Lo Yoga e lo Yogi

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Lo Yoga e lo Yogi

di Manonath Dasa

1) Patanjali

L’autorità ultima e praticamente indiscussa dello Yoga è il testo chiamato “Yoga-sutra”, e l’autore
è il saggio Patanjali. Come al solito la data precisa della sua nascita è avvolta dal mistero. Gli
studiosi la fanno risalire a due secoli prima dell’era cristiana, ma non ci sono dubbi che deve
essere ben antecedente. Infatti i Purana lo menzionano in compagnia di saggi antichissimi quali Vyasa, Astavakra e Narada.

A coloro che desiderano acquisire una conoscenza generale di questa scienza millenaria, prima di
affrontare l’analisi del testo originale e completo consigliamo di studiarne un riassunto.

L’autore ha diviso lo Yoga-sutra in 4 pada (o capitoli), che sono: il samadhi-pada, composto di 51
versi, il sadhana-pada, di 55 versi, il vibhuti-pada, di 56 versi e il kaivalya-pada di 33 versi, per un totale di 195 versi.

2) Lo Yoga-sutra

a) capitolo primo
Vediamo il capitolo primo, il samadhi-pada, che riguarda gli stadi di concentrazione e di estasi interiore.

Prima di tutto dobbiamo chiarire il significato della parola Yoga, che significa “unione”,
riallacciamento con Dio, l’Essere Supremo. Lo Yoga è dunque quell’insieme di tecniche grazie alle
quali è possibile raggiungere l’unificazione qualitativa con l’Ishvara, il Signore. Ma è impossibile
svolgere queste tecniche a meno che la mente non sia completamente sotto controllo.

Infatti non è possibile meditare se la nostra attenzione è continuamente distratta e trascinata
lontano dal punto. Il problema sta nel fatto che i nostri sensi sono spinti dai nostri sensi-guida a
posarsi in continuazione sui loro rispettivi oggetti, per un gioco di piacere, per poter in ogni
istante provare un qualche gusto, una qualche emozione nuova. Questo contatto e le sensazioni
provate causano delle impressioni che si stampano nella nostra mente, rendendola sempre più agitata,
febbrile, come una macchina impazzita che l’autista non riesce più a controllare. In questa
situazione il nostro viaggio verso la meta diviene evidentemente improbo. Queste continue
agitazioni, che sono come onde impetuose, ci impediscono di essere forti e stabili nella pratiche
delle tecniche che permettono di condurre la ricerca del vero sè. Dopo un pò la nostra stessa
determinazione tende a scemare. Quando invece riusciamo a immobilizzare la mente e a portarla sotto
il nostro ferreo dominio, allora, è possibile diventare stabili all’interno di noi stessi, in
direzione della nostra ricerca, e non più in balia delle cose esterne. Ma se non si riesce a
imbrigliare la mente non si può fare a meno di identificarsi con le sue varie e forsennate fluttuazione e così sprofondare ancora di più nell’illusione.

Ci sono cinque tipi di fluttuazioni (o modificazioni della mente); queste stesse in determinati modi
e momenti provocano dolore, altre volte un senso di felicità. E sono: la giusta conoscenza, la falsa conoscenza, l’immaginazione, il sonno e la memoria. Vediamole uno per uno.

Possiamo giungere a una conoscenza vera delle cose in modi diversi, quali usando la percezione
diretta, cioè quella ottenuta con i sensi e la mente (pratyaksha); oppure attraverso la deduzione,
cioè attraverso il ragionamento dell’intelletto (anumana); oppure grazie alle parole delle persone
che sono già realizzate (agama). La prima può essere di grande aiuto, ma le informazioni ottenute
devono essere valutate attentamente, in quanto i nostri sensi soffrono di pesanti limitazioni e
difetti. Di certo non possiamo fidarci ciecamente. Per quanto riguarda la deduzione fondata
sull’esercizio intellettivo, anch’essa è limitata, sebbene più raffinata in confronto alla
precedente. D’altra parte non possiamo dimenticare che le nostre conclusioni sono per lo più basate
sulla esperienza sensoriale, sulla quale abbiamo costruito il nostro punto di osservazione. Comunque
la deduzione, se ben educata, può portare a un veloce avanzamento spirituale. La terza, cioè la
testimonianza di chi ha già avuto esperienza del tutto, ammesso che si trovi la giusta sorgente di
informazioni, è la più affidabile. Chi potrebbe parlarci meglio dell’America di uno che ci sia già stato?

Continuando a studiare le cause delle varie modificazioni della mente, troviamo il falso sapere,
cioè essere convinti di una cosa falsa. Poi abbiamo l’immaginazione, cioè quelle certezze che ci
creiamo artificialmente da noi stessi e che corrispondono convinzioni dannose, come l’idea di essere
un corpo e tutto ciò che ne consegue. Il sonno, poi, è lo stato mentale privo di consapevolezza, una
specie di indolenza esistenziale in cui si è totalmente in oblio di qualsiasi cosa. Infine la
memoria è la rievocazione delle passate esperienze. Tutti questi stati possono causare alla nostra
mente delle agitazioni tali da impedire la meditazione e le pratiche necessarie alla liberazione.

Quindi, come possiamo far sì che queste situazioni negative si arrestino definitivamente, o almeno
che si attenuino? Con la pratica continua e il distacco dagli attaccamenti agli oggetti e alle
situazioni materiali, risponde Patanjali. Certo, all’inizio tutto ciò richiede costanza, anche
fatica, ma alla fine siamo certi di raggiungere la quiete interiore. Dopo un pò non sarà più
necessario una costrizione continua per mantenersi allo stato yogico, ma diventerà una cosa
acquisita e dunque del tutto naturale, spontanea, quasi automatica. Ma, ribadisce Patanjali, è
fondamentale l’astensione dai piaceri dei sensi, e quando si sarà percepito il Purusha ogni desiderio avrà cessato di arrecare disturbo. Questo stato è chiamato samadhi.

Il samadhi è la concentrazione totale sul Signore. Ci sono gradi diversi di samadhi, più o meno
perfetti. Per raggiungere la vetta massima, senza la quale la rinascita è certa, è necessario sforzarsi con intensità e sincerità; chi lo fa è vicino al successo.

Come ottenere la perfezione? La prima strada che il maestro di tutti gli yogi indica è quella della
devozione a Ishvara, detto anche Purusha o Paramatma. Questo Essere Supremo è un Dio personale,
l’Anima Suprema, piena di consapevolezza, ed è trascendentale alle illusioni di questo mondo. C’è
differenza tra l’Anima Suprema e le anime non supreme, noi, i “sè individuali”: mentre il primo è
perfetto, onnisciente e illimitato, le seconde (jiva) sono imperfette e limitate. Ishvara è il Signore e Maestro dei maestri, pieno di incommensurabili poteri.

Ora Patanjali ci offre uno strumento di meditazione, la sillaba spirituale Om. Questa è la
rappresentazione sonora di Dio. Meditando sul suono e sui suoi significati, ripetendola
costantemente e con rapita attenzione, ci accorgiamo che gradualmente tutti gli impedimenti svaniscono, e ci risvegliamo a una nuova consapevolezza.

Purtroppo in questo mondo ci sono troppi fattori di distrazione, e tutti provocano solo angoscia e
illusione. La pratica costante della meditazione sul suono spirituale è fondamentale ai fini della
rimozione di questi elementi negativi. Si deve predisporre la mente con pensieri e sentimenti positivi, virtuosi e controllare attentamente il respiro.

Appena ci accorgiamo che tale pratica meditativa comincia a produrre percezioni sensoriali
straordinarie, vediamo che la nostra mente acquista sicurezza, e diventa uno strumento in più a nostra disposizione per perseverare nella pratica.

Ma a cosa si deve pensare durante la meditazione? Patanjali dice che gli oggetti di meditazione
possono essere svariati. Egli dà grande importanza all’esercizio di concentrazione in sè, ed è
grazie a questo sforzo che sopravviene la visione del Paramatma situato all’interno del cuore.

Così controllate le modificazioni mentali, la comprensione della propria identità e della differenza
con gli oggetti esterni e con le situazioni finora percepite con i vari sensi, diventa chiara.
Allora il grado del samadhi diviene profondo, e siamo liberi dal ciclo delle morti e delle rinascite.

b) capitolo secondo
Vediamo ora il capitolo secondo, il sadhana-pada, che riguarda le pratiche necessarie al perfezionamento dello Yoga.

Patanjali comincia con lo specificare la sua idea di Kriya-yoga (o Karma-yoga). Questo è uno Yoga
pratico, uno Yoga dell’azione. Svolgendo un certo tipo di attività si può raggiungere la
purificazione. Le azioni consigliate sono le austerità, lo studio delle scritture e gli atti
compiuti come offerta per il Supremo Dio, Ishvara. Il Kriya-yoga è un tipo di Bhakti-yoga nel quale
è presente un’enfasi maggiore per le pratiche ascetiche. La pratica di queste tecniche aiutano a
ridurre la sensazione di sofferenza e di disagio che si prova in questo mondo e aiutano a sviluppare il samadhi.

Ma quali sono gli elementi che causano infelicità? Secondo Patanjali sono l’ignoranza, l’egoismo, la
morbosa voglia di piacere sensuale, la rabbia, l’attaccamento per la vita e la paura della morte. Vediamoli ora uno per uno.

Ignoranza significa credere che una cosa sia in una certa maniera piuttosto che nel modo giusto;
scambiare una cosa per un’altra, insomma. Per esempio credere che l’energia materiale sia permanente
e quindi cercare di godere delle sue offerte è ignoranza; scambiare l’impuro con il puro, la vita
triste con una gaia, ciò che abbiamo con ciò che siamo e anche credere di essere noi Dio.

L’ignoranza è il male fondamentale, in quanto è dovuto all’influenza di questa avidya se le altre fonti di infelicità sono in grado di operare.

L’egoismo è il senso di essere. Quando ci identifichiamo con qualcosa che non siamo (cioè con il
mondo e con gli oggetti che visualizziamo) quello è chiamato falso ego, o egoismo.

Altra fonte di sofferenza è la ricerca dei piaceri mondani, la quale dà origine a un attaccamento
sempre più folle in quanto non si riesce mai a raggiungere una soddisfazione piena e duratura.

L’avversione a ciò che non piace è l’altra facciata della medaglia: attaccamento e repulsione
sembrano due cose diverse, opposte, ma hanno lo stesso valore in quanto interdipendenti. Questa produce ira e odio.

L’attaccamento alla vita e la paura della morte è conseguente a tutti gli altri vizi. Quando si
vuole soddisfazione in questo mondo, naturalmente si è avversi a morire fino a che non si trova
l’oggetto della ricerca. Ha fatto vittime anche fra i saggi più celebri, come se fossimo costretti
dalla nostra stessa natura. Infatti l’anima è eterna, e nella sua identificazione con il corpo non
riesce a capacitarsi che debba morire. L’ignorante non sa che in realtà la morte è solo un uscire da un vestito per indossarne un altro.

Queste sensazioni di infelicità, continua Patanjali, continuano a esistere in noi perchè ci portiamo
dietro, o meglio dentro, quelli che vengono chiamati i samskara. Questi ultimi possono essere
definiti come “impronte qualitative”, e sono quelle impressioni stampate nel corpo sottile che ci
portiamo dietro da un numero imprecisabile di vite. In altre parole, tutto ciò che abbiamo visto,
fatto e provato nelle vite precedenti ci hanno provocato delle impronte di carattere che ci portiamo
sempre dietro, vita dopo vita, corpo dopo corpo, e che ci inducono a comportarci, ad essere, a sentire in un certo modo talvolta anche contro la nostra stessa volontà.

Queste “qualità ereditarie” devono essere annullate, e ciò è possibile solo con la meditazione.
Infatti da queste scaturiscono attaccamenti e giudizi errati che provocano ulteriori sofferenze. Da
lì provengono altre azioni materiali, dalle quali scaturisce il karma. E finchè avremo reazioni da
scontare saremo costretti a rinascere nei vari corpi, condannati a vedere la perfezione allontanarsi.

Ci sono diversi tipi di reazioni: alcune causano una certa gioia, altre tristezza. Ma il saggio
intelligente riesce a percepire che si tratta solo di diversi generi di sofferenza, e quindi p73 le evita, le elimina prima ancora che diano i loro frutti.

Prima di tutto è importante stabilire chi noi siamo. “Colui che vede” (cioè noi, l’anima) non fa
parte del mondo dell’oggetto in visione (la natura materiale). Noi siamo di qualità trascendentale.
In un certo senso gli oggetti del mondo sono fatti per facilitare la liberazione del soggetto che li vive, che li sperimenta, e non per un gioco di identificazione.

Patanjali poi avverte che l’aspirante saggio deve imparare a trascendere le influenze dei tre guna
(sattva, rajas e tamas). In caso contrario non potrà vedere le cose come sono in realtà, ma le vivrà
sempre attraverso il filtro di falsità della mente materiale. Lo Yogi deve sempre ricordare che lo
scopo della vita e di tutto ciò che esiste è la liberazione delle anime e la loro ricongiunzione con
Dio. Questo fine è raggiunto dal saggio, ma rimane un miraggio per coloro che accettano di rimanere avvolti nei tentacoli delle illusioni e delle falsità di maya.

E’ dunque di importanza fondamentale saper collocare nel loro giusto ruolo l’osservante e l’oggetto
osservato. Appena la persona spirituale giunge a disidentificarsi dal corpo, vede sorgere in sè la
vera conoscenza, poi la visione dell’energia spirituale ed infine la liberazione. Come tutte gli
altri, anche questo esercizio discriminativo fra il vero e il falso richiede costanza e determinazione.

Patanjali specifica che è necessario percorrere otto tappe per far sì che l’illuminazione spirituale
diventi possibile, stadi che corrispondono anche a varie discipline. Queste sono: yama, niyama, asana, pranayama, pratyahara, dharana, dhyana e samadhi.

Yama significa astensione, ed è lo stadio in cui lo yogi deve praticare virtù morali, che sono
necessarie per la pulizia della mente e del corpo. Deve essere non-violento, veritiero, onesto,
casto e distaccato. Man mano che procede nel cammino, queste regole non devono essere abbandonate,
ma è obbligatorio che rimangano sempre punti fermi della vita e della coscienza dello yogi.

Niyama è lo stadio successivo in cui si deve coltivare ulteriore purezza del cuore e del corpo.
L’accontentarsi di qualsiasi cosa si abbia (dunque non desiderare altro), l’austerità, lo studio e
il servizio devozionale d’amore a Dio aiutano a costruire una predisposizione mentale positiva che è
importante ai fini della meditazione. I pensieri negativi (quali l’odio, l’invidia e altri
sentimenti simili) conducono lontano dalla meta e devono essere sostituiti. Chi si perfeziona nello
stadio di niyama acquista un profondo disgusto nei confronti del proprio corpo e di quello degli
altri; così il desiderio sessuale scema fino quasi a scomparire. Da questo stato sprigionano la
gioia, il controllo sui sensi e poi la beatitudine. E all’interno del nostro corpo fluisce una
possente energia fisica. In questo stadio acquista fondamentale importanza la recitazione dei suoni
trascendentali (japa) come forma di servizio devozionale al Signore. Attraverso l’intima
sottomissione a Dio si può raggiungere ogni perfezione. Acquisita una profonda pulizia mentale e
fisica, ora lo yogi può cominciare ad affrontare le tecniche meditative vere e proprie. Prima di
tutto è importante sedersi in modo corretto, e questo è materia dello stadio successivo.

Asana significa imparare a sedersi in posizioni corporee stabili e comode. Imparate queste, le
perturbazioni mentali e i fastidi fisici causati dalle dualità (come il caldo e il freddo, la fame e
la sazietà, il buio e la luce) si attenuano, e siamo pronti ad affrontare la meditazione.

A questo punto si deve imparare a controllare il respiro, e questa tappa (o stadio) è chiamata
pranayama. Seduti comodamente in asana di vario genere, si deve passare a controllare l’inspirazione
e la espirazione. I tempi che passano fra l’uno e l’altro devono diventare sempre più prolungati e
sottili, per cui il momento in cui si trattiene il respiro nei nostri polmoni è il terzo stadio del
pranayama. Il quarto momento del pranayama è la contemplazione, durante la quale si avvertono
sensazioni estatiche, qualunque cosa si osservi. A quel punto la luce della piena conoscenza si accende e la mente diventa ancor più idonea alla concentrazione totale.

Poi c’è pratyahara, la rinuncia della mente alle impressioni dei sensi che provengono dalle immagini
sensoriali. Lo Yogi deve rinunciare a provare piacere da qualsiasi cosa che provenga dall’esterno di
sè, che ovviamente sia di natura materiale. A quel punto il controllo sulle influenze del mondo dei sensi è quasi raggiunto.

c) capitolo terzo
Vediamo ora il capitolo terzo, il vibhuti-pada, che riguarda i poteri mistici che si possono
sviluppare grazie alla pratica Yoga. In questo capitolo Patanjali descrive i numerosi poteri (vibhuti) che si possono acquisire grazie al sistema dello Yoga mistico.

Comincia il capitolo continuando la trattazione delle otto tappe. Ora giungiamo alla meditazione vera e propria.

Dharana, infatti, significa concentrazione, e consiste per l’appunto nel focalizzare la mente su un determinato oggetto.

Lo stadio successivo è dhyana, ed è lo sforzo di mantenere ferma la concentrazione.

Si raggiunge samadhi quando la mente diventa un tutt’uno con l’oggetto su cui si medita, con “l’idea” spirituale che è alla base di ogni ente.

Questi ultimi tre momenti possono anche essere considerati un’unica tappa, tanto che vengono
chiamati samyama, il momento in cui la concentrazione diviene esclusiva. Appena conquistiamo il
controllo sulle nostre capacità di isolarci dai disturbi esterni, la sapienza comincia a farsi largo nel nostro intimo.

Se lo compariamo agli altri cinque che lo precedono (yama, niyama, asana, pranayama e pratyahara),
il samyama è uno stadio in cui il praticante si è già rivolto all’interno di sè, ma paragonato al samadhi profondo appare chiaro che non è ancora giunto alla perfezione.

Ora Patanjali previene un tipo di obiezione: non è forse vero che l’atto stesso, lo sforzo di
eliminare le impressioni sottili generate dal karma può causare ulteriori condizionamenti? Il saggio
risponde che l’abitudine di concentrare la mente e di trascinarla in uno stato di pura
consapevolezza, produce qualcosa di molto simile a flusso continuo, privo di interruzioni
qualitative, per cui dopo un pò la mente si acquieta. Con la concentrazione assoluta su un oggetto
la mente si acutizza e diviene ferma, p73 finchè ogni distinzione di forma, tempo e stato
scompaiono. Essere condizionati significa cadere vittima delle trasformazioni che avvengono nella tridimensionalità del tempo (passato, presente e futuro).

Ma cosa si ottiene con questa concentrazione totale su un oggetto? Patanjali risponde:

Dal samyama sulle tre mutazioni temporali scaturisce la conoscenza del passato e del futuro.
Concentrandosi su una parola, sul suo significato e sulla sua pronuncia è possibile comprendere
tutti i linguaggi delle varie forme di vita (umane, animali e anche vegetali). Praticando il samyama
sulle proprie eredità mentali sottili, lo yogi acquista conoscenza delle sue vite precedenti.
Esercitandolo sui segni corporei di un’altra persona, può giungere a conoscerne la mente e la
psiche. Se si concentra sulla propria forma corporea, sparisce la possibilità di percezione
dall’esterno, e lo yogi diviene invisibile. Esistono due tipi di karma: quello che genera frutti
immediati e quello che invece li produce nel tempo. Meditando sul karma (o meglio su adrishta, i
segni karmici visibili dall’esterno) si può predire l’ora della propria o dell’altrui morte.
Meditando sulle virtù si può guadagnare una grande forza, persino quanto il più forte degli animali.
Dirigendo i sensi sottile dentro di noi, si può ottenere la conoscenza dell’occulto. Se ci
concentriamo saldamente sul sole possiamo conoscere il cosmo e il sistema solare, ma se lo facciamo
sulla Luna conosciamo tutto ciò che riguarda le galassie stellari. Praticando samyama sulla punta
del naso, lo yogi acquista conoscenza e controllo della forza vitale, il prana, l’energia che permea
l’intero universo. Con la meditazione sull’ombelico si giunge a poter controllare completamente gli
organi corporei. Chi si sforza di riflettere sull’incavo della gola, ottiene libertà dalle schiavitù
dei bisogni del corpo, come la fame e la sete. Esercitando il samyama sul nervo kurma (che è alla
base della spina dorsale, vicino al plesso sacrale) è possibile guadagnare totale imperturbabilità e
incrollabile sicurezza. Meditando sull’aureola che emana dal capo, si ottiene la visione e il
contatto con le anime liberate. Attraverso l’illuminazione, che è uno stato di completa conoscenza,
si ottiene il raggiungimento di ogni conoscenza potere e saggezza. Concentrando l’attenzione sul cuore, si raggiunge la conoscenza del pensiero altrui.

Ma, afferma Patanjali, tutti questi poteri non devono confondere lo yogi; il giusto scopo finale,
infatti, non è di diventare potenti in questo universo materiale, il quale è il reame dove maya
esercita il proprio dominio. Solo dalla meditazione sulla qualità spirituale dell’anima si può
trarre la conoscenza perfetta del Purusha, del Dio Personale. Da questa realizzazione sorge la luce
suprema da cui procede la percezione del mondo spirituale. Certo, continua Patanjali, la
manifestazione di questi poteri è sintomo che la pratica è corretta, ma allo stesso tempo possono
essere un impedimento alla “trance” estatica, in quanto lo yogi può attaccarsi al senso di potenza che ne deriva.

Poi il saggio va avanti a descrivere altre vibhuti.

Per uno yogi è possibile penetrare nel corpo di un altro. Conquistando il respiro chiamato udana,
gli è possibile camminare sull’acqua, diventare insensibile al dolore e può anche abbandonare il
proprio corpo nel momento che considera più opportuno. Una luce soffusa circonda il praticante nel
momento in cui giunge a controllare il respiro chiamato samana. Praticando samyama sullo spazio (o
etere, akasha), lo yogi sviluppa un udito perfetto e senza limite alcuno. Esercitando la ferrea
concentrazione sulle relazioni sottili che intercorrono fra il proprio corpo e lo spazio etereo, lo
yogi diventa leggero e può levitare fino ad attraversare il cielo. Si può raggiungere uno stato di
conoscenza priva di veli quando ci si concentra sulle onde mentali extracorporee. Praticando samyama
sugli elementi materiali e sulle loro funzioni si raggiunge il dominio sugli elementi che compongono
il corpo; perciò egli può ridursi fino a diventare piccolo come un atomo, oppure ingigantirsi a
piacimento, o fare del proprio corpo ciò che vuole. Glorificandolo, si raggiunge la bellezza e il
vigore. Dal samyama sui sensi consegue il dominio degli stessi; dunque, tra le altre cose, è
possibile spostarsi con la velocità del pensiero, trasformare un oggetto in un altro e governare i
fenomeni della natura. Grande sapere e potere sono i frutti del samyama esercitato sulla distinzione
fra Purusha (soggetto spirituale) e sattva (oggetto materiale). Ma, ammonisce ancora Patanjali, solo
distaccandosi da questi poteri è possibile l’eliminazione del seme dell’interesse personale e raggiungere la liberazione.

Ma ci sono altre tentazioni contro le quali il saggio mette in guardia i suoi studenti. Quando il
praticante diviene potente, i Deva vengono da lui e lo invitano a gioire delle favolose delizie dei
loro pianeti. Chi cade in questa trappola, dopo un certo periodo di tempo deve lasciare quei
paradisi e ricadere nel circolo vizioso della materialità grossolana. Per evitare questi pericoli si
deve meditare sullo scorrere del tempo e ottenere così la consapevolezza della Verità Suprema come
qualcosa che è al di là di ogni aspetto di questo mondo. Allora si realizza la differenza tra il
reale e l’irreale. Quella conoscenza che dà la liberazione nasce dalla discriminazione (appunto tra il vero e il falso).

Studiando e praticando la dimensione della Purezza Assoluta (Dio, Ishvara, Purusha) è possibile raggiungere la liberazione finale.

d) capitolo quarto
Vediamo ora il capitolo quarto, il kaivalya-pada, che riguarda il raggiungimento della liberazione.

Patanjali comincia questo quarto e ultimo capitolo concludendo il precedente, e dicendo che è
possibile che qualcuno possegga questi poteri mistici anche per nascita (cioè da una eredità di
pratiche yogiche svolte in qualche vita precedente), mediante droghe (ma il loro effetto è
estremamente circoscritto nella qualità e nel tempo), grazie alla concentrazione sulla recitazione di mantra, e anche attraverso le austerità e il samadhi.

Poi introduce l’argomento della liberazione, spiegando che il passaggio da un corpo all’altro accade
per l’azione della natura materiale. E’ lei infatti che concede i risultati delle azioni, le quali
non sono le cause dirette, ma solo e sempre secondarie. Chi desidera avanzare nella vita spirituale,
deve eliminare gli ostacoli che si frappongono fra lui e il suo fine, proprio come un contadino che
rimuove gli ostacoli per facilitare il cammino p73 dell’acqua in direzione dei campi.

L’azione della mente può essere uno di questi ostacoli. In questo mondo illusorio le menti procedono
dal falso ego, il quale (lo ricordiamo) è l’identificazione con qualcosa che non si è. Ogni essere
vivente ha una propria mente, ma la sorgente originale di tutte queste è una sola, e può
controllarle tutte. Solo coloro che meditano sul Supremo sono liberi da ogni desiderio insano.

Le attività di uno yogi realizzato non sono nè positive nè negative, bensì trascendentali, mentre
per le persone comuni possono essere buone, cattive o di natura mista. In questa vita noi non
possiamo essere nulla di diverso da una conseguenza del karma accumulato nelle vite precedenti. Non
importa dove e come si nasca, all’esterno siamo un effetto di cause passate. E questo processo non conosce inizi, in quanto è provocato dai desideri, che sono eterni.

Dunque, come è possibile liberarsi da questa schiavitù? Essendo legati fra di loro in una stretta
relazione di causa ed effetto, questi ultimi (gli effetti) svaniscono quando scompaiono le cause.

Proprio per questa ragione, il passato, il presente e il futuro sono indissolubilmente legati fra di
loro. In realtà anche il passato e il futuro sono già presenti, sebbene la loro attualizzazione
abbia luogo in momenti diversi. Così come per i diversi tipi o qualità di desideri, anche i tre momenti (passato, presente e futuro) risentono dell’azione dei guna.

La percezione delle cose e delle situazioni sono soggettive. Infatti, variando secondo leggi
precise, mantengono tuttavia sempre la stessa essenza. Ogni cosa è vista in modo differente
dipendendo dal soggetto che la osserva, in quanto le esperienze sensibili sono dovute dalla
“colorazione” che la mente subisce quando giunge a contatto con l’oggetto in questione. Infatti la
stessa pietanza può apparire buona a una persona, e sgradevole a un’altra. Non è che esiste una
mente sola per tutti. Ma la mente suprema dalla quale scaturiscono tutte le menti individuali è Una, ed è quella del Signore.

Egli è il conoscitore delle modificazioni della mente e mai Egli stesso le subisce. La mente
dell’anima individuale non brilla di luce propria, dal momento che essa stessa è percettibile. Il
jivatma (l’anima individuale) e il Paramatma (l’Anima Suprema, Dio) sono entità diverse, non sono un
tutt’uno. La mente è materiale e il Paramatma è spirituale. Se noi possedessimo un’altra mente che
illuminasse e conferisse vita alla nostra (teoria che vorrebbe togliere esistenza a un Purusha
supremo), si genererebbe un processo a regressione infinita che provocherebbe solo confusione di
memoria e cancellerebbe ogni percezione. Ma Ishvara è perfetto nella consapevolezza di sè e di tutto
il resto, per cui quando una mente si accosta a Lui si purifica e acquista perfetta coscienza della
propria natura spirituale. Così raggiunge la saggezza. Illuminata dal Signore Supremo, è nella
giusta posizione per poter conoscere ogni cosa. Sempre spinta all’azione da innumerevoli desideri,
sempre attratta a qualche obiettivo, la nostra attenzione deve invece dirigersi verso il Purusha.

In questo stato di purificazione, il potere di discriminazione si consolida, e diventa automatico
rifiutare l’identificazione dell’io con il non-io. In altre parole, capisce che il sè è di natura
spirituale e non materiale. Man mano che la capacità di discriminare si perfeziona, la natura divina
che è nostra si avvicina, e la nostra mente non può più fare a meno di viaggiare in quella direzione fatata. E raggiunge kaivalya, la liberazione finale.

Gli ostacoli, ribadisce il saggio Patanjali, sono dunque costituiti dai pensieri che scaturiscono
dalle impressioni delle azioni e dalle abitudini passate. Distruggere quei pensieri di natura
materiale equivale a sconfiggere l’ignoranza. Con il consolidarsi della perfetta discriminazione e
con il conseguente risveglio dei poteri mistici, si entra in uno stato di assoluta concentrazione spirituale. E qui ogni sofferenza ed ansia conosce la sua fine.

Quando l’impurità e il velo dell’illusione sono spazzati via, la conoscenza si dirige verso
l’infinito e tutti gli oggetti di conoscenza facente parte di questo mondo perdono ogni importanza.
Avendo raggiunto lo scopo ultimo e vero della vita, i mutamenti causati dalle influenze della natura
materiale giungono al termine. Non c’è più il passato e il futuro, tutto esiste in un illimitato presente, e le dualità hanno cessato di influenzare.

Solo allora otteniamo la nostra posizione trascendentale originale, dotati di un corpo composto di elementi spirituali, parte dell’energia superiore del Purusha.

3) Alcune riflessioni

Come ogni testo classico della filosofia indiana, lo Yoga-sutra ha beneficiato (e in troppi casi si
dovrebbe dire subito) numerosissimi commenti. Da questa breve esposizione dovrebbe risultare chiaro
a tutti come lo Yoga non è un sistema a se stante, ma una sezione, una disciplina della scienza
vedica. Questa infatti è perfettamente in linea sia con i significati che con le conclusioni
corrette dei Veda (il Vedanta), sia con il Sankhya, il Mimamsa e con tutti gli altri.

Lo Yoga è un processo completo, che comprende in un unico sistema due aspetti importanti della
pratica necessaria alla liberazione, e cioè uno Yoga “attivo” (Kriya-yoga), che prende in esame le
azioni esterne necessarie alla purificazione, e uno Yoga meditativo (Raja-yoga), composto di
concentrazioni, di raccoglimenti, di recitazione di suoni sacri (mantra) e altro. E bisogna ribadire come tutto ciò sia in linea con i testi vedici.

E’ chiaramente espressa l’idea di un Dio personale (Ishvara o Purusha), così come lo è il principio di una jiva di natura spirituale che è differente dall’Origine di ogni cosa.

Qualcuno potrebbe far notare che alcuni aspetti sono stati approfonditi maggiormente di altri, come
quelli riguardanti il controllo della mente, le pratiche di purificazione necessarie alla
meditazione, mentre certi sono stati sfiorati solo marginalmente. E questo, secondo gli avversari,
potrebbe giustificare una collocazione del sistema di Patanjali in un contesto non vedico. Ma non è
così. Le differenze fra i vari sistemi è perfettamente normale. Lo Yoga è un Darshana, una
prospettiva diversa dello stesso Oggetto di analisi, che è Dio, l’Essere Supremo. Se ogni libro
dicesse esattamente le stesse cose e prendesse in considerazione allo stesso modo ogni argomento, perchè scriverne più di uno?

Qualcuno dice che lo Yoga-sutra non è un testo filosofico, ma esclusivamente pratico. Certo, la
parte dedicata alle discipline è rilevante, ma affermare che non contenga filosofia è quanto meno
esagerato, se non falso. Ripetiamo: ogni Darshana indiano è come un capitolo di un stesso libro, e
persegue lo stesso fine. Lo Yoga-darshana ha una sua funzione precisa, che è quella di indicare i
mezzi e le ragioni della purificazione del sè. Ma i tratti filosofici in comune con gli altri risultano evidenti agli occhi di chiunque voglia vedere.

Come spesso è accaduto nella storia della filosofia dell’India, le differenze nei canoni
fondamentali non sono dovuti all’autore originale ma ai suoi commentatori. In questo modo lo Yoga è
divenuto preda di atei la cui sola intenzione è di sviluppare poteri mistici, di impersonalisti che
vogliono fondersi nel Brahman Assoluto e privo di qualità (nirguna) e, ai giorni nostri, di persone
banali che l’hanno commercializzato per ottenere stupidi vantaggi materiali, quali dimagrire o aumentare le proprie capacità sessuali.

Ma lo Yoga è ovviamente ben altro.

di Manonath Dasa
Accademia Vaishnava http://www.isvara.org

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