma, con i suoi doveri di abate ad Amaravati. Questo è l’io come
persona. C’è quindi il sentirsi una persona, il senso di responsabilità nei
confronti della società, la posizione che si occupa nella società stessa.
Abbiamo dunque a che fare con questo senso del sé, che ha un suo valore. Le
migliori espressioni di questo livello sono la moralità, una retta condotta
di vita, la responsabilità per l’ambiente, l’azione sociale e la creatività.

È molto importante sapere operare in questo livello nel miglior modo
possibile. Creare cose buone è un’ottima cosa, ma non ci libera, perché le
cose cambiano. Spesso ce ne accorgiamo quando qualcuno critica quello che
facciamo. Ci sembra che stiamo facendo un grande lavoro, ma quando qualcuno
ne nota i difetti, ci accorgiamo che il nostro lavoro non ci ha liberato,
che è legato alle circostanze contingenti.

Se cerchiamo di realizzarci sul piano della famiglia, dell’azione sociale e
della creatività, il nostro cuore non sarà mai appagato, perché queste
condizioni cambiano continuamente e dipendono da fattori esterni, al di
fuori del nostro controllo. Se cerco di realizzarmi nella famiglia, ma poi i
miei figli lasciano la casa, o muoiono… cosa faccio se la mia vita dipende
completamente da questo? In tale livello di realizzazione non c’è
liberazione, non c’è rifugio – sebbene ciò non significhi che non dobbiamo
realizzarci sul piano relativo.

Il secondo livello è il livello del Dhamma, il livello della liberazione del
cuore. Quando sviluppiamo un vivere buddhista, vediamo come la nostra
famiglia e la nostra posizione sociale possono veramente essere il nostro
‘monastero’: è lì che pratichiamo la consapevolezza e la contemplazione. Che
tu sia un artista, un dottore, un fotografo o un disoccupato, ‘quello’ è il
tuo monastero, lì è dove pratichi.

Sono stato nove anni in Nuova Zelanda e sono stato molto occupato in un
bellissimo progetto per la costruzione di monastero. Durante quel periodo
c’era
la necessità di funzionare a un livello sociale – dovevo lavorare e
organizzare le cose – ma, attraverso tutto ciò, la cosa più importante da
considerare era la sofferenza e la fine della sofferenza: il mondo
interiore. Avevamo costruito una bellissima sala per la meditazione e
restava da metterci le porte. Sfortunatamente il falegname che doveva
consegnarci le porte non era molto efficiente : ci diceva che le porte
sarebbero state pronte la settimana successiva, e ha continuato a dircelo
per quattro mesi ! A livello relativo dovevamo dirgli : “Hey, ascolta !
Abbiamo un contratto, non stai rispettando gli impegni”. Ma al livello
interiore dovevamo osservare il fastidio che provavamo.

Così entrambi i livelli stavano operando. Ci ritrovavamo con una sala di
meditazione senza porte, avevamo un ottimo falegname che però si era
rivelato inaffidabile. E sebbene dovemmo essere un po’ bruschi per ottenere
quello per cui avevamo pagato e che quindi ci spettava, tuttavia non
odiavamo quell’uomo. Eravamo di fronte alle nostre tendenze mentali che ci
suggerivano di odiarlo. La nostra pratica era esattamente lì: il falegname
era il nostro monastero.

Perciò se, da una parte, è vero che non bisogna tirarsi indietro di fronte
alle sfide della vita, è però altrettanto vero che dobbiamo riconoscere
anche il nostro mondo interiore. Considerando attentamente il mondo
esteriore e il mondo interiore scopriamo un equilibrio tra la realtà
convenzionale e il lavoro interiore. Così il falegname diviene una persona
grazie a cui imparo sia a difendere i miei diritti senza mettere la coda in
mezzo alle gambe, sia ad essere paziente.

Il mondo interiore è qualcosa su cui lavoriamo durante i ritiri. Ma non
dobbiamo dimenticare il mondo convenzionale, poiché il buddhismo non è una
bizzarra esperienza chiamata ritiro! Non possiamo passare tutta la vita a
fare ritiri, dobbiamo vivere nel mondo. Il pregio dei ritiri, naturalmente,
è che non c’è bisogno di mettersi a sistemare le cose intorno a noi. Se un
toast è bruciato, è bruciato; non facciamo causa al cuoco. Lavoriamo con
qualsiasi cosa ci capita e abbiamo la libertà di osservare. Un ritiro ci
offre l’opportunità di guardare la sofferenza e la non-sofferenza.

Forse nella vostra vita avete a che fare con delle difficoltà, si tratti di
figli disobbedienti o di creditori. Cercate di non limitarvi a sbarazzarvi
immediatamente di questi problemi ! Vi suggerisco, piuttosto, di lavorare
proprio con quella sensazione di ansia o di preoccupazione che è la vostra
condizione presente. Questa è la capacità di passare dal livello
convenzionale, sociale dell’io come persona al livello impersonale del
Dhamma. In questo modo è possibile penetrare la nostra esperienza, qualunque
sia la nostra situazione nella società. Possiamo osservare il pensiero,
l’attività
mentale. Se quest’attività è mantenuta sul piano personale, saremo pieni di
pensieri come “Che farò domani ? Devo fare questo o devo fare quest’altro
?”.

Tutto ciò accade sul piano personale ma, a livello del Dhamma, sono soltanto
progetti, preoccupazioni, pensieri. Se rimaniamo sul piano personale, ci
sarà sempre questo conflitto. È soltanto al livello impersonale che
comprendiamo il ‘non-sé’ (anatta). Non si tratta di definire la vita stessa
come impersonale: abbiamo ancora il nostro kamma individuale ma, a un
livello impersonale, possiamo giungere a una comprensione che, trascendendo
l’ignoranza, sia in grado di liberarci. Non possiamo evitare i falegnami per
tutta la vita !

Ci sono molti insegnamenti che possono aiutarci, come, ad esempio, le
Quattro Nobili Verità o la Produzione Condizionata (paticca-samuppada).
Questi insegnamenti ci aiutano a guardare nella direzione giusta e ci
mostrano il sentiero per la libertà. Ci disidentificano dalla visione
personale con cui vediamo una situazione spiacevole e ci mettono di fronte
alla nostra sofferenza. Questa capacità di vedere le cose su un piano
impersonale può essere sviluppata. Se sono in grado di osservare in
un’ottica
impersonale la rabbia che provo per il falegname che non adempie al suo
dovere, semplicemente riconoscendo la mia sofferenza, allora potrò
comprendere ogni tipo di rabbia che potrò sperimentare nel corso della mia
vita e saprò come rapportarmici.

Nel buddhismo si parla di tanha, il desiderio : desiderio di divenire,
desiderio di sbarazzarsi di qualcosa, se non ci piace, o di impossessarsene,
se ci piace particolarmente. Il desiderio è una caratteristica umana
fondamentale, né giusta né sbagliata. È importante capire i tre tipi di
desiderio, bhava tanha, vibhava tanha e kama tanha. Bhava tanha è il
desiderio di essere. Notate come, durante i ritiri, siamo qualcuno o
qualcosa. A volte c’è la sensazione di essere rapiti dai propri ricordi e ci
ritroviamo indietro nel tempo.

Oppure ci viene in mente una possibilità futura, un’aspettativa del divenire
attraverso cui proiettiamo il pensiero di essere una persona. Se non siamo
consapevoli di questo, allora la nostra attenzione verrà letteralmente
rapita da un costante livello di stress nella mente. Poi c’è vibhava tanha,
che è una forma di repressione. Abbiamo molti concetti su ciò che non
dovremmo essere e su ciò che non dovremmo avere. Vibhava tanha è il
desiderio di sbarazzarcene. Kama tanha è il desiderio di piaceri sensoriali.
Desideriamo che il corpo si trovi in una condizione confortevole, mentre non
ci piace soffrire di artrite o sperimentare dolore fisico. Tuttavia una
delle lezioni della vita, se pur crudele, consiste nel dover affrontare il
dolore fisico.

Fa parte della vita. Così, a livello convenzionale, abbiamo a che fare con
il dolore. Possiamo ricorrere alle erbe cinesi, all’agopuntura, lavorando
sul dolore sul piano convenzionale. Ma, al livello del Dhamma, possiamo
riflettere : c’è la malattia. Perché c’è la malattia ? Perché c’è la
nascita. Ci piaccia o no, è così che va. Perciò la malattia è qualcosa da
cui possiamo apprendere, nello stesso modo in cui possiamo imparare dal
dolore.

Durante i ritiri sperimentate dolore ; spero che non vi ammaliate o che non
soffriate troppo, ma probabilmente provate comunque un po’ di dolore alla
schiena o alle ginocchia, o da qualche altra parte. E quando c’è il dolore,
sorge il desiderio di agio, di conforto. È un istinto primario ed è
necessario comprenderlo. Se si riesce a comprendere il desiderio che il
dolore abbia fine e a stare in pace con il dolore, si fa qualcosa di
estremamente utile a se stessi. Perciò cercate di usare la sensazione del
dolore per esaminare il desiderio, per vedere dove esso ha inizio e dove
finisce.

Le stesso vale per le dinamiche connesse alle emozioni e alla coscienza. Il
Buddha ci ha incoraggiato ad osservare in che modo la coscienza e il corpo
sono in relazione con le sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre ; il che
significa fare delle sensazioni (vedana) il proprio oggetto di
contemplazione. Quando avete sete, bevete un bicchiere di succo di arancia
ed è piacevole. Quando sedete in meditazione e vi fanno male le ginocchia, è
spiacevole. È ovvio. Quindi, senza curarvi dell’oggetto che causa in voi la
sensazione piacevole, spiacevole o neutra, osservate la sensazione di per
sé, prendete in considerazione la sua piacevolezza, spiacevolezza o
neutralità.

Spesso, quando non siamo in contatto con il Dhamma, non riusciamo ad
accorgerci di questi stati fondamentali della mente. Cerchiamo soltanto di
goderci ciò che è piacevole e di minimizzare quel che è spiacevole, e questa
ci sembra la cosa più logica da fare. Ma tutto questo nostro agire non fa
che causare in noi agitazione, perché, per quanto ci sforziamo, ci saranno
sempre sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre : è così che funziona la
coscienza sensoriale.

Cercare il piacevole, cercare di sbarazzarsi dello spiacevole, è samsara.
Più lo facciamo e più lo vogliamo e ci sentiamo costretti a farlo. Aumenta,
in maniera progressiva, la nostra dipendenza da questo modo di agire.
Entriamo in quel fenomeno estremamente stressante che viene detto
‘rinascita’.
Siamo spinti continuamente a divenire, a fare, e ciò ci allontana dalla
‘nostra vera casa’. Ci allontana dall’incondizionato, perché piacere e
dolore sono sempre condizionati. Quando cambiano, sentiamo il bisogno di
cambiare. Quando ci aggrappiamo al piacere e al dolore, veniamo trascinati
nella ruota del samsara.

La ruota è una delle immagini tradizionali buddhiste. Il cerchio rappresenta
l’esperienza sensoriale, in cui il piacevole e lo spiacevole si susseguono
continuamente. Se ci aggrappiamo al piacevole o allo spiacevole rimaniamo
imprigionati in questo movimento circolare che è appunto l’esperienza
sensoriale. L’asse della ruota, invece, è il centro del conoscere e
dell’essere
e comprende tutto. Lì si trova l’incondizionato. Se siamo in grado di
raccoglierci nella consapevolezza e di essere quel punto fisso, il centro
del conoscere, ci sarà ancora l’alternarsi dell’esperienza tra alti e bassi,
ma avremo un rifugio. È quello che Ajahn Chah chiamava ‘la nostra vera
casa’.

Quindi la ruota è la struttura di base che il Buddha ci chiede di prendere
in considerazione. Il nostro corpo sensibile viene a contatto con gli
oggetti. Quel contatto produce sensazioni (vedana), piacevoli, spiacevoli e
neutre. Da qui ha origine il desiderio (tanha), quindi l’aggrapparsi al
desiderio (upadana), e l’intero processo del divenire (bhava) e della
rinascita (jati).

Se si continua a seguire questo processo, esso diventa un’abitudine, ed è
allora estremamente difficile tornare all’imperturbabile centro dell’essere
: si è ormai troppo invischiati nell’inseguire tutto ciò che si muove, le
emozioni, i pensieri. Perché veniamo rapiti in questo modo ? Nonostante ci
sediamo con la determinazione di non farci rapire dai nostri contenuti
mentali, siamo tuttavia costretti a constatare che è molto difficile. Non
pensate che accada soltanto a voi, siamo tutti nella stessa barca ! È molto
difficile a causa della forza delle nostre abitudini, il nostro kamma.
Possiamo anche avere delle intenzioni davvero buone, ma poi arrivano delle
situazioni che suscitano in noi rabbia o paura. Questo è il kamma.

Attraverso la pratica, cioè osservando i fenomeni secondo la prospettiva del
Dhamma anziché rimanere impantanati al livello della personalità, possiamo
spezzare tutti i legami kammici. La contemplazione delle sensazioni
(vedanupassana) è uno dei Quattro Fondamenti della Consapevolezza. Richiede
un’estrema attenzione nell’osservare il modo in cui alcune cose ci
attraggono e altre ci respingono. Possiamo provare ad osservare un’emozione,
una sensazione fisica, oppure un pensiero. Ma possiamo anche provare ad
osservare le nostre reazioni di attrazione o repulsione di fronte alle
persone. Durante i ritiri potete incontrare delle difficoltà con qualcuno,
così come potete innamorarvi di qualcun altro. Troviamo alcune persone
fisicamente molto attraenti, altre meno. Alcune persone hanno molto carisma,
altre no. Osservate il modo in cui siete attratti o respinti ; guardate quel
semplice movimento del cuore. Questo è il punto in cui sorgono le emozioni
abituali.

Se imparate a conoscere quel movimento, a non seguirlo e a non reagire ad
esso, allora comincerete a non soffrire. Prendiamo ad esempio il vostro
carattere, gli aspetti di voi stessi che non vi piacciono, le emozioni che
pensate non debbano esserci ; tutto ciò è spiacevole. Perciò osservate,
chiedete a voi stessi “Che sapore ha un’emozione spiacevole ?”. A volte,
durante la meditazione, vi capita di sperimentare tranquillità, beatitudine,
o di vedere delle luci radianti, o di assaporare la bellezza del silenzio,
la sua capacità di attrarci… ma ecco che un rumore assordante giunge a
disturbarci ! Così ci attacchiamo a ciò che è piacevole, raffinato, e
cerchiamo di sbarazzarci di ciò che troviamo brutto. Ma cos’è che ‘conosce’
ciò che è piacevole e ciò che è spiacevole ?

A volte, mentre sedete, la mente è annoiata, vi guardate intorno e vi
sentite attratti da qualcuno… ed ecco che cominciate a ‘creare’ una storia
d’amore. Questa è la creazione dell’ ‘io’ e di ‘quella persona’, e queste
proiezioni vengono chiamate ‘storia d’amore vipassana’. A volte proiettiamo
sentimenti d’odio, quando ad esempio una persona non ci piace affatto. E di
solito, quando ciò accade, non ci limitiamo ad osservare le nostre
sensazioni, ma diventiamo molto critici e pieni di avversione. Ma possiamo
contemplare le sensazioni, le immagini che abbiamo prodotto, e quindi essere
consapevoli dell’attrazione o dell’avversione. Questo ci conduce alla pace
della mente, all’equanimità, anziché all’identificazione con le sensazioni.

Molto spesso rimaniamo talmente intrappolati nell’attaccamento al piacere da
non riuscire neanche a notare le sensazioni neutre, che ci appaiono noiose.
Come amava sottolineare Ajahn Chah, la sensazione neutrale, l’ordinario, è
come lo spazio che va dalla fine dell’espirazione e l’inizio
dell’inspirazione.
Ha un effetto calmante ma tendiamo a non accorgercene, perché vogliamo
eccitazione e siamo abituati alla reattività.

La pratica di vedanupassana richiede un’attenzione minuziosa; contemplando
le sensazioni siamo in grado di demolire l’intera struttura dell’io. Cercate
semplicemente di osservare l’attrazione e la repulsione all’interno della
mente. In questo modo non sarete identificati con un io, una persona, ma
contemplerete il Dhamma. Perciò chiedetevi : “Cos’è che osserva ?”. É in
quel conoscere che troviamo la nostra libertà.

Avete un corpo dotato di sensi ; vivete in un ambiente con cui siete in
contatto ; quel contatto produce sensazioni piacevoli, spiacevoli e neutre.
Ed è proprio qui che dovete lavorare. Alla sensazione segue tanha :
desiderare il piacevole, rifiutare lo spiacevole, annoiarsi e illudersi
quando di fronte alle sensazioni neutre. Spesso, quando emerge il desiderio,
lo afferriamo, ‘crediamo’ in esso: siamo convinti che se lo seguiamo saremo
veramente felici, oppure che sbarazzarcene sia la cosa migliore da fare.
Quindi ci sono il credere nel desiderio e l’attaccamento (upadana).

Dall’attaccamento deriva il senso del divenire : si rimane coinvolti in
questo processo e si ‘rinasce’ in una nuova situazione. Da qui emerge
l’insoddisfazione.
Osservate come agiscono nascita e morte : la meditazione vi annoia, le
ginocchia vi fanno male, avete voglia di alzarvi e di dedicarvi a qualcosa
di interessante. Ecco che vi viene in mente un’idea geniale, creativa,
un’idea
che aiuterà il mondo. L’attaccamento permette a quest’idea di proliferare e
ci impedisce di osservarla, di vederla semplicemente come un’idea piacevole.

Cominciamo a pensare, ci aggrappiamo al desiderio e creiamo qualcosa.
Questo è il momento in cui cerchiamo la rinascita e cominciamo a vagare da
una rinascita all’altra. È importante accorgersene, perché è a questo punto
che abbiamo una scelta. Se riusciamo a vedere attentamente il desiderio,
senza afferrarlo, ci risparmieremo una rinascita e sperimenteremo il
silenzio della mente. Se invece scegliamo di rinascere, dovremo,
conseguentemente, sperimentare una morte. La morte è quando la danza dei
desideri non si ferma, ma continua ininterrottamente nella nostra mente.
Questo è il declino, il kamma dell’attaccamento. Non affrontiamo mai questo
declino, abbiamo paura di confrontarci con la noia e con la disperazione,
per cui cerchiamo una rinascita alternativa. La noia e il disincanto sono
davvero importanti perché, se riusciamo a sopportare la fine di un ciclo,
questa accettazione ci condurrà oltre la rinascita.

Dunque possiamo scegliere. A volte ci riuscirà di osservare quel movimento
della mente verso ciò che è piacevole e perciò diremo : “No, in realtà non
ne ho bisogno”. Altre volte ci ritroveremo invischiati nel piacere. Allora
ne sperimenteremo il declino e ne pagheremo lo scotto. Ricordate che se
scegliete di rinascere, poi dovrete morire di nuovo ! Il Nibbana, o
liberazione, è ciò che non nasce e non muore e ci conduce aldilà del ciclo
delle rinascite. E per rinascita non intendo il fatto di divenire un
coniglio nella prossima vita, ma mi riferisco al qui ed ora. Se
comprenderemo questo principio nel modo giusto, esso funzionerà per noi
sempre in questo modo.

° ° ° ° ° °

Ajahn Viradhammo, nato in Germania da famiglia lettone ma canadese di
adozione, è monaco della tradizione della foresta dal 1974. E’ stato uno dei
primi discepoli occidentali di Ajahn Chah e ha fondato il monastero
Bodhinyanarama in Nuova Zelanda

© Ass. Santacittarama, 2005. Tutti i diritti sono riservati.
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