Ayurveda. I suoi principi e concetti base 2

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Ayurveda. I suoi principi e concetti base 2

(di Anonimo)

(seconda parte)

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I VEDA

I Veda sono la creazione di una antica struttura mentale intuitiva e simbolica alla quale la mente successiva dell’uomo, fortemente intellettualizzata e governata da un lato dall’idea razionale e da concezioni astratte, dall’altro dai fatti della vita e della materia accettati per come essi
si presentano ai sensi ed all’intelligenza senza ricercare in essi alcun significato divino o mistico, abbandonandosi all’immaginazione come gioco della creatività estetica piuttosto che come possibilità di apertura delle porte della verità e confidando nei suoi suggerimenti solo quando essi sono confermati dalla ragione o dall’esperienza fisica, esclusivamente consapevole di intuizioni prudentemente intellettualizzate e recalcitrante verso la maggior parte delle altre, è cresciuta totalmente estranea.

Non è perciò sorprendente che i Veda siano diventati incomprensibili alle nostre menti tranne che nel loro aspetto linguistico più esteriore e conosciuti inoltre molto imperfettamente per l’ostacolo costituito da una lingua antica e non pienamente compresa, e che si siano fatte le più inadeguate interpretazioni per ridurre questa grande creazione di una mente umana giovane e splendida a uno scarabocchio pasticciato e mutilato, a un pot-pourri incoerente di assurdità di un’immaginazione primitiva tesa a complicare ciò che altrimenti sarebbe l’assai semplice, uniforme e comune testimonianza di una religione naturalistica che rispecchiava solo e solo poteva servire i rozzi e materialistici desideri di una barbara mentalità di vita.

I Veda divennero poi, per l’idea scolastica e
ritualistica di preti indù e dei Pandit, niente di più che un libro di mitologia e di cerimonie sacrificali; gli studiosi europei, ricercando in essi solo ciò che era di un qualche interesse razionale – la storia, i miti e le nozioni religiose popolari di una razza primitiva – hanno tuttavia fatto il torto peggiore ai Veda e insistendo su una interpretazione totalmente esteriore li hanno spogliati ancor di più del loro interesse spirituale e della loro bellezza e grandezza poetica. Ma così non era per i Rishi vedici o per i grandi veggenti e pensatori che li seguirono e svilupparono dalle loro intuizioni luminose e pregnanti una propria, meravigliosa struttura di pensiero e parola costruita su una rivelazione spirituale e un’esperienza senza precedenti.

I Veda furono per questi antichi veggenti il Mondo che
scopriva la Verità rivestendo di immagini e di simboli i significati mistici della vita. Fu una scoperta e uno svelarsi divini della potenza della parola, della sua misteriosa capacità di rivelazione e di creazione, non la parola dell’intelligenza logica, razionale o estetica, ma quella di una ritmica espressione intuitiva e ispirata, il mantra. Immagine e mito vennero liberamente usati, non come un indulgere all’immaginazione ma come simboli e parabole viventi di cose estremamente reali per chi le pronunciava e che non potevano trovare altrimenti la loro forma espressiva più intima e originale, e l’immaginazione stesa diventava l’officiante sacro di realtà più grandi di quelle che incontrano e trattengono l’occhio e la mente limitati dalle suggestioni esterne della vita e dell’esistenza materiale.

Questa era la loro concezione del poeta sacro,
una mente visitata da qualche più alta luce e dalle sue forme in idea e parola, un veggente e un uditore della Verità, kavayah satyastrutayah. I poeti dei versi vedici non contemplavano la propria funzione come è immaginata dagli studiosi moderni, essi non si consideravano una sorta di stregoni compositori di inni e di formule magiche al vertice di una rozza e barbara tribù, ma veggenti e pensatori, rsi dhira. Questi cantori furono convinti di possedere una alta verità mistica ed occulta, pretesero di essere i latori di un linguaggio idoneo a una conoscenza divina, e parlarono esplicitamente delle loro forme espressive come di parole segrete che dichiarano il proprio significato pieno solo al veggente, kavaye nivaanani vacamsi.

E per quelli che vennero dopo di loro i Veda furono libri di conoscenza, e proprio della conoscenza suprema, una rivelazione, una grande espressione di eterna e impersonale verità quale vista ed udita nell’esperienza interiore di pensatori ispirati e semidivini. Le più insignificanti circostanze delle cerimonie sacrificali per le quali gli inni furono scritti sostenevano un potere significante simbolico e psicologico, come era ben noto agli autori degli antichi Brahmana. I versi sacri, ciascuno in se stesso tenuto ad essere pieno di un significato divino, furono intesi dai pensatori delle Upanishad come le profonde e pregnanti parole originarie delle verità che essi cercavano, e la più alta legittimazione che poterono dare alle loro espressioni sublimi fu una citazione dei loro predecessori con la formula tad esa rcabhyukya,

“questa è la parola che fu pronunciata nel Rig Veda”. Ma il semplice buonsenso dovrebbe dirci che coloro che furono così vicini, in tutti i sensi, ai poeti originali, dovevano possedere una migliore possibilità di fare propria almeno la verità essenziale sulla questione e ci suggerisce la forte probabilità che i Veda furono realmente ciò che pretendono di essere, la ricerca verso una conoscenza mistica, la prima forma del costante tentativo della mente indiana, al quale essa è sempre stata fedele, di guardare aldilà delle apparenze del mondo fisico e, attraverso la propria esperienza interiore, alla divinità, ai poteri, all’immanenza dell’uno del quale i saggi parlano in molti modi – la famosa frase nella quale i Veda esprimono il loro più centrale segreto, ekam sad vipra bahudha vadanti.

Il carattere più vero dei Veda può essere meglio compreso esaminandoli in qualsiasi punto e interpretandoli chiaramente in relazione alle loro frasi ed immagini. Se li leggiamo per quello che sono senza nessuna falsa traduzione in ciò che pensiamo dovrebbero avere detto dei barbari primitivi, troveremo invece una poesia sacra suprema e potente nelle sue parole e nelle sue immagini, sebbene in altro genere di linguaggio e di fantasia creativa rispetto a quelli che noi oggi prediligiamo e apprezziamo, profonda e sottile nell’esperienza psicologica e stimolata da un’anima di visione ed espressione profondamente partecipe. I poeti dei Veda possedevano una mentalità diversa dalla nostra, il loro uso delle immagini è di un genere peculiare e una antica tendenza della loro capacità visiva dona un profilo strano alle loro espressioni. Il fisico ed i mondi fisici furono ai loro occhi una manifestazione, una duplice e varia, e tuttavia connessa e omogenea rappresentazione di divinità cosmiche, la vita interiore ed esteriore dell’uomo una divina relazione con gli dèi, e dietro ogni realtà esisteva il solo Spirito od Essere del quale gli dèi erano nomi e personalità e poteri.

Queste divinità furono ad un tempo signori della Natura fisica e delle sue forme e dei suoi principi; i loro dèi, i loro corpi e gli intimi poteri divini con le loro corrispondenti condizioni ed energia sono innati nel nostro essere psichico perché essi sono i poteri spirituali dell’universo, i guardiani della verità e dellimmortalità, i figli dell’infinito e ciascuno di essi è anche nella sua origine e nella sua realtà ultima lo Spirito supremo che evidenzia uno dei suoi aspetti.

La vita dell’uomo fu per questi veggenti
una realtà combinata di verità e menzogna, un movimento dal mortale all’immortale, da una commistione di luce e di oscurità allo splendore di una verità divina la cui dimora è al di sopra, nell’infinito ma che può essere costruita nell’anima e nella vita dell’uomo, una battaglia tra i figli della luce e quelli della notte, l’ottenimento di un tesoro, della vera ricchezza, la ricompensa garantita dagli dèi all’uomo guerriero, un’avventura ed un sacrificio; e di questa realtà essi parlarono all’interno di un sistema stabilito di immagini prese dalla Natura e dalla circostante vita guerriera, pastorale e agricola della gente ariana, centrato intorno al culto del fuoco, all’adorazione dei poteri viventi della natura e alla cerimonia del sacrificio.

Ogni dettaglio dell’esistenza profana e del sacrificio erano simboli nella loro vita e nelle loro attività, nella loro poesia, non simboli morti o metafore artificiali, ma viventi e potenti suggestioni, controparti di realtà interiore.

Ed essi usarono inoltre nella loro espressione un corpo stabilito e tuttavia variato di altre immagini e uno splendido tessuto di mito e parabola, immagini che diventavano parabole, parabole che diventavano miti, miti che restavano comunque immagini, e tuttavia tutte queste cose costituivano per essi, in un modo che può essere compreso di un certo genere di esperienze psichiche, realtà effettive. Il fisico scioglieva le sue ombre negli splendori dello psichico, lo psichico cresceva nella luce dello spirituale e non esisteva alcuna linea netta di divisione in questi passaggi, ma una fusione naturale e una compenetrazione delle loro suggestioni e dei loro colori.

E’ evidente che una poesia di questo genere, composta da
uomini con questo genere di visione o immaginazione, non può essere né interpretata né giudicata dai modelli di una ragione e di un gusto fedeli ai soli canoni dell’esistenza fisica. L’invocazione “Appari o lampo di luce e vieni a noi!” evoca ad un tempo il fenomeno dell’ascendere e del bagliore del potente fuoco sacrificale sull’altare fisico e un corrispondente fenomeno psichico, la manifestazione di una fiamma redentrice di un potere e una luce divina dentro di noi.

Il critico schernisce la sfrontata e
audace e per lui mostruosa immagine nella quale Indra figlio della terra e del cielo crea il proprio padre e la propria madre; ma se ricordiamo che Indra è lo spirito supremo in uno dei suoi aspetti eterni e immortali, creatore del cielo e della terra, divinità cosmica generata tra il mondo fisico e quello mentale per ricostruire i loro poteri nell’uomo, vedremo come l’immagine non sia solo una efficace ma una vera e rivelatrice rappresentazione, e per la tecnica vedica poco importa se fa violenza alla nostra immaginazione dal momento che esprime una più grande realtà come nessuna altra avrebbe potuto con la stessa consapevole attitudine e la stessa vivida forza poetica. Il toro e la Vacca dei Veda, gli splendenti pastori del Sole celati nella grotta sono creature abbastanza strane per la mente fisica, ma non appartengono alla terra e nella loro sfera sono ad un tempo immagini e realtà effettive piene di vita e di significati. E’ in questo modo che, dall’inizio alla fine, dobbiamo comprendere e riconoscere la poesia vedica secondo il proprio spirito, la propria visione e la verità psichicamente naturale, anche se per noi estranea e sovrannaturale, delle sue idee e delle sue immagini.

I poeti vedici sono maestri dalla tecnica consumata, i loro ritmi sono scolpiti come carri degli dèi e portati da grandi e divine ali di suono ad un tempo concentrati e dilatati, ampi nel movimento e sottili nella modulazione, il loro discorso è lirico per intensità ed epico per elevazione, un’espressione di grande potere, pura e intrepida e dallo splendido profilo, dall’effetto diretto e incisivo, pienamente profusa di senso e di suggestione così che ogni singolo verso esiste allo stesso tempo come cosa definita ed autonoma e come ampia connessione tra ciò che è venuto prima e quanto lo segue.

Una sacra tradizione sacerdotale fedelmente osservata diede loro sia forma che significato, ma questo significato consisteva nelle più profonde esperienze psichiche e spirituali delle quali l’anima dell’uomo è capace e raramente o mai le forme degeneravano in convenzione, poiché ciò che dovevano trasmettere era vissuto interiormente da ogni poeta e rinnovato in espressione nella propria mente attraverso le sottigliezze e le maestrie della visione individuale.

Le voci dei più grandi veggenti,
Vishwamitra, Vamadeva, Dirghtamas, e molti altri, toccano le più alte vette e latitudini di una poesia mistica e sublime ed esistono poemi come l’Inno della creazione che si innalzano in tremenda chiarezza alle sommità di pensiero sulle quali si muovono costantemente, con una maggiore ampiezza di respiro, le Upanishad. La mente dell’antica India non sbagliò nel riallacciare tutta la sua filosofia, la religione e le realtà essenziali della
sua cultura a questi poeti-veggenti, poiché la futura spiritualità del suo popolo è contenuta in nuce o nell’espressione originaria. E’ una grande cura e un corretto comprendere gli inni vedici come forma di letteratura sacra che ci aiuta a vedere il primo sviluppo non solo delle idee-guida che hanno governato la mente dell’India, ma dei suoi tipi caratteristici di esperienza spirituale, della sua forma mentale immaginativa, del suo temperamento creativo e del genere di forme significanti con le quali essa ha costantemente rappresentato il suo sguardo verso se stessa, la realtà, la vita e l’universo.

Esiste in gran parte della letteratura lo stesso genere di ispirazione e di espressione che vediamo nell’architettura, nella pittura e nella scultura.

Il suo primo aspetto è un senso costante dell’infinito, del cosmico, di realtà viste come parte della visione cosmica o da questa influenzate, dirette a favore o contro l’ampiezza dell’uno e dell’infinito; la sua seconda peculiarità è una tendenza a vedere e interpretare la propria esperienza spirituale con una grande ricchezza di immagini mutuate dal piano psichico interiore oppure in immagini fisiche tramutate dall’azione di un significato, un’impronta, una volontà di immagine psichici; e la sua terza inclinazione è ad immaginare la vita terrestre spesso amplificata, come nel Mahabharata e nel Ramayana, o altrimenti raffinata nelle trasparenze di una più vasta atmosfera, accompagnata da un significato più grande di quello terrestre o comunque presentata sullo sfondo dei mondi spirituali e psichici e non solo nella propria separata immagine. Lo spirituale, l’infinito è vicino e reale e gli dèi sono reali e i mondi ulteriori non tanto al
di là quanto immanenti alla nostra esistenza.

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