Il mondo non può offrire alcun rifugio

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Il mondo non può offrire alcun rifugio

di Ajahn Sumedo

– L’inganno del tempo –

“Le porte del senzamorte sono aperte, coloro che ascoltano questo avranno fede”

Queste parole, pronunciate dal Buddha oltre duemila anni fa, ci
indicano la via verso la realizzazione di qualcosa di molto profondo.
Trovo estremamente significativo il fatto che per la maggior parte
della nostra esistenza diamo estrema importanza a cose come il
mangiare, dormire, procreare e sopravvivere come specie. Ma siamo qui
solo per questo o c’è qualcosa di più importante nella nostra vita? Ed
è proprio di questo si occupano le religioni: la realizzazione, il
riconoscimento, il ricordo del senzamorte.

Nella frase del Buddha si fa riferimento alla capacità di ascoltare:
colui che presta attenzione, che è consapevole ed è in grado di
ascoltare non solo le parole ma di abbandonarsi, di affidarsi al
senzamorte, ossia al momento presente.

Se riflettiamo sul concetto di tempo ci accorgiamo che la nostra
realtà si basa principalmente sulla percezione che ne abbiamo: siamo
convinti che il tempo è la realtà, agiamo e viviamo il passato e il
futuro come fossero esperienze reali. Ma quando investighiamo sul
tempo, in termini di osservazione diretta, ci accorgiamo che il
passato è solo un ricordo nel presente: ciò che è accaduto ieri, dieci
anni fa o in vite precedenti, è solo un ricordo che sorge e cessa nel
momento presente. In termini di esperienza diretta, ovvero l’unica
cosa reale, sperimentiamo la vita nel presente, il passato è solo un
fugace ricordo ma ciò nonostante lo rendiamo molto reale.

Ricordando le ingiustizie subite ci sentiamo ancora arrabbiati. A
volte è proprio la nostra capacità di ricordare le ingiustizie a
creare sofferenza così come quando ci ricordiamo qualcosa di sbagliato
che abbiamo fatto o detto in passato, soffriamo per il senso di colpa.
Possiamo ricordare i bei tempi andati e anche la nostalgia è un altro
modo di indugiare nel passato.

Quando pratichiamo la vipassana, la conoscenza profonda di ciò che è,
allora riusciamo a essere testimoni dell’impermanenza del ricordo, del
suo sorgere e cessare. Qualunque sia la loro qualità, i ricordi sono
esperienze del presente e dunque impermanenti.

Quando ci chiediamo che cosa è il futuro, in termini di esperienza nel
presente, possiamo rispondere che il futuro è l’ignoto, ciò che non
conosciamo, una serie di possibilità e potenzialità infinite.

Possiamo preoccuparci, sentirci ansiosi, crearci delle aspettative, ma
si tratta solo di stati mentali che ci creiamo riguardo il futuro e
ciò che può comportare. Quando stiamo bene ci sentiamo ottimisti:
speriamo di vincere la lotteria e di trovare la persona giusta con cui
essere felici per sempre. Se siamo pessimisti, penseremo che la vita
fa schifo e che tutto ciò che ci aspetta è di diventare sempre più
poveri, di ammalarci, invecchiare e morire perché a noi non accade mai
niente di buono.

Ciò che sappiamo per certo è che un giorno moriremo, che la vita ci
regali felicità o miseria, siamo sicuri della nostre morte fisica. Ma
non sappiamo cos’è la morte. Possiamo solo investigare qui ed ora e
riconoscere le cose così come sono in termini di conoscenza diretta,
non speculativa, piuttosto che fare ipotesi sul futuro. Probabilmente
domani saremo ancora qui, ma in termini di conoscenza diretta tutto
ciò che possiamo veramente dire in questo momento è che non lo
sappiamo, il domani rappresenta l’ignoto.

L’io separato e la paura

Possiamo fare diverse ipotesi sulla morte e su che cosa accade quando
moriamo: se andremo in paradiso o all’inferno, se ci reincarneremo in
qualcosa di inferiore a un essere umano, come una rana, ad esempio, o
se, una volta morti, saremo morti e basta. È possibile anche questo,
ma si tratta solo di speculazioni. Può darsi che abbiamo delle
preferenze, che la reincarnazione sia meglio del nulla o che il
paradiso sia meglio della reincarnazione, ma ciò che sappiamo
realmente è che non sappiamo cosa succede quando moriamo, dal momento
che siamo ancora vivi.

La conoscenza riguarda il momento presente, la vita è sempre
l’esperienza del qui ed ora. La consapevolezza è la capacità di
portare alla coscienza le cose così come sono adesso, senza speculare,
analizzare o creare qualcosa; si tratta soltanto di notare, osservare,
essere testimoni. Sapere di non sapere è la conoscenza diretta: sapere
che tutto ciò che sorge cessa. Possiamo sperimentare l’impermanenza
nel presente. Quando c’è sofferenza, dukkha, possiamo sperimentarla
così com’è. Se investighiamo in questo modo sappiamo che non esiste
una condizione o un sé separato che sia veramente possibile trovare
nel momento presente.

Riflettendo sul tempo possiamo iniziare a capire perché il Buddha ha
posto l’accento sulla consapevolezza come via per il senzamorte.
Contemplare le cose così come sono, in termini di esperienza, è la
coscienza dell’essere. Dal momento in cui nasciamo sperimentiamo la
vita in uno stato di esistenza separato, siamo un’entità cosciente in
questo vasto universo. Nella mia esperienza le persone vanno e
vengono, anche gli amici più cari, anche coloro che amo, vanno e
vengono nella mia mente.

Ma c’è sempre la conoscenza nel presente, l’esperienza cosciente di
ciò che accade ora, alla quale partecipiamo attraverso la forma umana
che chiamiamo corpo. Fondamentalmente, siamo delle entità isolate e
separate, siamo delle forme viventi vulnerabili e sensibili nel vasto
e misterioso sistema dell’universo.

Quando guardiamo il cielo di notte possiamo vedere milioni di stelle
distanti miliardi di anni luce e ciò nonostante, siamo noi ad essere
consapevoli di qualcosa di lontano. In termini di esperienza
effettiva, siamo una sorta di centro dell’universo, perché ciò che
sperimentiamo proviene da lassù, dove stanno le stelle, il sole o la
luna, e riflette in qualche modo questa forma.

Le cose stanno semplicemente così in termini di un’entità cosciente
separata nell’universo. Questa è l’esperienza dei nostri sensi:
abbiamo occhi, orecchie, naso, lingua, corpo, cervello, memoria e
sentiamo il piacere e il dolore incombere su questa forma.

Se la vita vi fa paura non pensiate di essere nevrotici perché è
veramente spaventosa. Se interpreto ogni cosa in termini di esperienza
personale e dico: “Io sono il mio corpo, io sono questa creatura
cosciente”, quando penso in termini di me e della mia vita, allora mi
accorgo di essere estremamente vulnerabile e ciò che mi circonda è
pericoloso e misterioso, insomma mi trovo in una situazione
terrorizzante. Non potete immaginare quante volte io mi sia chiesto:
“Cosa significa tutto questo, l’esperienza di essere vivi?”. Anch’io,
come persona, sono molto vulnerabile, posso sentirmi profondamente
ferito da una parola dura o da uno sguardo. L’interpretazione
dell’esperienza a livello personale è l’esperienza della sofferenza:
ci sentiamo sempre vulnerabili, molto soli, alienati, ansiosi nei
confronti della vita.

La vera conoscenza

Fino a quando non incontriamo il Dhamma, ci identifichiamo con il
corpo e con le emozioni, siamo qualcuno con un passato e che guarda
con preoccupazione il futuro. Questo modo di pensare e sentire viene
normalmente considerato come il mondo reale. Con la meditazione
impariamo a pensare e contemplare in maniera non personale, smettiamo
di identificarci con il corpo o con i cinque khandha. La
consapevolezza è la capacità di conoscere direttamente il presente,
non è più una conoscenza condizionata. Conoscere il Dharma vuol dire
conoscere la verità delle cose così come sono.

Questa conoscenza diretta è ciò che chiamiamo prendere rifugio nel
Buddha, la parola stessa significa colui che conosce la verità. Quando
siamo consapevoli, svegli e attenti al presente, non siamo più persi
nelle nostre abitudini emotive o nei nostri problemi personali. Il
rifugio in un luogo sicuro, l’essere svegli e attenti nel presente è
sempre il modo migliore per affrontare l’incertezza delle condizioni e
delle cose che ci accadono.

Poiché il Buddha conosce il Dhamma, quando prendiamo rifugio nel
Dhamma, prendiamo rifugio nella verità di ciò che è. Questo è il
paradigma della coscienza: soggetto-oggetto, il Buddha è colui che sa,
il Dhamma è ciò che il Buddha sa.

Se osserviamo l’esperienza come Dhamma, se vediamo l’impermanenza, la
natura insoddisfacente e l’assenza di un sé nei cinque khandha, allora
i tre segni dell’esistenza, che chiamiamo anicca, dukkha, anatta, sono
gli strumenti che usiamo per contemplare l’esperienza nel presente.
Questo non significa che ci aggrappiamo a queste idee o che
etichettiamo tutto come anicca, dukkha, anatta, ma piuttosto che
possiamo contemplare l’impermanenza, la natura insoddisfacente di ogni
esperienza condizionata e investigare se ci sia qualcosa, in una
qualsiasi esperienza, di cui possiamo dire che sia veramente ‘mio’.

Sta a ciascuno di noi scoprire se è possibile riconoscersi in qualche
cosa nel presente. Il rifugio nel Buddha è questa conoscenza non
personale, non condizionata dalla cultura. Possiamo conoscere la
verità pur essendo analfabeti, perché la conoscenza diretta non
dipende dall’istruzione, non è europea o asiatica, maschile o
femminile; proprio per questo è un vero rifugio: la saggezza pura e
semplice è accessibile a chiunque quando apriamo la mente a ciò che è.
Nessuno può dire: “È mia” o “Sono io”, perché è universale, appartiene
a tutti, non è qualcosa di speciale che io ho nella mia testa e gli
altri no.

La consapevolezza, questo puro stato di intelligenza, la conoscenza
diretta sono la porta del senza nascita. In questa frase il Buddha non
ci chiede di credere in qualcosa chiamato immortalità, l’insegnamento
del Buddha ci indica direttamente ciò che è senzamorte. Non si tratta
di un oggetto che si può trovare, ma di qualcosa che già abbiamo.

La meditazione è la rinuncia alle illusioni che abbiamo accumulato
durante tutta la vita.

Quando contempliamo il futuro o il passato, sorge sempre un senso di
agitazione nella mente: “Dovrei fare questo, perché ho fatto
quest’altro, che decisione devo prendere, sto invecchiando” e così
via. Le condizioni mondane le sentiamo urgenti, importanti, hanno un
grosso impatto emotivo su di noi. L’ansia, la tristezza, il senso di
dover fare qualcosa, queste sensazioni sono il sapore del mondo. E il
mondo continua ad andare in questo modo e anche quando abbiamo più di
sessant’anni continuiamo a provare le stesse emozioni: l’urgenza,
l’importanza delle cose, il passato, i problemi legati al futuro. Ecco
perché il mondo non potrà mai essere un rifugio.

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