Al di là delle aspirazioni e dei valori mondani

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Al di là delle aspirazioni e dei valori mondani

di Sister Ajahn Candasiri

Tradotto da Gabriella De Franchis

Tratto dal libro “Freeing the heart”, reperibile dal sito amaravati.org

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.

“Namo tassa bhagavato arahato sammasambuddhassa – Omaggio al Beato,
Nobile e perfettamente Illuminato.”

Trovo sempre che queste parole di omaggio al Buddha siano un modo per
aiutarci a ricordare qual è il luogo di rifugio. Da questo luogo,
sentendo di essere protetti, possiamo accorgerci del canto delle
Sirene, delle voci del mondo che ci attirano verso cose che non sono
sicure. Spesso possono essere esperienze che dobbiamo gestire, benché
non siano tanto ovvie, e possiamo essere attratti verso impulsi
irrazionali d’ogni genere: idee molto forti su ciò che dovremmo o che
non dovremmo fare, su cose di cui ci dovremmo o non ci dovremmo
preoccupare.

C’è un sutta che a volte recito e che trovo molto utile come ancora:
elenca le dieci cose che i samana, quelli che hanno intrapreso il
cammino monastico, dovrebbero avere l’abitudine di ricordare. La prima
è “Non vivo più in conformità delle aspirazioni e dei valori mondani”
e indica il fatto che quando si entra a fare parte della comunità
monastica gli appellativi mondani vengono abbandonati. Tra di noi non
si possono distinguere principi, principesse o gente titolata,
diventiamo tutti solamente samana.

Una deliziosa storia che risale ai tempi del Buddha racconta che, dopo
la sua illuminazione, i suoi cugini, che erano tutti nobili principi,
decisero di intraprendere il cammino monastico, di abbandonare le loro
condizione familiari e i posti di potere e di diventare suoi
discepoli. Così partirono con Upali, il loro barbiere. Era loro
intenzione di rimandare Upali al palazzo, ma questi volle proseguire
con loro per diventare anche lui discepolo del Buddha. Quando giunse
il momento di ricevere l’ordinazione, i principi dei Sakya si
assicurarono che Upali fosse il primo in modo che fosse il monaco più
“anziano” fra di loro. Abbandonarono così la loro condizione
principesca ed oggi noi, allo stesso modo, ci inchiniamo
reciprocamente secondo un ordine di anzianità, dovuta a quando abbiamo
ricevuto l’ordinazione.

C’è un’altra prospettiva in cui mi piace vedere questa storia ed è che
noi operiamo in termini di Dhamma piuttosto che cercare di avere
potere o successo in senso mondano. Nella vita del Sangha possiamo
essere molto bravi in certe cose. Abbiamo artigiani molto abili nella
comunità, abbiamo persone che sono brave nel fare conferenze, abbiamo
persone molto brave nel cucito o che sono bravi amministratori o
artisti molto capaci, ma per quanto riguarda la pratica, queste cose
non sono poi tanto importanti. Il successo visto in una dimensione
mondana non ha una importanza reale. Certo è bello quando una comunità
procede senza intoppi, quando le cose vengono fatte bene e quando la
gente sa costruire edifici che non crollano e fare cuciture dritte nei
vestiti. Sapere fare questo tipo di cose è un bene, ma, in realtà, il
nostro dono o il nostro contributo si riferisce alla pratica del
Dhamma.

Tenere conto di questo è utile per tutti, sia che viviamo come monaci
o monache, sia che viviamo in famiglia e dobbiamo andare a guadagnarci
da vivere e badare alla casa, o che so io. Perché queste Sirene,
queste voci del mondo sono molto potenti, molto convincenti e possono
metterci in un mare di guai. Anche se abbiamo molto successo o se
facciamo cose meravigliose, i momenti di grande trionfo, quando
raggiungiamo veramente l’apice della fama o del prestigio o quando
facciamo del nostro meglio, sono solo momenti, non durano. Ci arrecano
un senso di piacere e di soddisfazione, ma se li consideriamo come gli
eventi più importanti, la nostra vita sarà una serie di alti e bassi.
Possiamo avere momenti di grande successo, ma che facciamo quando
passano? Possiamo cercare altro successo o ricordarci di quel grande
momento, di quell’apice e rispolverarlo di tanto in tanto
accarezzandone il ricordo.

Questa pratica ci dà la possibilità di trovare qualcosa che va oltre
il mondo e che durerà più di quanto possano durare i successi e i
fallimenti terreni; qualcosa che sarà un vero rifugio per noi quando
tutto il resto va in pezzi. Così quando saremo vecchi o malati, quando
non potremo più avere successo, ci sarà una dimora sicura, qualcosa
alla quale potremo rivolgerci.

Trovo che tenere questo in considerazione sia molto utile perché,
mentre ci sono giorni in cui nella nostra comunità le cose sembrano
andare molto bene (e certamente questi momenti ci fanno molto
piacere), ci sono anche giorni in cui le cose non vanno tanto bene.

A volte può succedere che, mentre tutti gli altri stanno bene, per me
è una brutta giornata. Mi sento scombussolata, le cose non funzionano,
il computer non fa quello che voglio che faccia, il fax si rompe. Se
non ricordo a me stessa in continuazione che la mia vita non si basa
su aspirazioni e valori mondani – che in realtà non importa se le cose
vanno male, che quello che davvero conta è il modo in cui io rispondo
a queste cose – allora è possibile che soffra. Posso soffrire o posso
comprendere che è così solo perché la realtà è così in questo preciso
momento. Forse non è colpa mia o di nessun altro, forse è solo il modo
in cui si sono combinati i fatti. Non devo dare la colpa a nessuno,
non devo incolpare me stessa, non devo lottare, non devo combattere o
intervenire sull’esperienza, farla diventare in un altro modo: tutto
quello che devo fare è fare pace con le cose così come sono.

A volte le persone dicono: “Caspita, i buddhisti sono terribilmente
passivi, con questo fatto di essere in pace con le cose così come
sono, che cosa fanno di buono per il mondo?” L’alternativa a questo è
che quando la vita procede male e noi non siamo consapevoli, tendiamo
a irrigidirci. La mente reagisce e avviene una chiusura, è come avere
i paraocchi e vedere solo in una direzione. Teniamo tutto saldamente
stretto e cerchiamo di mantenere la realtà così come pensiamo che
‘debba essere’. C’è dell’ostinazione in questo. Così creiamo uno stato
di tensione che coinvolge tutti e questo sicuramente porta sofferenza.

Ma se coltiviamo l’atteggiamento del lasciare andare, se siamo
presenti alle esperienze così come sono e siamo in pace, la mente è
più sensibile, risponde meglio, è più intuitiva. E’ molto più
consapevole. Allora la nostra risposta sarà in accordo con il Dhamma;
ci sarà un senso di armonia e non quel senso di chiusura che deriva
dal fatto di trattenere le cose con un atteggiamento di paura e di
desiderio.

Il Dhamma è uno dei nostri rifugi, un posto sicuro. Possiamo trovare
la pace là dove non c’è pace e la sicurezza in ciò che non è sicuro
semplicemente rapportandoci al momento presente come un Rifugio,
chiedendoci: “Com’è questo momento? …”, e riposare nel presente,
così com’è. Se siamo a nostro agio, siamo in sintonia con l’esistenza
e possiamo rispondere in modo adeguato, piuttosto che dare una
risposta volitiva che prolunga lo stato di agitazione. Diversamente
quello che succede è che quando qualcosa va male si creano delle
ripercussioni: noi reagiamo, diciamo parole inadeguate, le persone si
risentono verso di noi e così si crea una sensazione diffusa di
disarmonia.

C’è stata una scena meravigliosa oggi, all’ora del tè, giù nella
‘serena casetta dove vivono le monache’. Mi ero fatta un’idea di come
sarebbe stata la serata; aspettavo la visita di una mia cugina e di
un’altra carissima amica, sarei andata a preparare il tè e poi sarei
andata a parlare con loro in tranquillità. Mentre stavo preparando il
tè è spuntata un’altra mia amica; è stato molto bello, ci siamo
salutate e mi ha aiutato. Poi, inaspettatamente, una monaca tibetana è
passata con una sua amica e si sono unite a noi. Infine è venuto
qualcun altro.

Qualche istante dopo una nostra giovane amica, che sta attraversando
un periodo di forte esaurimento, è passata di lì e si è messa a fare
strane cose. Ma è anche arrivata una coppia di sorelle che sono in
ritiro nella foresta e si aspettavano di trovare il posto vuoto e
tranquillo, così la nostra cucinetta si è riempita di persone che
prendevano il tè! Sono stata molto grata per questa pratica.
Significava tenere i piedi per terra e rendersi conto che ‘questo è
quello che c’è in questo momento, e non c’è niente che non vada bene’.

Non era esattamente ciò che avevo in mente per la serata, ma andava
perfettamente bene. Sentivo che tutte le vicende strane che stavano
accadendo ci divertivano molto ed ero grata del fatto che non vivevo
secondo aspirazioni e valori mondani. Il valore mondano sarebbe:
“Bene, doveva andare così e io avrei dovuto fare questo; le cose non
sono andate per il verso giusto, non hanno funzionato, e ora tocca a
me aggiustare tutto”. Ma quando lasciamo andare, allora va bene
qualsiasi fatto accada, la realtà non deve fluire secondo un piano
definito. Questa è una grande sicurezza.

Prima di iniziare questo tipo di pratica mi preoccupavo sempre che
tutto andasse per il verso giusto. Dovevo sempre avere un’idea di
quello che sarebbe successo. Dovevo fare i giusti preparativi e se le
cose non andavano bene c’era una certa tensione.

Quando venni per la prima volta in comunità, frequentai un ritiro
condotto da Ajahn Viradhammo. Ricordo che in esso si parlava di
prendere rifugio nel Dhamma, e iniziai a capire cosa significa
veramente ‘prendere rifugio nel Dhamma’. Fu stupendo, ero così
abituata a prendere rifugio nella mia mente, la mia mente abile che
risolveva le cose ed era capace di giudicare e valutare in base a
quello che io ritenevo giusto e appropriato. Mi resi conto di quanto
usassi l’intelletto per restare padrona del mio mondo, e cominciai a
vedere che, in effetti, prendere rifugio nel Dhamma significava
lasciare andare l’intelletto, lasciare andare quelle strutture che
avevo usato per stabilire come vivere la mia vita. La mia
disponibilità a lasciare andare le cose sulle quali ero stata abituata
a fare affidamento, a concedere a me stessa di non avere alcuna idea
su cosa fare o su cosa sarebbe successo in seguito e prendere rifugio
nel momento, essere consapevole del momento piuttosto che restare
attaccata ad un determinato punto di vista o ad un preciso progetto, è
stato un atto di fede.

Quando si parla di svincolarsi da aspettative e valori mondani, o di
prendere rifugio nel Dhamma, non significa che si debba rinunciare
all’intelletto: significa che non gli si deve permettere di essere il
nostro padrone. Possiamo continuare a fare progetti e ad usare in
maniera intelligente il cervello che abbiamo, ma lo facciamo da un
luogo di Dhamma piuttosto che da un luogo di paura e di desiderio;
queste cose le lasciamo andare. Certo, questo richiede del tempo, non
si può fare in un istante.

Vivendo in una comunità o nella società certamente bisogna fare dei
progetti. Chi ha un posto di lavoro deve presentarsi lì e guadagnarsi
da vivere. Vivendo in un monastero, noi abbiamo compiti differenti che
svolgiamo facendo del nostro meglio, cerchiamo di vivere nel miglior
modo possibile in accordo con la nostra formazione che è predisposta
per aiutarci a comprendere le nostre pulsioni, per vedere chiaramente
le Sirene che ci allontanano dalla nostra reale potenzialità, dalla
nostra reale possibilità di essere liberi.

Ricordo che diversi anni fa, quando la comunità delle monache era
ancora in una situazione abbastanza delicata e fragile, ricevemmo una
visita di Maechee Patomwan che era stata monaca in Thailandia da
trentasei anni. Si accorse che ero preoccupata perché alcune persone
avevano dei dubbi riguardo alla comunità delle monache (se eravamo
sufficientemente rispettate e se le cose per noi fossero facili) e mi
disse. “Non preoccupartene. Non ti preoccupare di sembrare buona o
cose del genere. Concentrati solo sulla tua pratica. Occupati solo del
tuo cuore, tieni il tuo cuore in pace. Se fai questo, tutto andrà
bene, il rispetto arriverà, le cose funzioneranno.”

Il solo fatto di sentire queste parole fu un sollievo perché mi
confermava quello che intuitivamente avevo pensato per tutto il tempo.
Mi resi conto che cercare di sembrare buona, cercare di ottenere
rispetto, erano aspirazioni mondane, valori mondani; significava avere
una comprensione errata. Quindi si può vedere se c’è sofferenza o se
non c’è sofferenza. E se c’è sofferenza, allora “Perché c’è
sofferenza? C’è sofferenza perché voglio essere rispettata, o perché
voglio sembrare buona”. Una volta stabilito questo si può indagare
ulteriormente: “E’ davvero importante? Mi interessa veramente?

Ho pensato molto alla domanda “Come stai?” e mi sono resa conto che è
una domanda che ci dovremmo porre spesso: “Come stai oggi?”. Sto
cominciando ad imparare a farlo. Per esempio, questa settimana ho
avuto una giornata di pausa; ero abbastanza stanca così ho pensato:
“Meglio che mi riposi.” Mi sono sdraiata, ma la mia mente è diventata
una furia. E quindi ho pensato: “Allora, come stai?”. E ho visto che
stavo pensando a tutte le attività di cui avrei dovuto occuparmi “devo
fare questo, devo fare quello, devo pensare a questo, devo pianificare
questo, e devo scrivere a Tizio e Caio e devo parlare con Tizio e Caio
e … ” E pensavo: ‘E’ sicuro che riposare mi aiuterà? … La risposta
era ‘No’. Non avevo bisogno di riposare, quello di cui avevo bisogno
era aiutare la mente a calmarsi: “Va bene. Allora, qual è la cura per
questo?…”. Mi resi conto che quello che dovevo fare era stare seduta
tranquilla.

Era come se la mia mente fosse piena di Sirene che reclamavano
attenzione. Ma c’era anche un’altra voce che mi diceva: “No, non devi
ascoltare quelle voci del mondo, è il momento di prestare attenzione
al tuo cuore. Stai ferma e basta, stai tranquilla, stai con la natura”
Così ho trascorso il resto della giornata semplicemente ascoltando
quelle voci e, allo stesso tempo, stando con il corpo, stando con il
respiro, guardando la luce, guardando gli alberi, toccando la terra.

Alla fine della giornata, quando chiesi a me stesa ‘Come stai?’ la
risposta fu ‘Bene’. C’era una sensazione di pienezza, piuttosto che di
agitazione o sensazione di essere strattonata di qua e di là da quello
che il mondo si aspetta da me.

Quindi valutate semplicemente: ‘Che cosa sono le aspirazioni e i
valori mondani?’, ‘Quali sono le aspirazioni e i valori ai quali noi
tendiamo? …’ . Possiamo portare il Dhamma nelle nostre vite,
possiamo portare il Dhamma nel mondo attraverso la nostra volontà di
sopportare le voci dell’ego, sopportare le insistenti domande del
mondo e non esserne soggiogati. Dite ‘Va bene, ti sento…’ e poi, da
un luogo di pace, rispondete. Possiamo fare una enorme quantità di
bene da questo luogo di pace e di tranquillità.

Dopo l’illuminazione, il Buddha non trascorse i restanti 45 anni
seduto in uno stato di beatitudine. Se guardiamo agli insegnamenti del
Vinaya (gli insegnamenti sulla disciplina monastica e sulle
motivazioni stesse che portarono a ciascuna regola) o se guardiamo ai
Sutta, si può verificare che il Buddha era notevolmente attivo e in
modo molto compassionevole, saggio e abile. Ebbe a che fare con
persone all’estremo dell’angoscia e della disperazione umana e offrì
loro insegnamenti che rispondevano ai loro bisogni particolari di quel
momento. Era anche in grado di rispondere abilmente alle persone che
cercavano di prenderlo in castagna nei dibattiti. Incontrava tutti i
tipi di persone.

Essere come il Buddha, forse è chiedere troppo, ma possiamo provare,
momento per momento, a distinguere queste voci del mondo, a
interrompere la mente compulsiva che ci porta di qua e di là e
rimanere soltanto con il nostro respiro. Possiamo stare con la
sensazione del corpo a contatto con il cuscino o con la sensazione dei
piedi a contatto con il pavimento quando camminiamo da un posto
all’altro. Possiamo rilassare le spalle quando ci troviamo in tensione
in una situazione difficile, o rilassare i muscoli del viso quando
vediamo che durante la meditazione pensiamo un’enorme quantità di
cose; possiamo lasciare che le cose vadano per la loro strada, nella
nostra vita quotidiana possiamo usare quelle piccole cose che ci
aiutano a tenerci ancorati a quello che è un rifugio sicuro. Così in
momenti di estrema angoscia o di totale confusione, quando tutto
intorno a noi sta crollando e quando le cose non vanno proprio come
‘dovrebbero’ – e anche nel momento di morte – possiamo rivolgerci a
questi segni, queste ancore nel momento presente.

Essere in pace con il proprio respiro non è certamente un valore
mondano. Ovviamente non riceveremo grandi elogi per questo.
Fortunatamente qui abbiamo una situazione che ci incoraggia a fare
questo e che ci porta ad un sistema di valori che va oltre il mondo
mutevole. Non c’è molto del nostro corpo, degli altri, dei successi
mondani, del prestigio e della gloria, del nostro intelletto sul quale
possiamo fare affidamento. Tutte queste cose sono mutevoli. Però
abbiamo quest’opportunità di sviluppare la pratica dell’essere
presenti.

A volte è difficile, a volte sembra che non sia niente di speciale, ma
a poco a poco cresce. C’è un verso del Dhammapada che ci offre una
preziosa similitudine: se in un secchio gocciola dell’acqua, goccia
dopo goccia dopo goccia il secchio, prima o poi, si riempirà. Il
difficile può essere vederlo mentre si riempie.

Allo stesso modo si può pensare che non si stia arrivando da nessuna
parte, sembra che i momenti di consapevolezza non portino a niente, ma
concedetevi un anno, o un paio di anni o un decennio o due e
scoprirete che a poco a poco le cose cambiano. Noterete che il senso
di sollievo è più presente, che la nostra abilità nella risposta,
piuttosto che renderci rigidi ed agitati, migliora. C’è un po’ più di
compassione, un po’ più di spazio nel cuore. Ecco come funziona! Può
esserci un’intuizione improvvisa, come la mia intuizione su ciò che
veramente significa prendere rifugio nel Dhamma, ma per ognuno di noi
ci vuole tempo e umile applicazione, passo dopo passo, per fare
emergere questa graduale trasformazione.

Vorrei finire questo insegnamento, offrendolo come incoraggiamento
perché ognuno di voi possa lavorare per sviluppare questa pratica di
consapevolezza molto umile, in ogni momento. E il mio augurio, per
ognuno di voi, è che troviate sempre più pace, libertà e felicità
nella vostra vita.

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