Per una filosofia dell’ascolto

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Per una filosofia dell’ascolto

di Paola Grassi

La parola è per metà di colui che parla e per metà di colui che ascolta.
Montaigne, Saggi, Libro III, Capitolo XIII

QUESTIONI DI TERMINOLOGIA FILOSOFICA

Per costruire una «filosofia dell’ascolto» prendiamo le mosse dalla sua terminologia. Il primo senso
di ascoltare è udire con attenzione; ascoltare — in questa prima accezione, è uno stare in ascolto o
stare a sentire, per esempio qualcuno che parla o che esegue un brano musicale, o seguire, per
esempio un discorso, una conferenza o una lezione, e dunque assistervi, ma anche partecipare, per
esempio ad un rito religioso come la messa.

La seconda evoluzione del senso di ascoltare è quella che significa abitualmente dare retta ovvero
dare ragione; ascoltare — in questa seconda accezione, è un dare ascolto, anche nel senso di
obbedire o accogliere e seguire, per esempio i consigli di qualcuno o la voce della coscienza, e
ancora esaudire una preghiera o una supplica.

La locuzione ad audiendum verbum, tradotta letteralmente, significa «(andare) ad ascoltare la
parola» ed è un’espressione che viene utilizzata in occasione della convocazione da parte di un
capo/responsabile per ricevere direttive o istruzioni. Quando alla chiamata si sa che seguirà una
richiesta di giustificazione del proprio operato (le ragioni), si va ad audiendum verbum per un
redde rationem. Se la spiegazione fornita non è ritenuta accettabile, il tutto si conclude con una
sonora reprimenda o lavata di capo.

E’ interessante notare, in quest’ultima direzione, che la auscultatio latina significa obbedienza ed
ausculto è tanto ascoltare, quanto obbedire ad una autoritas, ma anche prestar fede e credere ed in
ultima istanza origliare.

L’acusmatica (ossia il modello d’insegnamento nel quale il maestro resta nascosto al discepolo che
l’ascolta) — propria di alcune scuole pitagoriche, così come molto più tardi sarà la confessione
auricolare è diventata, in tal senso, il luogo di una intimità segreta che conquista per l’ascolto
un senso ulteriore, quello appunto dello stare in ascolto da un luogo nascosto (come sarà nel
linguaggio della cospirazione e dello spionaggio).

Oltre i sensi abituali, l’ultimo segmento di significato dell’ascoltare ci conduce dalla
sensorialità alla comprensione; e allora essere all’ascolto sarà qualcosa di più che essere in
ascolto, poiché traduce una tensione relazionale che trascende il sentire acustico per approdare al
comprendere; comprendere l’altro nel senso di intenderlo all’interno di una relazione comunicativa
(o anche semplicemente sonica). Ciò che connota l’ascolto inteso come comprensione di significati
che non ci appartengono è una tensione che è insieme intenzione e impegno, ma anche curiosità e
inquietudine.

L’ultimo senso dell’ascolto è pertanto un mettersi in ascolto ovvero un tendere l’orecchio per
catturare un significato, — quasi come se l’espressione fosse presa a prestito dall’osservazione di
certi animali che sono sempre sul chi vive.

Quando si ascolta per comprendere, in effetti, si è sempre in agguato (per così dire) e in un modo
che è quello di una sorveglianza vigile e pronta a captare quella trama di rinvii e risonanze che
proviene da un soggetto che non siamo noi.

Per la verità, come suggerisce Jean-Luc Nancy, l’ascolto che diviene comprensione riesce a fare di
colui o colei che ascolta il luogo stesso della risonanza o — secondo la bella espressione del
filosofo francese, un diapason-soggetto. (1) Quello che la terminologia dell’ascolto sembra dunque
indicarci è che essere un ascoltatore è diverso dall’essere un buon ascoltatore; un ascoltatore può
anche rimanere un semplice uditore, ma un buon ascoltatore è colui o colei che si sia esercitato
nell’attenzione e appreso l’arte dell’ascolto.

L’orizzonte semantico dell’ascolto coinvolge pertanto la persona nel suo essere prima di tutto
corpo, e poi mente; la multivocità di significato dell’ascolto si dipana infatti dal senso
dell’udito nelle direzioni del suono e del rumore, della voce e del grido, del silenzio e della
parola, e solo in un secondo momento, — e nella forma dell’intendere o del comprendere, nella
direzione del dialogo, della conversazione e dell’incontro.

Corpo e mente, dunque, ma anche mente e corpo, e ancora daccapo, poiché dopo l’incontro vi è di
nuovo una voce o un silenzio o una parola o un grido che ci interpellano. Proviamo dunque a seguire
insieme questa trama circolare e vedere dove ci conduce interrogandoci su dove e come l’ascolto è e
diviene comprensione.

PER UNA FENOMENOLOGIA DELL’ASCOLTO

Accogliamo in prima istanza il suggerimento di un grande filosofo della media Antichità, Plutarco di
Cheronea, che nella sua Epistola a Nicandro Sul modo corretto di ascoltare (2) prende le mosse
proprio dal senso dell’udito il più esposto fra i sensi alle suggestioni della parola. Quella
parola che ha il potere di formare, così come di deformare e di deporre nell’anima tanto il seme
della virtù, quanto quello del vizio determinando l’organo dell’udito a farsi canale per arginare, o
deviare, gli effetti dell’una semina, o dell’altra.

Plutarco sceglie come destinatario del suo discorso dedicato a come si ascolta un giovane che ha
appena compiuto i diciassette anni e che (come vuole la tradizione greco-romana) ha da poco dismesso
la toga puerile per indossare quella virile — pubblico simbolo della raggiunta emancipazione dai
propri educatori. Plutarco sceglie Nicandro — che ha appena dismesso l’abito dell’obbedienza
affinché quest’ultimo sigilli nel proprio animo un ultimo insegnamento: ascoltare correttamente chi
cerca di persuaderlo con l’arte della parola.

Il giovane è già consapevole che passare dalla fanciullezza alla adultità non significa abbandonare
ogni autorità, ma vuol dire assumerne un’altra: l’autorità della ragione. Plutarco invita Nicandro a
non smettere mai di «prendere dimestichezza con la filosofia, che costituisce il vero e perfetto
abito virile poiché proviene dalla ragione».

La metafora della veste virile non è priva di implicazioni per ciò che concerne l’«abitudine». La
parola latina habitus è radice tanto di «abito» (o spazio entro cui stare comodamente e che
declineremmo nella cura di sé), tanto di «abitazione» (o spazio da condividere con altri e che
declineremmo nella cura per l’altro). E’ interessante notare che l’idea del vivere nella stessa casa
(in greco oikos), si trova nella Epistola quando Plutarco invita Nicandro a comportarsi «come un
meteco» (in greco meta-oikos), qualcuno che viene da fuori della comunità, e a condursi nello spazio
della condivisione — la città, «come se vivesse nella stessa casa di coloro che vivono secondo
ragione».

E’ buona norma, dunque, esercitarsi prima nell’arte dell’ascolto e poi, — o quanto meno
contestualmente, nell’arte della parola. E ciò praticando in primo luogo il silenzio. Chi ascolta
silenziosamente impara sempre qualcosa dal proprio interlocutore. Chi esercita l’attenzione
nell’ascolto infatti coglie nell’altro quelli che potenzialmente sono anche i propri difetti, mentre
chi interrompe continuamente non solo non ci fa una bella figura, ma finisce per non ascoltare e non
essere ascoltato.

L’invidia e l’esibizionismo così come l’arroganza e un atteggiamento denigratorio, ma anche un
atteggiamento eccessivamente incline alla adulazione, sono i difetti dai quali occorre immunizzarsi
esercitandosi nell’arte dell’ascolto.

E’ consigliabile pertanto abituarsi a «giudicare prima noi che colui che parla, domandandoci se
anche a noi possa accadere di incappare inconsapevolmente in qualche errore simile»: povertà di
espressione, atteggiamento antidemocratico e incivile, smania di accattivarsi il consenso e
ostentazione del proprio sapere. «E’ facilissimo — prosegue Plutarco — biasimare gli altri, ma è
cosa sterile e vuota se quella critica non la volgiamo anche a noi stessi e se non c’induce a
correggere o ad evitare analoghe scorrettezze».

E’ l’altro dunque che ci insegna ad ascoltare, — e anche ad ascoltarci. Si tratta, infatti, di una
benevola osservazione dell’altro come se fosse noi, e che ci induce a dimettere paure e pregiudizi.
Ed è ascoltando l’altro, dunque, che ci esercitiamo nell’arte di ascoltare. Quanto all’arte della
parola essa è come il gioco della palla. Come chi gioca a palla impara contemporaneamente a
riceverla e a lanciarla, nello stesso modo colui o colei che si impegni in un dialogo sarà qualcuno
che ha già imparato ad accogliere la parola prima ancora che a pronunciarla.

L’ascolto dell’altro dunque come propedeutica al dialogo e opportunità di trasformazione. Poiché un
ascolto dell’altro che sia corretto e meditato (e attivo nella giusta misura, cioè composto da
domande ben calibrate) si traduce in ascolto di sé e con ciò onorando l’imperativo delfico del
«Conosci te stesso».

Sacrale d’altra parte è per Plutarco lo scenario dell’ascolto entro cui ci si dovrebbe condurre come
se invitati ad una cerimonia religiosa, «con animo pacato e ben disposto come se si fosse invitati
ad un banchetto sacro». E maggiormente trasformativo sarà l’ascolto di discorsi e ragionamenti
filosofici. Che cos’è l’arte di ascoltare, del resto, se non la frequentazione attenta del pensiero?

E’ importante tuttavia, ci tiene a concludere Plutarco, «che alla teoria si unisca la pratica,
attraverso l’esercizio delle personali capacità inventive, per costruirci un abito mentale non da
sofisti o da eruditi, ma intimo e filosofico, nella convinzione che un buon ascolto è il punto di
partenza per vivere bene».

Il discorso filosofico è un mezzo privilegiato grazie al quale il filosofo può agire su se stesso e
sugli altri solo e soltanto se esso è davvero espressione di una scelta di vita da parte di colui o
colei che lo formula e produrrà un effetto trasformativo che è quello di creare un habitus (vivere
secondo ragione).

La distinzione tra discorso filosofico e filosofia come arte di vivere è particolarmente netta in
Plutarco, e il primo non può né giustificare né fondare la seconda, cui solo un discorso critico può
introdurre; il ragionamento critico (o benevolente esplorazione di sé nell’ascolto
dell’altro-specchio) e la meditazione sono da annoverarsi, insieme all’ascolto, tra quelle «pratiche
di sé» che garantiscono una presenza attiva e serena nel mondo reale ed una adesione coerente del
discorso interiore con la pratica di vita.

L’immaginario comune ci fa pensare alla filosofia come ad una attività da professori che dibattono
dall’alto di una cattedra, ma ciò che non si coglie più è che la filosofia la esercitiamo
quotidianamente. Socrate — afferma altrove Plutarco — non si sedeva in una cattedra professorale e
non aveva un orario fisso per discutere o passeggiare con i suoi discepoli, ma scherzando con loro,
bevendo o andando alla guerra o all’agora, e alla fine andando in prigione e bevendo il veleno, egli
ha filosofato. E con ciò facendo è stato il primo a dimostrare che, in ogni tempo e in ogni luogo,
in tutto ciò che ci accade e in tutto ciò che facciamo, la vita quotidiana ci dà la possibilità di
filosofare.

Plutarco — a proposito del ruolo formativo e trasformativo del filosofare come stile di vita, va
oltre l’antica formula del «non smettere mai di scolpire la tua propria statua» aggiungendo che il
discorso critico-filosofico «non scolpisce statue immobili, ma tutto ciò che tocca esso vuole
rendere attivo, efficace e vivo».

PERCORSI NEL CAMPO DELL’ASCOLTO

Per concludere questa introduzione ad una «filosofia dell’ascolto» (da intendersi — ormai è chiaro,
come un sottocapitolo dell’«arte di vivere filosoficamente»), ci concederemo un passo
storico-filosofico indietro rispetto a Plutarco per andare a sigillare l’intuizione che sta alla
base di quella che definiremmo l’epoca del filosofare socratico e che è ben più di un’epoca storica,
ma un modo di essere.

Alfred Tomatis (forse la personalità di maggiore interesse nell’ambito degli studi sull’ascolto
nella sua multivocità di senso) (3), si domanda perché — quanto meno fino a Plutarco, non vi sia
nulla (o quasi) nella immensa produzione filosofica della Grecia classica che riguardi
esplicitamente l’ascolto.

La cultura greca in verità non aveva alcun motivo di parlare dell’ascolto. E ciò perché la cultura
greca era la cultura dell’ascolto. Tutti i pensatori, dai pre-socratici ad Aristotele, sono rimasti
in ascolto di un Logos onnipresente, attenti a captare e decifrare tutto ciò che l’universo diceva
loro.

Se la preoccupazione di sovrapporre al fenomeno acustico un processo fisiologico caratterizza tutta
l’epoca del filosofare pre-socratico (con notevoli intuizioni, peraltro, che anticipano alcuni
segmenti della moderna scienza dell’ascolto), il passaggio all’epoca del filosofare socratico si
determina nel momento in cui all’universo chiuso all’ascolto dei sofisti, maestri dello sterile
monologare, si contrappone il pensiero dialogico di Socrate che, se vogliamo credere al suo
portavoce Platone, è stato l’uomo ascoltante per eccellenza.

Socrate è il primo a capire che non vi può essere condivisione senza conoscenza di sé e con questa
consapevolezza dà nuove basi alla filosofia definendola niente altro che la scienza dell’ascolto.
Socrate non solo si pone all’ascolto dell’altro, ma si impone l’ascolto di se stesso. Con l’orecchio
sempre teso, si impegna arditamente nel campo dell’ascolto e vi resta sempre fedele. Anche quando è
costretto a bere la cicuta, si trova in quello che Tomatis definisce il campo dell’ascolto assoluto
di un universo che lo attende, lontano da un mondo in cui l’uomo ha perso ogni contatto con la
realtà.

Con Aristotele, la verità socratica prende senso e si radica; questo meteco nel cuore
dell’ateniesità, apporta alla cultura greca un insieme di conoscenze la cui vastità è ancora oggi
oggetto di ammirazione. Aristotele possedeva sorprendenti conoscenze anatomofisiologiche, ivi
comprese quelle dell’apparato uditivo, ma si rimane addirittura stupefatti di fronte all’esplicita
menzione del labirinto, che si credeva una scoperta dell’anatomia moderna, e ancora più interessante
è il passaggio che riguarda il rumore intrinseco dell’orecchio e che indica che esso è in buona
salute.

L’epoca del filosofare aristotelico supera conservandola quella del filosofare socratico, poiché
Aristotele ritorna all’universo dimorando contestualmente nell’individuo, e con Tomatis possiamo
affermare che il più grande di tutti i filosofi (4) riesce per primo a cogliere — al di là di quello
della coscienza e della parola, anche il rumore della vita che l’orecchio percepisce nel silenzio.

PAOLA GRASSI

Paola Teresa Grassi è nata il 2 settembre 1970 a Milano dove vive e, oltre a svolgere attività di
ricerca e organizzazione di eventi culturarli, lavora come consulente personale di formazione
filosofica.

Collabora con ISMO nella progettazione e realizzazione di eventi formativi con particolare riguardo
alla applicazione delle pratiche filosofiche in ambito organizzativo.

Tra i pionieri di questa professione in Italia si occupa di consulenza filosofica dall’agosto del
2000 ed è editore della peer review «Pratiche Filosofiche» la prima rivista edita in lingua italiana
completamente dedicata a questo tema.

Pubblicazioni

– Un passo filosofico oltre Freud, in «Discipline Filosofiche», XV I 2005, Dalla filosofia pratica
alla pratica filosofica, pp. 113-125.

– Filosofia per tutti o pratica filosofica?, in «Hod» febbraio 2004, n. 29, Anno VII, pp. 34-36.

– Esiste una filosofia del management? Tentativi, intersezioni, prospettive, in «Kykéion» settembre
2002, n. 8, Florence University Press, pp. 77-83.

PER INFORMAZIONI

Scuola di Filosofia Pratica
Paola Grassi
cell. 348 – 55.43.553
info@consulenzafilosofica.net
www.consulenzafilosofica.net

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