Ayurveda. I suoi principi e concetti base 3

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Ayurveda. I suoi principi e concetti base 3

(di Anonimo)

(terza parte)

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LE UPANISHAD

Le Upanishad sono l’opera suprema del pensiero indiano, e che sia effettivamente così, che l’altissima espressione della personalità del proprio genio, la loro sublime capacità poetica, la loro enorme capacità creativa in pensiero e in parola, non siano un capolavoro letterario o poetico della mente ordinaria, ma un ampio flusso di rivelazione spirituale per questo carattere profondo e diretto, è un fatto significativo, prova di una mentalità unica e di una non comune inclinazione dello spirito. Le Upanishad sono nello stesso tempo profonda scrittura religiosa, in quanto testimonianza delle più assolute esperienze spirituali, documenti di una filosofia rivelatrice e intuitiva di luce, potere e ampiezza inesauribili e, sia in prosa che in metrica, poemi spirituali di una assoluta, infallibile ispirazione costante nel linguaggio, straordinaria per ritmo ed espressione.

E’ la manifestazione di una mente nella quale filosofia e
religione e poesia sono diventate una cosa sola, perché questa religione non termina in un culto né è limitata ad una aspirazione di tipo eticoreligioso, ma si innalza verso una scoperta infinita di Dio, del Sé, della nostra più alta e totale realtà spirituale e di esseri viventi e descrive un’estasi di luminosa conoscenza e un’estasi di partecipe e compiuta esperienza; questa filosofia non è un’astratta speculazione intellettuale intorno alla Verità o una delle strutture dell’intelligenza logica, ma una verità vista, esperimentata, vissuta, posseduta dalla mente e dall’anima più profonda nella gioia di esprimere una sicura scoperta e possesso, e questa poesia è opera di una concezione estetica innalzata oltre il suo ambito ordinario per esprimere la meraviglia e la bellezza della più rara autocoscienza spirituale e della più profonda, ispirata Verità del Sé e di Dio e dell’universo.

Qui lo spirito intuitivo e l’intima esperienza
psicologica dei veggenti vedici perviene a un culmine supremo in cui lo Spirito, come è detto in un passaggio della Katha Upanishad, svela la sua più vera essenza, rivela la parola esatta della sua autoespressione e apre alla mente la vibrazione di ritmi che, ripetuti all’ascolto spirituale sembrano sostanziare l’anima e porla, ricolma e compiuta, sulle sommità dell’autoconoscenza.

Le Upanishad sono stata la sorgente riconosciuta di varie e profonde filosofie e religioni che da esse sono poi scorse in India come i grandi fiumi dalla culla himalayana rendendo fertili la mente e la vita degli uomini e hanno mantenuto viva la sua anima lungo il grande procedere dei secoli ritornando costantemente ad esse per la rivelazione, mai mancando di dare nuova illuminazione, fontana di inesauribili acque di vita. Il Buddismo con tutti i suoi sviluppi fu solo una riaffermazione, sebbene da un nuovo punto di vista e con nuovi termini di definizione e di ragionamento intellettuale, di un aspetto di questa esperienza e la portò così modificata nella forma, ma appena nella sostanza, attraverso tutta l’Asia e a occidente verso l’Europa.

Le idee contenute nelle Upanishad possono essere ritrovate in molto del pensiero di Pitagora e Platone e costituiscono la parte più profonda del Neo Platonismo e dello Gnosticismo con tutte le loro importanti conseguenze sul pensiero filosofico occidentale, e il Sufismo le ripete soltanto in un altro linguaggio religioso. La parte più consistente della metafisica tedesca è in sostanza poco più che uno sviluppo intellettuale di grandi realtà meglio spiritualmente comprese da questo antico sapere, e il pensiero moderno le sta rapidamente assorbendo con una ricettività sempre più essenziale, viva ed intensa che promette una rivoluzione tanto nel pensiero filosofico quanto in quello religioso; ora esse filtrano grazie a varie influenze indirette, ora si esprimono in modi aperti e diretti. Quasi non esiste una grande idea filosofica che non possa trovare forza o una nuova origine o indicazioni in queste antiche scritture, le speculazioni, secondo un certo punto di vista, di pensatori che non avevano miglior passato o miglior base culturale al loro pensiero di una rozza, primitiva, naturalistica ed animistica ignoranza.

E persino le più ampie
generalizzazioni della scienza si ritrovano costantemente applicabili alla verità delle formule della natura fisica già scoperta dai saggi indiani nel loro originale, nel loro più vasto significato, nella più profonda verità dello spirito.

E tuttavia queste opere non sono speculazioni filosofiche di genere intellettuale, analisi di tipo metafisico che cercano di definire nozioni, di selezionare idee e di distinguere quante tra di loro sono vere, di logificare la verità o aiutare altrimenti la mente nelle sue inclinazioni intellettuali per mezzo del ragionamento dialettico e nel suo concetto di proporre una soluzione definitiva dell’esistenza nella luce di questa o di quella idea della ragione e di osservare tutte le cose da quel solo punto di vista, in quel fuoco e in quella determinata prospettiva. Le Upanishad non avrebbero potuto avere una vitalità così perenne, esercitare una influenza così sicura, produrre tali risultati o vedere oggi le loro asserzioni autonomamente confermate in altri ambiti di ricerca e attraverso metodi completamente diversi, se fossero state opere di quel genere. E’ perché questi veggenti videro la Verità piuttosto che semplicemente pensarla, la rivestirono anzi di una forte sostanza di intuizione e di immagine rivelatrice, ma una sostanza di trasparenza ideale attraverso la quale noi guardiamo verso l’illimitato, è perché essi compresero in profondità le cose nella luce del Sé e le videro con la visione dell’infinito, che le loro parole rimangono sempre vive e immortali, di un significato inesauribile, di una immancabile autenticità, un fine convincente che è nello stesso tempo un infinito inizio della verità, alle quali tutte le nostre ricerche quando terminano di nuovo approdano e alle quali lumanità
costantemente ritorna nelle sue menti e nelle sue epoche di più profonda visione.

Le Upanishad sono il Vedanta, un libro di conoscenza ad un più alto grado persino dei Veda, conoscenza nel più profondo senso indiano del termine, Jnana. Non un semplice pensare e considerare attraverso l’intelligenza, non il ricercare e il cogliere una forma mentale della verità con la mente razionale, ma un vederla nell’anima ed un vivere totale in essa grazie al potere dell’essere interiore, un possesso spirituale attraverso una sorta di identificazione con l’oggetto della conoscenza, è Jnana. E poiché è solo attraverso una conoscenza integrale del Sé che questo genere di conoscenza diretta può essere resa completa, fu questo che i saggi vedantini cercarono di conoscere, di penetrare e di vivere nellidentità.

E attraverso questo sforzo essi giunsero facilmente a
comprendere che il S in noi è una cosa sola con il Sé universale di tutte le cose e ancora che questo Sé non è che Dio e il Brahman, un Essere o una Esistenza trascendenti, ed essi videro, sentirono, vissero nella più intima verità di tutte le cose dell’universo e nella più intima verità dell’esistenza interiore ed esteriore dell’uomo grazie alla luce di questa sola e unificante visione. Le Upanishad sono inni della conoscenza del Sé dell’universo e di Dio.

Le grandi formule di verità filosofiche di cui esse abbondano non sono astratte generalizzazioni intellettuali, realtà che possono rischiare ed illuminare la mente ma che non vivono e non spingono l’anima ad ascendere, ma sono ardori e luci di una illuminazione intuitiva e rivelatrice, raggiungimento e comprensione della sola Esistenza, della Divinità trascendente, del divino e universale Sé, scoperta della sua relazione con le cose e le creature di questa grande manifestazione cosmica.

Canti di un ispirato sapere, essi emanano come tutti gli inni un tono di aspirazione ed estasi religiose, non del genere scarsamente profondo proprio a un sentimento religioso minore, ma innalzato, al di là del culto e di forme particolari di devozione, verso l’universale Ananda del Divino che ci raggiunge attraverso l’avvicinamento e lidentità con l’autocosciente Spirito universale.

E sebbene principalmente concernenti
la visione interiore e non direttamente l’agire umano esteriore, tutte le più importanti etiche del Buddismo e dell’Induismo posteriore sono tuttavia ancora della stessa vita e del significato delle verità alle quali essi danno forma espressiva e forza e tuttavia esiste qualcosa più grande di qualunque precetto etico e norma mentale di virtù, l’ideale supremo di una azione spirituale fondata sullidentità con Dio e con tutti gli esseri viventi. Perciò anche quando sono morte le forme del culto vedico, le Upanishad sono rimaste viventi e creative ed hanno potuto generare le grandi religioni devozionali e sostenere la duratura concezione indiana del Dharma. Le Upanishad sono la creazione di una mente rivelatrice e intuitiva e nella sua illimitata esperienza; la loro sostanza, la struttura, l’espressione, il linguaggio figurato e le dinamiche sono determinati e contrassegnati da questo carattere originale.

Queste verità supreme e onnipervadenti, queste
visioni di unità, del Sé e di un essere divino universale sono proiettate in frasi concise e monumentali che le portano immediatamente di fronte alla visione dell’anima e le rendono presenti e imperative per la sua aspirazione e la sua esperienza e sono espresse in brani poetici pieni di potere rivelatore e di una concezione suggestiva che scopre l’intero infinito attraverso un’immagine finita. L’uno è là rivelato ma ha anche dischiuso i suoi innumerevoli aspetti, e ciascuno guadagna pieno significato attraverso l’ampiezza dell’espressione e trova, come in una spontanea autoscoperta, il suo posto e la sua coordinazione attraverso l’illuminante esattezza di ogni parola e dell’intera frase. Le più vaste verità metafisiche e le più sottili distinzioni dell’esperienza psicologica sono raccolte all’interno del movimento ispirato e rese immediatamente chiare per la mente che osserva e colmate di infinite suggestioni per lo spirito che conosce.

Esistono frasi particolari, singoli distici, brevi passaggi che contengono in se stessi l’essenza di una vasta filosofia e tuttavia ciascuno di essi viene pronunciato come un lato, un aspetto, una parte dell’infinita autoconoscenza. Tutto è di una concisione raccolta e ricca di idee e tuttavia perfettamente lucida e luminosa, tutto di una infinita compiutezza.

Un pensiero di questo genere non può seguire il lento,
prudente e prolisso sviluppo dell’intelligenza logica. Il brano, la frase, il distico, il verso e persino il mezzo verso segue quello che precede con un intervallo determinato pieno di un significato inespresso, un silenzio che echeggia tra loro, un pensiero che viene trasmesso in una suggestione totale ed è implicito alla cadenza stessa ma che la mente è lasciata libera di elaborare a proprio vantaggio, e questi intervalli di silenzio significante sono ampi, la cadenza di questo pensiero come i passi di un Titano che cammina tra rocce distanti su acque infinite.

Si trova una perfetta totalità,
una estesa correlazione di parti tra loro armoniche nella struttura di ogni Upanishad; ma il tutto è trattato al modo di una mente che vede in uno sguardo masse di verità e si arresta per estrarre solo la parola necessaria da un silenzio compiuto. Il ritmo nel verso o la cadenza della prosa scolpiscono l’idea e l’espressione. Le forme metriche delle Upanishad sono costituite da quattro semiversi ciascuno chiaramente definito, versi che sono generalmente completi e dotati di senso, semiversi che presentano due pensieri o parti distinte di un pensiero che sono unite e si completano reciprocamente, e la cadenza sonora segue un principio corrispondente, ciascun passo conciso e marcato della chiarezza del proprio intervallo, colmo di ritmi echeggianti che permangono a lungo a vibrare nell’ascolto interiore; ciascun passo è come un’onda dell’infinito che porta in se stessa interi la voce e il suono dell’oceano.

E’ un genere di poesia, parola della
visione, ritmo dello spirito, che non è più stato scritto, né prima né dopo. Il linguaggio figurato delle Upanishad si è in larga parte sviluppato dal genere di linguaggio figurato dei Veda e sebbene esso solitamente preferisca la svelata chiarezza di una immagine direttamente illuminante, a volte esso usa gli stessi simboli in un modo che è profondamente simile allo spirito e all’aspetto meno tecnico del metodo di quel simbolismo più antico.

E’ in larga misura questo elemento non più afferrabile dal nostro modo di pensiero che ha sconcertato certi studiosi occidentali e li ha fatti affermare che queste scritture sono una combinazione delle più alte speculazioni filosofiche con i primi goffi balbettii della mente bambina dellumanità. Le Upanishad non rappresentano uno scostamento rivoluzionario dalla mente vedica, dal suo temperamento e dalle sue idee fondamentali, piuttosto una continuazione e uno sviluppo e in una certa misura un ampliamento nel senso di una resa in aperta espressione di tutto ciò che fu tenuto nascosto nel discorso simbolico dei Veda come un mistero e un segreto.

Esse iniziano a raccogliere il linguaggio figurato e i
simboli rituali dei Veda e dei Brahmana e a trasformarli in modo da esprimere un senso interiore e mistico che serve come una sorta di punto di partenza psichico per la propria filosofia, più evoluta e più puramente spirituale.

Esiste un grande numero di passaggi specialmente nelle
Upanishad in prosa che sono interamente di questo genere ed azione, in un modo recondito, oscuro e persino incomprensibile per il pensiero moderno, con il senso psichico di idee allora comuni nella mente religiosa vedica, la distinzione tra i tre generi di Veda, i tre mondi e altri soggetti simili; ma, conducendo come fanno nel pensiero delle Upanishad a più profonde verità spirituali, questi brani non possono essere scartati come infantili aberrazioni dell’intelligenza privi di senso e di ogni rintracciabile rapporto con il più alto pensiero nel quale essi culminano. Al contrario troviamo che essi possiedono un significato sufficientemente profondo quando riusciamo a penetrare il loro significato simbolico. Questo significato si mostra in una ascesa psicofisica a una conoscenza psicospirituale per la quale noi useremmo oggi termini più intellettuali, meno concreti e immaginativi, ma che è ancora valida per coloro che praticano lo yoga e riscoprono i segreti del nostro essere psicofisico e psicospirituale.

Passaggi tipici di questo genere di espressione peculiare di verità psichiche sono la spiegazione di Ajatashatru del sonno e dei sogni o i brani della Prashna Upanishad sul principio vitale e le sue azioni, o ancora quelli in cui l’idea vedica della lotta tra déi e demoni è ripresa e guadagna il suo significato spirituale e le divinità vediche, più chiaramente che nel Rig o nel Sama Veda, sono caratterizzate e invocate per la loro funzione interiore e per il loro potere spirituale. Le Upanishad abbondano di passaggi che sono ad un tempo poesia e filosofia spirituale, di chiarezza e bellezza assolute, ma nessuna traduzione priva delle suggestioni e dei solenni e sottili e luminosi echi di senso delle parole e dei ritmi originali, può dare alcuna idea del loro potere e della loro perfezione. In altri le più sottili verità psicologiche e filosofiche sono espresse in modo completamente sufficiente senza mancare di una perfetta bellezza nell’espressione poetica e sempre in modo tale da vivere nella mente e nell’anima e non essere semplicemente offerte alla comprensione intelligente.

C’è in alcune delle Upanishad in prosa un altro elemento di
vivido racconto e tradizione che ci restituisce, sebbene solo in brevi visioni fugaci, il quadro di quella animazione e di quel movimento di ricerca spirituale e di passione verso la più alta conoscenza che hanno reso possibili le Upanishad.

Le scene del mondo antico rivivono davanti a noi
in alcune pagine, i saggi che siedono nei boschi pronti ad esaminare e ammaestrare chi si presenta, prìncipi e dotti Bramini e grandi proprietari terrieri alla ricerca della conoscenza, il figlio del re nel suo carro e il figlio
illegittimo della serva, ricercando ogni uomo che avrebbe potuto portare in se stesso l’idea della luce e la parola della rivelazione, le tipiche figure simboliche e personalità Janaka e la sottile mente di Ajatashatru, Raikwa del carro, Yoinavalka soldato della verità, calmo ed ironico, che prende con entrambe le mani senza alcun attaccamento i beni del mondo e le ricchezze spirituali e lascia alla fine tutti i suoi averi per peregrinare come un asceta senza casa, Krishna figlio di Devaki che udì una sola parola della Rishi Gora e conobbe immediatamente l’Eterno, gli Ashram, le corti di re che furono anche ricercatori e conoscitori spirituali, le grandi assemblee sacrificali dove i saggi si incontravano e confrontavano la loro conoscenza.

Così noi vediamo come nacque l’anima dell’India e come scorse questo grande canto delle origini nel quale essa si levò in volo dalla terra verso i supremi cieli dello spirito. I Veda e le Upanishad non sono solo la bastevole sorgente della filosofia e della religione indiana, ma di tutta l’arte, la poesia e la letteratura indiana. Fu l’anima, il temperamento, lo spirito ideale in essi formato ed espresso che costruì in seguito le grandi filosofie, edificò la struttura del Dharma, testimoniò la sua eroica gioventù nel Mahabharata e nel Ramayana, si intellettualizzò infaticabilmente nell’epoca classica della sua maturità, produsse così tante intuizioni originali nella scienza, creò un così ricco fervore di esperienze estetiche, vitali e sensibili, rinnovò la sua essenza spirituale e psichica nei Tantra e nei Purana, si gettò nella magnificenza e nella bellezza delle linee e del colore, scolpì e fuse il suo pensiero e la sua visione nelle pietre e nel bronzo, si riversò in nuovi canali di autoespressione nei linguaggi successivi e ora dopo una lunga eclissi riemerge sempre identico nella diversità e pronto per nuova vita e nuova creazione.

La fissata concezione
fondamentale del Vedanta è che là esiste in qualche luogo – e non potremmo non trovarla – accessibile all’esperienza o all’autorivelazione anche se negata alla ricerca puramente intellettuale, una verità sola onnicomprensiva e universale nella luce della quale l’intera esistenza si trova rivelata e chiarita nella sua natura e nel suo fine. Questa esistenza universale, con tutta la moltitudine della sua realtà e la diversità delle sue forze, è una in sostanza ed origine; ed esiste una quantità non conosciuta, X o Brahman, alla quale essa può venire ridotta, perché da lui è originata e in lui e attraverso di lui persiste.

Questa quantità non conosciuta è
chiamata Brahman. Ma intanto i veggenti dell’antica India avevano completato, nei loro esperimenti e sforzi di disciplina spirituale e di conquista del corpo, una scoperta che nella sua importanza per il futuro della conoscenza umana oscura le intuizioni di Newton e Galileo; persino la scoperta del metodo induttivo e sperimentale nella Scienza non è risultato così fondamentale; perché essi penetrarono sino ai suoi processi ultimi il metodo dello yoga e attraverso il metodo dello yoga si elevarono al culmine di una triplice realizzazione. Essi compresero dapprima come una realtà l’esistenza, al di sotto del flusso e della molteplicità delle cose, di quella suprema Unità e immutabile stabilità che era stata sino ad allora ipotizzata solo come una teoria necessaria, una inevitabile
generalizzazione.

Giunsero a comprendere che quello è la sola realtà e
tutti i fenomeni non sono che le sue apparenze e le sue sembianze, che quello è il vero sé di tutte le cose e i fenomeni non sono che le sue vesti e i suoi ornamenti. Essi impararono che quello è assoluto e trascendente e perché assoluto e trascendente, perciò eterno, immutabile, indiminuibile e indivisibile. E guardando allo sviluppo passato del pensiero, compresero che questa era anche la meta alla quale li avrebbe condotti il puro ragionamento intellettuale.

Poiché ciò che è nel Tempo deve nascere e
morire; ma lUnità e la Stabilità dell’universo sono eterne e devono perciò trascendere il Tempo. Ciò che è nello Spazio deve crescere e diminuire, possedere parti e relazioni, ma lUnità e la Stabilità dell’universo non sono diminuibili, non sono aumentabili, sono indipendenti dalla modificazione delle proprie parti e non toccate dal mutarsi delle loro relazioni, e devono perciò trascendere lo Spazio; e se trascendono lo Spazio non possono possedere parti, perché lo spazio è la condizione della divisibilità materiale; la divisibilità deve perciò essere, come la morte, un’apparenza e non una realtà.

Infine ciò che è soggetto alla Causalità è necessariamente
soggetto al Cambiamento; ma lUnità e la Stabilità dell’universo sono immutabili, identiche a ciò che furono negli eoni trascorsi e a ciò che saranno gli eoni futuri e devono perciò trascendere la Causalità. Questa fu dunque la prima realizzazione ottenuta attraverso lo Yoga,
nityonityanam, l’Eterno Uno nella moltitudine transitoria. Allo stesso tempo essi compresero una verità interiore – una verità sorprendente; compresero che il sé trascendente e assoluto dell’universo costituiva anche il sé degli esseri viventi, anche il sé dell’uomo, l’essere supremo tra quelli che abitano il piano materiale sulla terra.

Il Purusha, l’io conscio
nell’uomo che aveva sconcertato i Sankhyas, si è rivelato nella sua realtà ultima esattamente identico a Prakriti, la sorgente apparentemente non conscia della realtà; la non- coscienza di Prakriti, come molto altro, si è dimostrata un’apparenza, non una realtà perché dietro ogni forma inanimata una intelligenza conscia all’opera è, agli occhi dello yogi, luminosamente autoevidente.

Questa fu dunque la seconda realizzazione
ottenuta attraverso lo Yoga, cetanascetananam, la Coscienza una nella moltitudine delle coscienze. Infine alla base di queste due realizzazioni se ne trova una terza, la più importante per la nostra umanità, cioè che il sé trascendente in ogni uomo è così completo perché esattamente identico al sé trascendente dell’universo; perché il trascendente è indivisibile e il senso dellindividualità separata non è che una delle apparenze fondamentali dalle quali la manifestazione dell’esistenza fenomenica perpetuamente dipende. In questo modo l’Assoluto, che sarebbe altrimenti aldilà di ogni conoscenza, diventa conoscibile; e l’uomo che conosce il suo intero sé conosce l’intero universo.

Questa stupenda verità è per noi
rinchiusa nelle due famose formule del Vedanta, “so ham”, Egli ed io, e “aham brahma asmi”, io sono il Brahman, l’eterno. Basata su queste quattro grandi verità, nytonityanam, cetanascetanam, so ham, aham brahma asmi, come su quattro possenti pilastri la suprema filosofia delle Upanishad ha eretto il suo fronte tra le più lontane stelle.

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