Alcuni brani di Jon Kabat Zinn

pubblicato in: AltroBlog 0
Alcuni brani di Jon Kabat Zinn

Questi brani sono tratti da Riprendere i sensi di Jon Kabat-Zinn, uno dei
suoi libri più belli, attualmente in ristampa. Ho pensato così che potesse
essere utile avere qualche riferimento, in attesa della nuova stampa….
Li introduco con una delle citazioni che amo di più

«Stress significa che abbiamo commesso adulterio rispetto al nostro
matrimonio con il tempo. Se vogliamo comprendere i particolari della nostra
realtà dobbiamo capire in che modo trattiamo la nostra relazione quotidiana
con le ore che passano. Nelle ore sta il passaggio segreto verso la
giornata lavorativa, e in ogni giornata di lavoro il carattere che assume
il nostro matrimonio con le ore (e di conseguenza il nostro viaggio
attraverso la giornata) è essenziale per la felicità alla quale aspiriamo»
(David Whyte, Crossing the Unknown Sea).

Un rabbino, durante una delle funzioni del Kippur, fu assalito da una
sensazione di unità e legame con l’universo e con Dio; innalzato di colpo
in uno stato di estasi, esclamò: «O Signore, io sono il Tuo servitore. Tu
sei tutto, io non sono nulla». Il cantore, profondamente commosso, esclamò
a sua volta: «O Signore, io non sono nulla!». Allora si udì il custode
della sinagoga, a sua volta profondamente commosso, esclamare: «O Signore,
io non sono nulla!»; al che il rabbino si china verso il cantore e
sussurra: «Ah, guarda chi è che si crede di essere nulla!».

Va avanti così, nel nostro perpetuo tentativo di definirci come qualcuno o
come nessuno […].
Chi crediamo di essere? […] E che cosa crediamo di essere? Sono domande
da cui rifuggiamo. […] Preferiamo invece fabbricarci una storia che metta
più in luce alcuni aspetti dell’«io» in quanto entità di durata permanente
[…], e poi preferiamo attaccarci a quella storia e soffrirne […] invece
di osservare a fondo la natura misteriosa del nostro essere al di là dei
nomi, apparenze, ruoli, risultati, al di là delle nostre solite costruzioni
mentali. L’abitudine a fabbricarci storie su noi stessi […] ci rende
molto difficile raggiungere la pace della mente […].

Se pensiamo di essere qualcuno, […] ci sbagliamo. E se pensiamo di non
essere nessuno, ci sbagliamo ancora. Soen Sa Nim avrebbe detto: «Se dici di
essere qualcuno ti attacchi a nome e forma, dunque ti darò trenta
bastonate. Se dici di non essere nessuno ti attacchi alla vacuità, dunque
ti darò trenta bastonate. Che cosa potete fare?». Forse qui il problema è
il fatto stesso di pensare.

[…] La nostra è una civiltà di sostantivi: volgiamo le cose in cose
[…]. È qui che sviluppiamo un involontario attaccamento per «nome e
forma». […]

Buddha ha detto una volta che il messaggio centrale di tutti i suoi
insegnamenti […] può essere riassunto in un’unica frase. […] La frase è
questa: Non attaccarsi a nulla considerandolo «io», «me» o «mio». In altre
parole: non attaccamento, specie a un’idea prefissata su se stessi e su ciò
che si è.

[…] La questione dell’identificazione, dell’autoidentificazione e della
nostra abitudine a reificare, ossia rendere concreto, il pronome personale
facendone un «sé» assoluto e indiscusso, e poi di vivere all’interno di
quella che chiamiamo «la mia storia» […] nel buddhismo questa
reificazione è considerata la radice di ogni sofferenza e di ogni emozione
afflittiva, un’identificazione erronea della totalità del proprio essere
con la biografia limitata che attribuiamo al pronome personale.

[…] La vacuità è intimamente correlata alla pienezza. Vacuità non
significa un vuoto privo di significato, un’occasione di nichilismo,
passività e disperazione o l’abbandono dei valori umani: al contrario,
vacuità è pienezza, significa pienezza, permette la pienezza, è
l’invisibile, intoccabile «spazio» all’interno del quale determinati eventi
possono emergere e dispiegarsi. Senza vacuità non c’è pienezza. […] La
vacuità mira all’interconnessione di tutte le cose, di tutti i processi e
fenomeni. La vacuità ci permette una vera etica basata sulla reverenza per
la vita e sul riconoscimento dell’interconnessione di tutte le cose;
un’etica che riconosce come folle il tentativo di forzare le cose a
rientrare nei propri modelli stretti e miopi per il proprio tornaconto”
(pp. 153-164).

Io sono nessuno

Io sono nessuno! Tu chi sei?
Sei nessuno anche tu?
Allora siamo in due!
Non dirlo! Potrebbero spargere la voce!
Che grande peso essere qualcuno! Così volgare – come una rana,
che gracida il tuo nome – tutto giugno ad un pantano in estasi di lei!
Emily Dickinson

“Ogni realizzazione è possibile una volta che riconosciamo il fatto che non
c’è alcuna realizzazione né nulla da realizzare, che lo ricordiamo e lo
incorporiamo nel nostro modo di vivere il momento presente e la vita
intera. È il dono della vacuità, questo, la pratica del non dualismo […].
E la mente non è più prigioniera di niente, non è più centrata su se
stessa. È libera.

[…] Quando nella mente vi nasce il pensiero e la domanda «Sto facendo giusto?»
e genera dubbio e confusione c’è un’altra risposta da dare, una risposta
che proviene dalla natura non strumentale della pratica meditativa, dal
fatto che la meditazione non consiste nell’andare da qualche altra parte ma
semplicemente nell’essere dove vi trovate già e saperlo. Da questo punto di
vista, se rimanete nella consapevolezza state andando bene qualunque cosa
proviate, che sia piacevole spiacevole o neutra. Se vi annoiate e ne siete
consapevoli state andando bene. Se siete spaventati e lo riconoscete, state
andando bene. Se siete confusi e lo sapete, state andando bene.

Se siete depressi e lo sapete, state andando bene. Se di colpo prendete
consapevolezza che la vostra fabbrica dei pensieri non chiude mai per ferie
e invece di lasciarvi trascinare nell’agitazione riuscite a «essere la
conoscenza stessa», allora state andando bene. E se di fatto siete travolti
dall’agitazione e dalla proliferazione dei pensieri e dalla loro
fabbricazione e dal fragore di cascata della mente pensante e ne siete
consapevoli, e riuscite a «essere quella conoscenza» in quel momento,
allora state andando bene.
Di fatto non c’è niente che possiate fare o che vi possa capitare che non
possa far parte della pratica a buon diritto, se ne siete consapevoli e
riuscite ad abbandonarvi alla fiducia e a dimorare nella consapevolezza
invece di restare perennemente intrappolati nella turbolenza,
nell’agitazione, nell’attaccamento, nel desiderio, nel rifiuto di tutto ciò
che si presenta.
[…] La consapevolezza di ognuno è uno spazio davvero ampio nel quale risiedere;
non c’è momento in cui non sia un’alleata, un’amica, un santuario, un
rifugio. E non è mai assente, solo che a volta è velata. […] Se fai
appello alla consapevolezza quando sei immerso nei dubbi, nell’infelicità,
nella confusione, nell’ansia, nel dolore, questi stati mentali non sono più
«tuoi»: sono solo condizioni meteorologiche del tuo corpo e della tua
mente. Quella dimensione di «te» che sa già che dubiti, che sei infelice,
che sei confuso, ansioso, risentito, che soffri, non è nessuna di queste
cose e sta già bene, è già nella pienezza dell’essere. Non sarà mai altro
da ciò che è, dalla persona che sei in realtà, a livello più essenziale. E
così, se ricordi la consapevolezza non giudicante nel momento presente come
una possibilità e stai imparando a fidartene e vai a trovarla di tanto in
tanto, a maggior ragione se vi prendi residenza per tempi più lunghi,
allora non solo «stai facendo bene», ma in realtà non c’è nessun «fare» e
non c’è mai stato, né c’è qualcuno che lo faccia. Non si tratta, non si è
mai trattato di «fare»; si tratta di essere: essere il sapere, compreso il
sapere di non sapere. Che differenza c’è? Fermiamoci un attimo a meditare
su questo fatto” (p. 165, pp. 282-284).

Prologo al presente

Apri gli occhi. Svegliati:
il Paradiso sta qui
nella luce effimera.
È (altro non c’è) questa terra: …punto d’incontri,
culla d’assenze.
Il Paradiso sta qui. Apri gli occhi
che aprano le sue porte. Svegliati. Sta qui.
Non è la felicità.
È la presenza.
*Edoardo Mitre*

“Forse avete notato che il senso del sé ci dice tutto il tempo che non
siamo completi: ci comunica che dobbiamo arrivare da qualche altra parte,
raggiungere ciò che occorre, realizzare, acquisire completezza e felicità,
contare qualcosa o molto, cavarcela bene, tutte cose in parte vere,
relativamente vere, e in quanto tali intuizioni da onorare. Ma dimentica di
ricordarci, a un livello più profondo, al di là delle apparenze e del
tempo, che tutto ciò che va raggiunto o realizzato è già qui, ora, che non
esiste un «miglioramento» del sé ma solo un conoscerne la natura insieme
vuota e piena e perciò stesso profondamente utile.
[…]

«Stress significa che abbiamo commesso adulterio rispetto al nostro
matrimonio con il tempo. Se vogliamo comprendere i particolari della nostra
realtà dobbiamo capire in che modo trattiamo la nostra relazione quotidiana
con le ore che passano. Nelle ore sta il passaggio segreto verso la
giornata lavorativa, e in ogni giornata di lavoro il carattere che assume
il nostro matrimonio con le ore (e di conseguenza il nostro viaggio
attraverso la giornata) è essenziale per la felicità alla quale aspiriamo»
(David Whyte, Crossing the Unknown Sea).

Una delle sfide del vivere in presenza mentale è riuscire a stare in
contatto con i ritmi naturali della nostra vita a mano a mano che si svolge
[…]. Si tratta di tenere bene a mente che cosa conta di più e riconoscere
di essere «drogati d’azione» […].

Passiamo tutto il giorno da una cosa all’altra, specie quando non
lavoriamo: può essere leggere il giornale, prendere in mano una rivista,
fare zapping in televisione, metter su il video di un film, telefonare a
qualcuno, andare ad aprire il frigo, accendere la radio appena saliti in
macchina, fare compere, pulire compulsivamente la casa, leggere a letto,
dire cose inconsapevoli di nessuna rilevanza rispetto al momento ma che
semplicemente rispecchiano i pensieri quasi casuali che continuano a
infestarci come parassiti. Questi e altri modi del tutto «normali» di
passare il tempo (e anche alcuni di quelli necessari a portare avanti la
vita e a prenderci cura di quel che va fatto) possono servire anche a
tenerci continuamente lontani da uno stato di piena veglia e presenza.

Se cominciamo a prestare attenzione a questi impulsi appena nascono
scopriremo forse di essere sostanzialmente dipendenti da queste continue
autodistrazioni, tanto abituale ci è questo fluttuare nell’aria da un
momento al successivo riempiendoli di attività e di oggetti senza mai
atterrarci sopra per davvero. […] Poi arriva uno di quei momenti in cui,
per qualche istante, ci appare tutto più chiaro e più a fuoco, e ci
chiediamo a che punto siamo, nella nostra vita, tanto ci sentiamo lontani
[…] dalla sensazione reale di essere «a casa» in noi stessi e
profondamente connessi con gli altri. […]

Che effetto farebbe prendere dimora nel proprio corpo, nella sensazione di
essere vivi e basta, anche se per pochi attimi, diciamo per cinque minuti
alla fine della giornata, sdraiati a letto o seduti da qualche parte, la
sera o all’inizio della giornata, persino prima di mettere già i piedi dal
letto? Che effetto farebbe? Potete scoprirlo, naturalmente, se solo
incontrate voi stessi evitando deliberatamente di riempire il momento
presente di qualcosa […] E anche se non siete agitati potete sempre
ricordare, quando fate la doccia, di controllare se davvero vi trovate
nella doccia o se la vostra mente sia da qualche altra parte a riempirsi
fino all’orlo dimenticandosi di fare una capatina nel «qui e ora»:
nell’acqua che vi scorre sulla pelle” (p. 317, pp. 407-408, pp. 415-417).

“Sdraiati a guardare le nuvole, immersi nei canti degli uccelli o nella
brezza del deserto, sentendo l’aria intorno al corpo, il calore che
rimandano le pareti della gola o il gioco della luce sulle rocce, o
sentendo i muscoli posteriori del collo irrigidirsi mentre cercate di
parcheggiare in centro durante una bufera di neve e siete già in ritardo
all’appuntamento – qualunque cosa vi si offra nel luogo in cui vi trovate,
che sia natura, metropoli o periferia: perché rifiutarla e cercare altrove
l’eccitazione e l’intrattenimento e la distrazione, quando la vita si
dispiega sempre qui e ora e non esiste luogo né tempo migliore? Che senso
ha «distrarsi» quando farlo ci sposta altrove rispetto alla nostra stessa
vita, come il torrente o il fiume che viene deviato, e riempie i nostri
momenti già perfetti (per quanto difficili) e le nostre splendide menti di
cose di cui non abbiamo nessun bisogno?

Riusciresti a essere proprio lì dove ti trovi, dovunqe tu sia? Con tutto
quel che accade? Adesso?
Se la risposta è sì, forse scopri che ti stai già divertendo molto, più di
quanto non sapessi. Forse, in fin dei conti, te ne stai solo bello
spaparanzato «a casa»… dentro te stesso, a prescindere dalle circostanze,
dovunque ti trovi.

da: bioenergeticaesocieta.it

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *