Nepal. Nella terra dove gli uomini camminano sempre

pubblicato in: AltroBlog 0

Nepal. Nella terra dove gli uomini camminano sempre

(di Paola Fantolini)

Nel cuore del parco del Makalu Baru, alle pendici di quel monte che tutto il
mondo conosce con il nome di Everest, ma che la gente del luogo chiama
Sagarmatha, capo del cielo, c’è una terra dove gli uomini sono sempre in
cammino: è la terra degli Sherpa.

Da sempre camminano e da sempre sono “portatori”. È la natura del territorio
che impone loro queste attività: qui esistono solo sentieri stretti e
ripidi, non ci sono strade né biciclette, né tanto meno auto o trattori.
Camminare è dunque un po’ destino e fortuna di chi nasce in queste valli e
per molti diventa il mestiere di tutta una vita.

Lungo le vie in quota, le spedizioni alpinistiche si mescolano alle lente e
silenziose processioni di Sherpa che, stracarichi di ogni genere di merce,
raggiungono Namche, il capoluogo della regione, per il mercato del sabato.

IL SENTIERO

Il sentiero degli Sherpa è un po’ la metafora della vita. Passo dopo passo
si traccia un percorso fatto di fatica e bellezza, e tra le pietre e le
foreste di rododendri si manifesta il sacro come sulla scena di un
pellegrinaggio. Come in un mandala, il paesaggio si fa mappa per
accompagnare il percorso della meditazione. Ora un muro mani reca inciso su
decine di tavole di ardesia il mantra della compassione Om mani padme hum.

Qualche passo più avanti un chorten custodisce le sacre reliquie o le ceneri
di un lama. Più avanti ancora, appese ai tiranti dei ponti sospesi nel
vuoto, le bandiere di preghiere sventolano colorate sullo sfondo di un cielo
turchese. Il sentiero è il palcoscenico della marcia quotidiana di Sherpa,
yak, monaci e alpinisti che sfilano curvi sotto il peso di zaini e ceste al
cospetto degli eterni giganti Himalayani.

Queste montagne sono considerate luoghi sacri per eccellenza, dimora delle
maggiori divinità, punto di congiunzione fra i vari piani cosmici. Nelle
antiche tradizioni religiose tibetane, si riteneva che la montagna fosse la
divinità protettrice del sovrano al potere, lo tsempo, e di tutta la sua
stirpe. Il rapporto tra il re e la sua divinità era alimentato
quotidianamente da adorazioni e offerte d’oro, turchesi, latte, rami di
ginepro e si sarebbe risolto in una unione eterna al momento della morte: la
sepoltura era infatti predisposta in una cavità della montagna, dove si
diceva essere il paradiso terrestre.

Le vette, luoghi da rispettare e non violare, sono rimaste tali nella
concezione nepalese fino all’arrivo dei primi alpinisti occidentali. Nei
secoli gli Sherpa non avevano mai tentato di scalare le vette del Khumbu e
il senso del sacro per questi giganti innevati si era trasmesso di padre in
figlio. Oggi le tracce di questa sacralità si ritrovano solo nei nomi di
alcune cime che sono state intitolate alle divinità primordiali che si
credeva vi abitassero.

NAMCHE BAZAR, IL MERCATO.

Il capoluogo della regione è Namche Bazar: un crocevia di popoli ed etnie, a
Namche fra i tetti blu delle case, Occidente e Oriente si incontrano in un
vortice di colori e contraddizione. È qui che si fermano le spedizioni
alpinistiche degli occidentali, per la prima tappa di acclimatamento; qui
tibetani e nepalesi, newari e sherpa si ritrovano, fra le bancarelle del
mercato del sabato o nei retro bottega dei negozietti per turisti. Nel
silenzio della valle, il salmodiare senza tempo dei monaci nel gompa si
confonde con la musica hip hop di un internet caffè.

Dal 1965 l’haat -mercato- richiama agricoltori, macellai e mercanti
dall’intera
regione: gli abitanti del fondovalle vengono a vendere riso, granoturco e
verdure; i macellai portano qui le carni degli sventurati yak e bufali che
si sono incidentati sui sentieri, i mercanti di “cineserie” espongono la
loro oggettistica kitsch dai colori sgargianti, rigorosamente made in China.

Per i vicoli del bazar si incontrano uomini dai tratti mongolidi. I loro
volti sono stanchi, hanno le guance arrossate dal freddo pungente e sono
coperti di pesanti pelli di pecora. Sono i tibetani della città di Tingri,
nomadi commercianti che, in cinque giorni di cammino, arrivano a Namche,
dopo aver superato il passo di Namgpa La a 5740 metri, che per la maggior
parte dei mesi dell’anno resta coperto di neve. Gli yak stracarichi li
accompagnano in questa spedizione commerciale che li porta fino a Lukla.

Il sabato mattina, uomini, donne, bambini si accalcano ordinati fra le
stuoie stese a terra sulle quali viene esposta la merce in vendita: spezie
coloratissime, semi di mille varietà, ceste, legna, carne, trovano spazio
accanto a vestiti dalla foggia occidentale, stoviglie di latta e
oggettistica per la casa. Si può dire che non manchi proprio niente! Si
guarda la merce con calma e con calma si discute e si contratta il prezzo da
pagare. Non c’è fretta, la bancarella è la meta del lungo percorso che ha
portato tutta questa gente fino qui e il momento della compra-vendita è
l’atto
finale, è dunque giusto dedicargli il tempo debito.

A differenza di molti mercati tradizionali della zona, Namche non è un
mercato di scambio. Tutto ha un prezzo e viene acquistato in denaro, ma la
paziente pratica della contrattazione sopravvive ancora come retaggio
dell’economia
tradizionale informale: l’esercizio del compromesso nutre da sempre i
rapporti sociali fra 1e controparti e le etnie diverse che si incontrano
nello spazio neutrale del mercato. È così che, tra gli originalissimi tetti
azzurri delle case di Namche, si inscena una cerimonia di colori, profumi e
fantasia dove commercio tradizionale e mercato globale convivono,
giustapposti o alternati, nel breve spazio di qualche bancarella.

Il mercato di Namche non è solo territorio di scambi. Questa piazza è,
soprattutto, uno dei luoghi di eccellenza della vita pubblica, un luogo
aperto, uno spazio di socialità, di incontro fra gente dei villaggi vicini,
amici e stranieri, un punto di riferimento per la popolazione dispersa sul
territorio. È qui che arrivano le notizie dell’ultima ora, a Namche si parla
di tutto: delle recenti spedizioni alpinistiche, degli escursionisti
sprovveduti che ieri sono stati riportati a valle in elicottero per problemi
d’alta quota, della crisi economica che negli ultimi due anni ha ridotto
l’afflusso
di escursionisti. e si parla anche d’amore.

Esiste infatti un lato, si potrebbe dire, erotico del mercato: a Namche i
giovani della valle si recano per incontrare le ragazze che, il sabato
mattina, sono più belle che mai. Fra le bancarelle ci si scambiano i primi
sguardi fugaci e sempre qui avvengono i negoziati matrimoniali fra le
famiglie. Lassù, tra il silenzio delle foreste di rododendri e i tetti blu
colore del cielo, si svolge questo strano mercato, dove si può trovare di
tutto e barattare il vortice della vita per qualche giorno di pace.

MONASTERO DI TENGBOCHE

Attraverso un deserto di rocce granitiche ricoperte da muschi e licheni, il
paesaggio si trasforma: alberi e rocce si alternano, in una melodia di
colori e forme sempre nuove. Solo i tetti blu di qualche casa interrompono
la fantasia della natura. Lo stesso sentiero pietroso muta la sua
consistenza, i sassi si riducono a sabbia fine e gialla e il passo si fa più
lento per la fatica.

È Tengboche il cuore della terra degli Sherpa, luogo sacro, devoto al culto
del Perfetto. Da qui si gode uno dei panorami più suggestivi del mondo:
all’Everest,
Lotse e Nuptse si sono aggiunti gli imponenti Tamserku e Kantega, con i loro
maestosi ghiacciai perenni coperti da vistosi crepacci. Tutti i giganti
himalayani sembrano essersi dati appuntamento qui, per affacciarsi su questo
piccolo fazzoletto di terra pianeggiante dove sorge il monastero più grande
del Khumbu.

Davanti al tempio, alcuni monaci anziani stanno stendendo il bucato mentre
un monaco più giovane separa la pula dal miglio usando un setaccio piatto
fatto di fibre naturali. I suoi movimenti sono ritmici e ben calibrati: con
un colpo secco lancia verso l’alto le granaglie ed è poi il vento ad
aiutarlo nella fine opera di separazione. Il miglio ripulito ricade nel
setaccio, mentre il vento disperde la pula. Altri monaci salgono la scala
che conduce al monastero; sopra le loro teste, la ruota del dharma ricorda
il nobile ottuplice sentiero che conduce alla salvezza, secondo la filosofia
buddista. Procedono in religioso silenzio, attraversano il cortile centrale
e, a piedi scalzi, entrano nel gompa.

All’interno, l’atmosfera è cupa quasi irreale: la luce è poca, filtrata dal
fumo delle lampade votive alimentate dal burro che rilascia un odore simile
a quello del formaggio fuso. I colori alle pareti sono vivaci, le tonalità
accesissime sono rese ancor più vivide dalla patina lucida che le ricopre.
Ogni particolare è curato nel dettaglio: gli stipiti in legno sono finemente
intarsiati e decorati con motivi floreali o geometrici. L’arte buddista
tibetana è molto conservativa e rigida, sia nell’iconografia che nelle
simbologie. Non sono previste reinterpretazioni e anche i colori hanno una
forte valenza simbolica.

Alcuni monaci, avvolti nei loro lunghi mantelli color amaranto, stanno
pregando seduti a gambe incrociate su dei sedili bassi disposti in file
affrontate. Recitano le sacre scritture, sfogliando i codici manoscritti
tradizionali che riportano il canone buddista; il loro salmodiare è
monocorde e l’andamento monotono della litania è scandito solo dal cupo
suono delle trombe e dal solenne tamburo. Vicino ai sedili sono posati altri
strumenti che accompagnano la puja (preghiera): le trombette, un tempo
ricavate da femori umani, servono per scacciare gli spiriti malvagi, mentre
i piccoli tamburi marcano le pause delle sequenze liturgiche. Ci sono poi
tre tipi diversi di cimbali e la conchiglia, il cui suono simboleggia la
parola del Buddha che, in una vita precedente, si voleva nato proprio in una
conchiglia.

Vicino all’altare più grande, che ospita le statue del Buddha Sakyamuni, un
monaco suona con la mano sinistra una campanella, simbolo della saggezza e
della conoscenza, mentre nella destra regge la dorje, la fiamma che
rappresenta la forza della mente illuminata. Il monaco più giovane, si
aggira tra i sedili dei confratelli con una teiera e riempie con tè al burro
di yak le tazze dei monaci che continuano a pregare.

Nel gompa si perde il senso della realtà: le voci dei monaci creano una
melodia senza tempo, l’intensità della loro liturgia procede con toni bassi
in una dimensione musicale ossessiva e imperturbabile. Mai un crescendo, mai
una modulazioni, mai un climax, la preghiera continua per ore in un monotono
e ciclico samsara di voci e i suoni che si confondono in un unico intenso
inno all’Assoluto.

MONASTERO DI DEUBOCHE

Alle prime luci dell’alba il cielo è già turchese, i ghiacciai riflettono
una luce abbagliante e il verde intenso della foresta di rododendri avvolge
il piccolo monastero di Deuboche, il più antico gompa femminile del Nepal,
poco lontano da Tengboche. Alcuni pellegrini percorrono gli ultimi metri del
kora, il circuito di preghiera che conduce fino al tempio: superano in senso
orario un chorten, tenendolo alla destra, come vuole la tradizione buddista,
e costeggiano un muro mani fino ad arrivare ai cilindri di preghiera.

Queste ruote sacre sono riempite con rotoli di preghiere che possono
raggiungere la lunghezza anche di un miglio. La dimensione dei cilindri è
variabile, lungo i sentieri se ne vedono di grandissimi, alti quanto un
piccolo edificio, e talvolta sono fatti ruotare dall’acqua o dal vento. Le
ruote del monastero di Deuboche, invece, sono piuttosto piccole e vengono
girate a mano dai pellegrini che, così facendo, ottengono i meriti e si
concentrano sui mantra che stanno recitando.

Il monastero di Deuboche è delizioso nella sua semplicità. È meno curato di
quello di Tengboche, i muri un po’ scrostati e le vistose crepe
dell’intonaco
tradiscono la sua antica origine e la mancanza di fondi per il restauro. Le
pareti e gli stipiti dovevano essere un tempo decorati con mandala o altre
rappresentazioni simboliche, ma oggi poco rimane dei colori vibranti e dei
motivi ornamentali. Anche il cortile ha un aspetto decadente.

Nella sala principale, le quindici monache avvolte in grandi mantelli
amaranto stanno già pregando. La superiora guida la lettura del canone,
mentre una giovane versa nelle tazze delle consorelle il tè tibetano. Sono
sedute sui soliti bassi sedili e sfogliano il canone buddista. La loro
preghiera non è accompagnata da musica, non ci sono né trombe, né tamburi.
Le voci delle monache intonano un inno al Perfetto, ma i loro toni sono più
caldi e lievi di quelli dei monaci di Tengboche. Sembra quasi che la
solennità della salmodia si stemperi nella dolcezza del canto al femminile,
il ritmo della litania si fa più morbido e le voci vellutate danno vita a
una armoniosa melodia.

SALUTI

Come tutto in Nepal, anche il momento del saluto è sacro. Il congedo diventa
un rito denso di commozione: con le mani giunte a livello della fronte e il
capo chino ci si scambia la Kata, la sciarpa cerimoniale tibetana. È bianca,
e il tessuto molto semplice e leggero reca nella trama la preghiera mani e
gli otto simboli del buon auspicio. Gli Sherpa la donano ai Lama, agli
amici, agli ospiti e agli dei. In base al destinatario c’è un differente
rituale da osservare: se la si offre a un Lama, lo sherpa consegna la
sciarpa a mani giunte nelle mani del lama e flette il capo. Nel caso di un
amico o un ospite, la sciarpa viene messa al collo del destinatario, in un
simbolico abbraccio.

Lungo i sentieri si vedono molte sciarpe sventolare e confondersi nel
paesaggio: fra i colori vivaci di una bandiera di preghiera, davanti al palo
di fronte a una casa, attaccate al corno di uno yak, appese a qualche cesta
stracarica o ai tiranti di un ponte sospeso nel vuoto, ai piedi delle statue
o in cima ai chorten: ci sono sciarpe bianche un po’ovunque.

E se la kata è un’icona visiva che caratterizza il paesaggio nepalese, come
le pietre dei muri mani, i sassi del sentiero, i tetti blu, le ceste dei
portatori, gli yak, esiste una parola che è l’icona musicale di questo
paesaggio: namaste.

Namaste è il saluto, vuol dire tante cose. Significa: buongiorno, buona
sera, arrivederci, a presto, ma è la sua traduzione letterale a svelarne
l’intensità
e la profondità. Queste tre sillabe sono, infatti, il saluto alla scintilla
divina che c’è in ogni essere vivente. Letteralmente vuol dire saluto il dio
che c’è in te. E la voce accompagna il gesto delle mani che si congiungono
una volta ancora al petto, in un leggero inchino, a ricordare che la vita è
umiltà, amore e compassione.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *