Come il cervello crea la linea temporale del passato

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Come il cervello crea la linea temporale del passato

16 marzo 2019

Il cervello non può codificare direttamente il trascorrere del tempo, ma potrebbe mapparlo in
qualche modo mettendo in sequenza gli eventi che sperimentiamo. Questa soluzione è suggerita dai
risultati di studi recenti che hanno unito neuroscienze e matematica, sviluppando una teoria che
potrebbe estendersi ad altri domini della cognizione

di Jordana Capelewicz / Quanta Magazine

Tutto è iniziato circa dieci anni fa alla Syracuse University, negli Stati uniti, con una serie di
equazioni scarabocchiate su una lavagna. Marc Howard, neuroscienziato della cognizione
all’Università di Boston, e Karthik Shankar, che allora era uno dei suoi studenti post-dottorato,
volevano ideare un modello matematico dell’elaborazione del tempo: una funzione neurologicamente
computabile per rappresentare il passato, come una tela mentale su cui il cervello può dipingere
ricordi e percezioni.

“Pensiamo a come la retina agisce in qualità di schermo, fornendo ogni sorta d’informazione visiva”,
dice Howard. “Questo è ciò che è il tempo, per la memoria. E vogliamo che la nostra teoria spieghi
come funziona quello schermo”.

Ma è abbastanza immediato rappresentare un quadro di informazioni visive, come l’intensità o la
luminosità della luce, in termini di funzioni di determinate variabili, quale la lunghezza d’onda,
perché i recettori dedicati nei nostri occhi misurano direttamente quelle grandezze in ciò che
vediamo. Il cervello non ha lo stesso tipo di recettori per il tempo. “La percezione del colore o
della forma è molto più ovvia”, spiega Masamichi Hayashi, neuroscienziato della cognizione
all’Università di Osaka, in Giappone. “Ma il tempo è una proprietà molto elusiva”. Per codificarlo,
il cervello deve fare qualcosa di meno diretto.

Individuare che aspetto avesse al livello dei neuroni è diventato l’obiettivo di Howard e Shankar.
La loro unica intuizione nel progetto, ricorda Howard, era il “senso estetico che avrebbe dovuto
esserci un piccolo numero di regole semplici e belle”.

Così hanno ricavato alcune equazioni per descrivere come in teoria il cervello potrebbe codificare
il tempo indirettamente. Nel loro schema, mentre i neuroni sensoriali si attivano in risposta a un
evento che si sta svolgendo, il cervello mappa la componente temporale di quell’attività in una
qualche rappresentazione intermedia dell’esperienza: una trasformata di Laplace, in termini
matematici. Questa rappresentazione permette al cervello di conservare le informazioni sull’evento
in funzione di qualche variabile che può codificare, invece che come funzione del tempo (che non può
codificare).

Per un esperienza temporale, quindi, il cervello può mappare in senso inverso la rappresentazione
intermedia in un’altra attività – una trasformata inversa di Laplace – al fine di ricostruire una
registrazione compressa di ciò che è accaduto e quando.

Pochi mesi dopo che Howard e Shankar avevano iniziato a dare corpo alla loro teoria, altri
scienziati avevano scoperto in modo indipendente i neuroni soprannominati “cellule del tempo”, che
erano “il più vicino possibile ad avere quella registrazione esplicita del passato”, sottolinea
Howard. Quelle cellule erano sintonizzate su determinati punti in un intervallo di tempo, con alcune
che si attivavano, per esempio, un secondo dopo uno stimolo, e altre dopo cinque secondi,
sostanzialmente colmando le lacune temporali tra le esperienze. Gli scienziati potevano osservare
l’attività delle cellule e determinare quando era stato presentato uno stimolo in base a quali
cellule si erano attivate. Questa era la trasformazione inversa di Laplace del modello dei
ricercatori, l’approssimazione della funzione del tempo passato. “A quel punto ho pensato che quella
roba sulla lavagna avrebbe potuto essere la cosa giusta’”, ricorda Howard.

“È stato allora che ho capito che il cervello avrebbe collaborato”, aggiunge.

Rinfrancati dal supporto empirico alla loro teoria, Howard e colleghi hanno iniziato a lavorare su
un modello di riferimento più ampio, che sperano di usare per unificare i tipi di memoria del
cervello estremamente diversi, e altro ancora: se le loro equazioni fossero implementate dai
neuroni, potrebbero essere descrivere non solo la codifica del tempo ma anche una sfilza di altre
proprietà, addirittura il pensiero stesso.

Ma questo è un grande punto interrogativo. Dalla scoperta delle cellule del tempo nel 2008, i
ricercatori hanno osservato prove dettagliate e in grado di confermare solo metà della matematica
coinvolta. L’altra metà – la rappresentazione intermedia del tempo – è rimasta teorica.

Fino alla scorsa estate.

Ordinamenti e marche temporali

Nel 2007, un paio di anni prima che Howard e Shankar iniziassero a buttar giù idee per il loro
modello, Albert Tsao (ora ricercatore postdottorato alla Stanford University) era uno studente
universitario in tirocinio al Kavli Institute for Systems Neuroscience, in Norvegia. Aveva trascorso
l’estate nel laboratorio di May-Britt Moser e Edvard Moser, che da poco avevano scoperto le cellule
a griglia – i neuroni responsabili dell’orientamento nello spazio – in un’area del cervello chiamata
corteccia entorinale mediale. Tsao si era chiesto che cosa avrebbe potuto fare la sua struttura
gemella, la corteccia entorinale laterale. Entrambe le regioni forniscono un contributo importante
all’ippocampo, che genera le nostre memorie “episodiche” di esperienze che si verificano in un
momento particolare e in un luogo particolare. Se la corteccia entorinale mediale era responsabile
della rappresentazione di quest’ultimo, ragionava Tsao, allora forse la corteccia entorinale
laterale ospitava un segnale di tempo.

Il tipo di tempo legato alla memoria a cui Tsao voleva pensare è profondamente radicato nella
psicologia. Per noi, il tempo è una sequenza di eventi, una misurazione di contenuto che cambia
gradualmente. Questo spiega perché ricordiamo gli eventi recenti meglio di quelli di molto tempo fa,
e perché, quando viene in mente un certo ricordo, tendiamo a pescare dalla memoria eventi accaduti
nello stesso periodo. Ma in che modo si è aggiunta a una storia temporale ordinata e quale
meccanismo neurale l’ha abilitata?

All’inizio, Tsao non aveva trovato nulla. Anche definire il modo in cui affrontare il problema era
stato difficile perché, tecnicamente, ogni cosa ha una certa qualità temporale. Aveva esaminato
l’attività neurale nella corteccia entorinale laterale dei ratti mentre cercavano il cibo in un
recinto, ma non aveva trovato nulla di dirimente in ciò che mostravano i dati. Nessun segnale
temporale particolare sembrava emergere.

Tsao ha sospeso il lavoro, è tornato a studiare e per anni ha lasciato perdere i dati. Più tardi,
come studente laureato nel laboratorio di Moser, ha deciso di riprenderlo in mano, questa volta
cercando un’analisi statistica dei neuroni corticali a livello di popolazione. È stato allora che
l’ha visto: uno schema di attivazione che, per lui, somigliava molto al tempo.

Lui, Mosers e colleghi hanno avviato esperimenti per testare ulteriormente questa connessione. In
una serie di prove, un ratto era messo in una scatola, dove era libero di vagare e cercare cibo. I
ricercatori registravano l’attività neurale dalla corteccia entorinale laterale e dalle regioni
cerebrali vicine. Dopo pochi minuti, i ricercatori toglievano il ratto dalla scatola e lo lasciavano
riposare, poi lo rimettevano nella scatola. Hanno fatto questo 12 volte in circa un’ora e mezzo,
alternando i colori delle pareti (che potevano essere nere o bianche) tra le prove.

Quello che sembrava un comportamento neurale correlato al tempo si manifestava principalmente nella
corteccia entorinale laterale. I tassi di attivazione di quei neuroni raggiungevano improvvisamente
un picco quando il ratto entrava nella scatola. Mentre passavano i secondi e poi i minuti,
l’attività dei neuroni diminuiva con velocità variabile. L’attività aumentava di nuovo all’inizio
della prova successiva, quando il ratto rientrava nella scatola. Nel frattempo, in alcune cellule,
l’attività diminuiva non solo durante ogni prova, ma durante l’intero esperimento; in altre cellule,
era aumentata per tutto il tempo.

Basandosi sulla combinazione di questi schemi, i ricercatori – e presumibilmente i ratti – potevano
distinguere le diverse prove (rintracciando i segnali associati a certe sessioni nella scatola, come
se fossero marche temporali) e metterle in ordine. Centinaia di neuroni sembravano lavorare insieme
per tenere traccia dell’ordine delle prove e della lunghezza di ognuna.

“Si ottengono modelli di attività che non si limitano a colmare ritardi per conservare le
informazioni, ma analizzano la struttura episodica delle esperienze”, dice Matthew Shapiro,
neuroscienziato dell’Albany Medical College di New York, non coinvolto nello studio.

I ratti sembravano usare questi “eventi” – i cambiamenti nel contesto – per avere un’idea di quanto
tempo era trascorso. I ricercatori hanno ipotizzato che il segnale potesse apparire molto diverso
quando le esperienze non erano così chiaramente divise in episodi separati. Così hanno fatto
percorrere ai ratti una pista a forma di otto in una serie di prove, a volte in una direzione e a
volte nell’altra. Durante questo compito ripetitivo, i segnali temporali della corteccia entorinale
laterale si sovrapponevano, probabilmente indicando che i ratti non potevano distinguere una prova
da un’altra: si mescolavano insieme nel tempo. I neuroni, tuttavia, sembravano seguire il passare
del tempo nei singoli giri, in cui si verificavano abbastanza cambiamenti da un momento all’altro.

Tsao e colleghi erano rimasti entusiasti perché, ipotizzavano, avevano iniziato scorgere un
meccanismo alla base del tempo soggettivo nel cervello, un meccanismo che permette di contrassegnare
distintamente i ricordi. “Mostra quanto sia elastica la nostra percezione del tempo”, sottolinea
Shapiro. “Un secondo può durare per sempre. I giorni possono svanire. È questo codice che analizza
gli episodi e che, per me, fornisce una spiegazione molto chiara del modo in cui vediamo il tempo.
Stiamo elaborando cose che accadono in sequenze e ciò che accade in queste sequenze può determinare
la stima soggettiva di quanto tempo passa”. I ricercatori ora vogliono capire in che modo ciò
accada.

In questo, la matematica di Howard avrebbe potuto essere d’aiuto. Quando ha sentito dei risultati di
Tsao, presentati a una conferenza nel 2017 e pubblicati su “Nature” lo scorso agosto, era estasiato:
i diversi tassi di decadimento che Tsao aveva osservato nell’attività neurale erano esattamente ciò
che la sua teoria aveva previsto nella rappresentazione intermedia dell’esperienza nel cervello.
“Sembrava una trasformata di Laplace del tempo”, racconta Howard, il pezzo di provenienza empirica
che mancava nel modello suo e di Shankar.

“Era un po’ strano”, dice Howard. “Avevamo queste equazioni sul tavolo per la trasformata di Laplace
e l’inversa nello stesso periodo in cui si stavano scoprendo le cellule del tempo. Quindi abbiamo
passato gli ultimi dieci anni a vedere l’inversa, ma non avevamo visto la trasformazione vera. Ora
l’abbiamo e sono piuttosto emozionato”.

“È stato eccitante”, dichiara Kareem Zaghloul, neurochirurgo e ricercatore degli statunitensi
National Institutes of Health, “perché i dati che hanno mostrato erano molto coerenti con le idee di
Howard”. (Nel lavoro pubblicato il mese scorso, Zaghloul e il suo gruppo hanno mostrato in che modo
i cambiamenti negli stati neurali nel lobo temporale umano sono direttamente correlati alle
prestazioni delle persone in un compito di memoria).

“C’era una probabilità diversa da zero che tutto il lavoro che avevamo fatto io, i miei colleghi e i
miei studenti fosse solo immaginario. Ciò riguardava un insieme di equazioni che non esistevano da
nessuna parte nel cervello o nel mondo”, aggiunge Howard. “Vederle lì, nei dati del laboratorio di
qualcun altro… è stato un grande giorno”.

Costruire linee temporali del passato e del futuro

Se il modello di Howard è vero, allora ci dice come creiamo e manteniamo una linea temporale del
passato: Howard la descrive come “lo strascico della coda di una cometa” che si estende dietro di
noi mentre viviamo le nostre vite, diventando più sfocata e più compressa mentre procede verso il
passato. Questa linea temporale potrebbe essere utile non solo alla memoria episodica
dell’ippocampo, ma anche alla memoria di lavoro nella corteccia prefrontale e alle reazioni
condizionanti nel corpo striato. Queste “possono essere intese come diverse operazioni che lavorano
sulla stessa forma di storia temporale”, afferma Howard.

Anche se i meccanismi neurali che permettono di ricordare un evento come il nostro primo giorno di
scuola sono diversi da quelli che permettono di ricordare un fatto come un numero di telefono o
un’abilità come andare in bicicletta, potrebbero fare affidamento su questa base comune.

La scoperta delle cellule del tempo in quelle regioni del cervello (“Quando vai a cercarle, le vedi
ovunque”, secondo Howard) sembra sostenere l’idea. E lo stesso vale per le scoperte recenti, che
presto saranno pubblicate da Howard, Elizabeth Buffalo dell’Università di Washington e altri
collaboratori: indicano che le scimmie che guardano una serie di immagini manifestano nella loro
corteccia entorinale lo stesso tipo di attività temporale osservata da Tsao nei ratti. “È
esattamente quello che ti aspetteresti: il tempo trascorso da quando l’immagine è stata presentata”,
afferma Howard.

Howard sospetta che la registrazione supporti non solo la memoria ma anche la cognizione nel suo
complesso. La stessa matematica, propone, può aiutarci a capire anche il nostro senso del futuro: si
tratta di tradurre le funzioni coinvolte. E ciò potrebbe aiutarci a dare un senso alla capacità di
“tenere il tempo”, coinvolta nella previsione degli eventi futuri (qualcosa che è basata sulla
conoscenza ottenuta dalle esperienze passate).

Howard ha anche iniziato a dimostrare che le stesse equazioni che il cervello potrebbe usare per
rappresentare il tempo potrebbero anche essere applicate allo spazio, alla numerosità (il nostro
senso dei numeri) e al processo decisionale basato su prove raccolte: in definitiva, a qualsiasi
variabile che possa essere espressa nel linguaggio di queste equazioni. “Per me, la cosa
interessante è aver costruito un analogo neurale per il pensiero”, dichiara Howard. “Se riesci a
scrivere lo stato del cervello… ciò che stanno facendo decine di milioni di neuroni… in forma di
equazioni e trasformazioni di equazioni, questo è il pensiero”.

Con i colleghi ha lavorato per estendere la teoria ad altri domini della cognizione. Un giorno,
questi modelli cognitivi potrebbero persino portare a un nuovo tipo di intelligenza artificiale (IA)
costruita su una base matematica diversa da quella degli attuali metodi di apprendimento profondo.
Solo il mese scorso, gli scienziati hanno costruito un nuovo modello di rete neurale di percezione
del tempo, basato unicamente sulla misurazione e sulla reazione ai cambiamenti in una scena visiva.
(L’approccio, tuttavia, si concentrava sulla parte di input sensoriale dell’immagine: che cosa stava
accadendo in superficie, non in profondità nelle regioni del cervello correlate alla memoria che
Tsao e Howard studiano.)

Ma prima che sia possibile qualsiasi applicazione all’IA, gli scienziati devono accertare in che
modo il cervello stesso sta raggiungendo questo obiettivo. Tsao riconosce che c’è ancora molto da
capire, compreso quello che spinge la corteccia entorinale laterale a fare ciò che sta facendo e
quello che specificamente permette ai ricordi di essere contrassegnati. Ma le teorie di Howard
offrono previsioni tangibili che potrebbero aiutare i ricercatori a individuare nuovi percorsi verso
le risposte.

Naturalmente, il modello di Howard di come il cervello rappresenta il tempo non è l’unica idea.
Alcuni ricercatori, per esempio, ipotizzano catene di neuroni, collegate da sinapsi, che si attivano
in sequenza. Oppure potrebbe emergere che è coinvolto una trasformata di tipo diverso, non la
trasformata di Laplace. Queste possibilità non smorzano l’entusiasmo di Howard. “Potrebbe ancora
essere sbagliato”, sottolinea. “Ma siamo eccitati e stiamo lavorando sodo”.

(L’originale di questo articolo è stato pubblicato il 12 febbraio 2019 da QuantaMagazine.org, una
pubblicazione editoriale indipendente onlinepromossa dalla Fondazione Simons per migliorare la
comprensione pubblica della scienza. Traduzione ed editing a cura di Le Scienze. Riproduzione
autorizzata, tutti i diritti riservati)
www.quantamagazine.org/how-the-brain-creates-a-timeline-of-the-past-20190212/

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