La musica nelle teorie del Settecento – 2

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La musica nelle teorie del Settecento – 2

3.2. Proporzioni matematiche e suoni singoli

Dopo aver preso in considerazione i rapporti armonici fra più note e la natura del suono in
generale, passiamo ora ad analizzare in qual modo nelle fonti di Kant si discuta della natura di una
singola nota e del suono a essa corrispondente; la separazione fra lo studio dei rapporti fra una
molteplicità di note e lo studio di una nota singola è, del resto, un dato costante sia nelle
ricerche estetiche sia nelle indagini acustiche del Settecento. In base a questa distinzione sono
concepite le annotazioni di Johann Georg Sulzer nella Untersuchung del 1773, nelle quali si rileva
che mentre una sensazione composta risulta da molteplici sensazioni singole – le note di più corde
sono unite in un accordo – le sensazioni semplici, come ad esempio un solo suono, sono causate da
ripetute impressioni di uguale forza (cfr. Sulzer 1773, pp. 56-58). Negli Anfangsgründe der
theoretischen Musik [Primi principi di musica teorica] di Marpurg i suoni sono oggetto di studio
dell’acustica sia sotto il profilo della loro natura fisica, sia nei loro rapporti matematici (cfr.
Marpurg 1757, pp. 1-2). Nel Philosophisches Lexikon [Lessico filosofico] di Walch si afferma che la
dottrina del suono o della nota musicale offre occasione alla fisica di occuparsi della musica,
della sua essenza e dei suoi effetti (Walch 1775, p. 197); la musica è oggetto dell’acustica, parte
della scienza della natura. Questa suddivisione è presente anche in Wenceslaus Johann Gustav
Karsten, il quale distingue i fondamenti fisici della musica dalla teoria matematica, dal calcolo
dei suoni dell’organo e del pianoforte (Karsten, Kenntniß der Natur [Conoscenza della natura],
ristampato in AA XX, p. 244. Sulzer 1773, p. 67. Sulzer 1773, pp. 56-58).

Nell’Inchiesta sul Bello e il Sublime, tradotta nel 1773 in tedesco da Christian Garve con il titolo
Philosophische Untersuchungen über den Ursprung unsrer Begriffe vom Erhabnen und Schönen sul testo
della quinta edizione inglese, Edmund Burke esamina i suoni e la loro funzione nella genesi dei due
sentimenti in questione, seguendo un metodo dichiaratamente fondato sull’esperienza e
sull’essenziale considerazione del rapporto fra mente e corpo. Il bello e il sublime sono ricondotti
ai due sentimenti dell’autoconservazione e della socievolezza; mentre il bello produce rilassamento
nelle fibre del corpo, il sublime genera tensione; se il bello dà luogo al piacere, il sublime porta
con sé inevitabilmente dolore perché è simile al terrore, anzi è un piacere misto a terrore. Il
capitolo XXV della Parte terza assegna ai suoni soavi, dolci e delicati e a note chiare, piane,
facili e smorzate il privilegio della bellezza, laddove suoni alti e intensi o note acute, aspre o
cupe possono suscitare altre passioni. Si nota che la bellezza non può coesistere con la grande
varietà e il rapido passaggio da una misura o da un suono a un altro, perché essi non suscitano
rilassamento, intenerimento e languore, ma allegria o altre improvvise e tumultuose passioni; la
bellezza non è gaiezza e allegria, ma malinconia (Burke 1985, p. 138). La distinzione tra l’effetto
di un suono semplice e quello di una successione di suoni è trattata nel capitolo XI della Parte
quarta; nel primo caso l’orecchio è colpito da una sola onda d’aria, la quale produce una vibrazione
nel timpano e nelle altre parti membranose. Alla vibrazione corrisponde un grado di tensione, alla
vibrazione ripetuta corrisponde l’attesa di un’altra vibrazione che determina un’ulteriore tensione.
Dopo avere udito una serie di vibrazioni ne attendiamo altre; poiché non possiamo determinare con
esattezza quando esse giungeranno nasce in noi una specie di sorpresa che determina un’ulteriore
intensificazione della tensione sino all’orlo del dolore; si genera in tal modo il sentimento del
sublime. Condizione affinché si realizzi questo effetto è che le vibrazioni siano simili, come
spiega il capitolo XII; l’esempio che a Burke pare meglio dare un’idea di questo processo fisico è
quello dato dai colpi ripetuti di un cannone (Burke 1985, pp. 149-150).

Diversa l’impostazione di Leibniz. Nel § 17 dei Principes de la nature e de la grace di Leibniz la
bellezza della musica è ricondotta alla corrispondenza fra i suoni e il calcolo che si compie nella
nostra anima senza che ne siamo consapevoli. La musica ci procura diletto sebbene la sua bellezza
non consista in altro se non nella corrispondenza fra numeri e calcolo inconscio compiuto dall’anima
al momento del risuonare delle vibrazioni. La gioia che l’occhio prova per le proporzioni è analoga
a quella dell’udito e anche i piaceri degli altri sensi dovrebbero derivare dal medesimo fondamento,
sebbene non siamo in grado di spiegarlo con la medesima evidenza. I sensi dell’udito e della vista
sono radicalmente distinti dagli altri, poiché solo vista e udito provano diletto e gioia per le
proporzioni e per la corrispondenza fra i numeri che possono essere spiegati in modo evidente:
avvertire la bellezza della musica è un’occulta attività di calcolo dell’anima.

Si sofferma a lungo sul problema del singolo suono Leonhard Euler. Nel 1750 aveva già pubblicato la
Conjectura physica circa propagationem soni ac luminis, contenuta poi anche negli Opuscula editi in
tre volumi nel 1746, 1750 e nel 1751. Nel contesto delle ricerche dedicate alla scienza
dell’acustica la spiegazione matematica della musica è distinta dall’indagine sui suoi fondamenti
fisici. Questa distinzione fra analisi dei rapporti fra suoni e analisi delle singole sensazioni è
presente nelle Lettere, in cui il discorso prende le mosse dalla spiegazione fisica dei singoli
suoni musicali per soffermarsi poi sullo studio della connessione fra più suoni. Nella Terza
lettera, prima di esaminare il suono musicale si dà una definizione della natura del suono in
generale; se nell’antichità si credeva che il suono si propagasse come il profumo di un fiore che
eccita i nostri nervi olfattivi con lievi esalazioni, Euler è dell’avviso che la natura del suono
consista nel fatto che le vibrazioni prodotte da una corda sono portate dall’aria sino al nostro
orecchio; la sensazione del suono si ha quindi quando l’orecchio è colpito dalle vibrazioni
dell’aria. E ciò non vale solo per il suono in generale [Schall] ma anche per i suoni musicali in
particolare [Ton]: la differenza fra suoni [Töne] deriva dalla diversità del numero delle vibrazioni
nell’aria.

Così se una corda produce 100 vibrazioni al secondo e un’altra 200, i loro suoni saranno
essenzialmente diversi: il primo sarà più grave o più basso, l’altro invece più acuto o più alto
(Euler 1769, I, p. 9; Eulero 1958, p. 11).

Quando ascoltiamo un singolo suono musicale il nostro orecchio è colpito da una successione di
vibrazioni equidistanti l’una dall’altra, che si succedono cioè con frequenza regolare; la
sensazione di un suono, quindi, può essere raffigurata come una successione di punti equidistanti
tra loro. Supponiamo però che gli intervalli fra questi punti siano ora più grandi ora più piccoli,
che essi non siano regolari; ne potremo dare una raffigurazione sensibile attraverso una serie di
punti che non si trovano a distanza regolare fra loro; ad essi corrisponderà la sensazione acustica
di un rumore confuso e disarmonico (cfr. Euler 1769, I, p. 10). Il suono coincide per Euler con una
serie di vibrazioni che colpiscono il nostro orecchio, vibrazioni grazie alle quali si può
determinare la differenza fra suono musicale e semplice rumore. Solo nel primo caso si può cogliere
una regolarità nella successione delle vibrazioni dell’aria, nel secondo la norma, la struttura
regolare sono sostituite dal disordine; esiste quindi una differenza fra suono e suono; solo il
secondo, infatti, si fonda su regolarità e armonia. Se le vibrazioni si succedono con uniformità,
ovvero se gli intervalli sono tutti uguali, il suono è un suono regolare (cfr. Euler 1769, I, p. 9).

Il senso dell’udito è in grado di formulare un giudizio che distingua i suoni l’uno dall’altro;
l’udito non è passivamente esposto alle impressioni che provengono dall’esterno, ma è in grado di
percepire la differenza fra i suoni che si susseguono nel tempo. Il nostro orecchio ha però limiti
oltre i quali i suoni non sono più percepibili: pare, infatti, che non riusciremmo più a sentire un
suono con meno di 20 vibrazioni per secondo, perché troppo basso, né un suono con più di 4000
vibrazioni, perché troppo acuto (cfr. Euler 1769, I, p. 10; Eulero 1958, p. 11).

Anche in questo caso Euler rifiuta la tesi leibniziana che si dia un calcolo inconsapevole
dell’anima; egli considera con riserva l’equiparazione dell’udito musicale ad un esercizio di
calcolo del quale il soggetto non sarebbe consapevole. Nella Lettera 134 scrive però che, sebbene
non si possa negare che il nostro organo della vista non sia in grado di contare numeri complessi,
meno ancora di quanto l’orecchio sia in grado di contare le vibrazioni che costituiscono i suoni, si
deve anche ammettere che siamo sempre in grado di distinguere distintamente il più e il meno (cfr.
Euler 1769, II, p. 224; Euler 1958, p. 473).

“Dei fondamenti della musica” trattano i paragrafi 280-300 degli Anfangsgründe der Naturlehre (1772)
di Johann Christoph Polykarp Erxleben (cfr. AA XI 204, 253, 302, 428). Fra gli “scritti
sull’acustica e la musica teoretica” Erxleben cita le seguenti opere:

Claudii Ptolomaei harmonicorum L. III per Ioann. Wallis, Oxon. 1682, 4.; 2) Marin Mersenni
harmonicorum L. XII, Parip. 1635, fol. 3) Athan. Kircheri musurgia universalis sive ars magna
consoni et dissoni, Rom. 1650, fol.; 4) Systeme general des intervalles des sons, et son application
à tous les systemes et à tous les instrumens de Musique, par M. Sauveur; in den Mem. de l’acad. roy.
des sc. 1701, pag. 297; 5) Tentamen novae theoriae musicae, auctore Leon. Eulero, Petrop. 1739, gr.
4; 6) Coniectura physica circa propagationem soni ac luminis, auctore leon. Eulero, Berol. 1750, 4;
ist der zweyte Band von seinen Opusc; 7) Harmonics, or the philosophy of musical saunds, by Rob.
Smith, Cambridge, 1749, gr. 8; 8) Recherches sur la nature et la propagation du son, par M. Louis de
la Grange, in den Miscellan. turinenp. Tom. I, pag. I; 9) Eclaircissemens plus detaillés sur la
generation du son et la propagation du son et sur la formation de l’echo, par M. Euler; in den Me.
de l’acad. roy. des sc. de Pr. 1765, pag. 335.

Pur notando che è difficile stabilire con certezza quali suoni il nostro udito possa distinguere, il
§ 297 cerca di definire i limiti entro i quali le note sono percepibili e dà informazioni sulle
ricerche condotte all’epoca. I limiti sono calcolati sulla base della capacità di percepire un
determinato numero di vibrazioni in un secondo. Su questo tema non si sarebbe ancora arrivati,
secondo l’autore, alla chiarezza, poiché Sauveur ha considerato la nota più bassa udibile da
orecchio umano come quella nella quale le parti dell’aria compiono 12 vibrazioni in un secondo; otto
ottave sarebbero quindi percepibili dal nostro udito. Euler indicava invece, in una prima fase del
suo pensiero, 30 vibrazioni per il suono più basso e di 7520 per quello più alto, mentre più tardi
avrebbe proposto rispettivamente le cifre 20 e 4000, con la conseguenza che, a suo avviso, i suoni
udibili avrebbero costituito all’incirca otto ottave (cfr. Erxleben 1772, pp. 238-239). Anche nel
Physikalisches Wörterbuch [Dizionario di fisica] di Gehler si sottolinea che l’udito è un senso
particolarmente fine e lo si adduce a principio non ulteriormente esplicabile, come una sensazione
che non si può descrivere a parole (cfr. Gehler 1798, vol. IV, p. 376).

Questa spiegazione è ripresa da Johann Georg Sulzer. Sebbene un suono sembri al primo sguardo
un’impressione ininterrotta che colpisce i nervi, ricerche fisiche hanno dimostrato che questo
effetto ininterrotto è in realtà una successione di sollecitazioni e di vibrazioni separati l’uno
dall’altro, benché ogni suono racchiuda in sé una molteplicità di impressioni. L’apparenza di una
durata ininterrotta deriva dal fatto che le vibrazioni dell’aria si susseguono così velocemente che
non siamo in grado di avere consapevolezza dell’esistenza di un intervallo che le separa; in realtà
ogni singola sensazione deriva da una grande quantità di sensazioni istantanee. Fino a questo punto
Sulzer ha sviluppato, sul modello di Euler, una spiegazione fisica dei suoni; poiché però il suo
fine non è formulare una teoria riguardante le sensazioni fisiche, ma compiere una ricerca sulle
sensazioni piacevoli e sulla loro differenza da quelle spiacevoli, si rivela interessante che questa
teoria fisica sia completata da una sua applicazione all’estetica. Quale è la radice della
piacevolezza dei singoli suoni? I suoni saranno piacevoli se le diverse vibrazioni che li compongono
si susseguiranno a intervalli regolari e si potranno rappresentare intuitivamente all’occhio come
una serie di punti collocati l’uno accanto all’altro in linee rette e alla medesima distanza.

Non sono mancati coloro che non hanno notato la complessità dei suoni singoli; per Mendelssohn le
impressioni provenienti dalla vista e dall’udito sono sensazioni che non hanno valore di verità,
perché la verità può essere ricavata dai sensi in base a principi razionali universali. L’udito e la
vista procurano sensazioni singole cui non si può dare completamente fiducia, essi ingannano e non
riescono a formulare una comprensione evidente delle cose. Ciò che noi udiamo e vediamo è colmo
della medesima confusione ed oscurità di tutto ciò che i corpi esterni ci insegnano attraverso gli
altri sensi. Non si può scorgere in Mendelssohn alcun tentativo di spiegare i suoni dal punto di
vista fisico come gioco armonico di molteplici vibrazioni (JA, 1, 51).

3.3. Suoni e colori. Il clavicembalo oculare di Castel

Locke narra nel terzo libro del Saggio che uno studioso cieco che per molto tempo aveva indagato gli
oggetti visibili, e si avvaleva di spiegazioni trovate nei libri o presso amici per comprendere i
nomi della luce e dei colori, si vantò un giorno di aver finalmente compreso che cosa significasse
“scarlatto”. Ad un amico che gli chiedeva come potesse definirlo il cieco rispose: “È come il suono
di una tromba” (Locke 1996, III, 4, 11, pp. 497-498). A prescindere dal contesto entro il quale
l’esempio si inserisce, è per noi rilevante che Locke prospetti un’analogia fra i colori e i suoni.

Fra il 1725 e il 1735 il matematico francese Louis Bertrand Castel (1688-1757) presentò l’idea di
una musica dei colori e il progetto di un clavicembalo oculare in due scritti, apparsi il primo nel
“Mercure” e il secondo nel “Journal de Trévoux”. Ritornò sul tema con il testo Optique des couleurs,
pubblicato a Parigi nel 1740, tradotto in tedesco nel 1747 con il titolo Die auf lauter Erfahrungen
gegründete Farben-Optica [L’ottica dei colori fondata su mere esperienze] Il fondamento di questa
perfetta analogia fra colori e suoni che induce all’idea di un clavicembalo oculare, all’idea che
sia possibile realizzare con esso un’arte affine alla musica è dato dalla convinzione che i colori
si muovano in cerchio come i suoni musicali. Krüger scrive: “Queste considerazioni hanno fatto
nascere in me una volta l’idea che anche gli altri sensi seguano nella valutazione del piacevole le
medesime leggi dell’udito e ho trovato che almeno per quanto concerne la vista non mi sono sbagliato
poiché le regole della simmetria richiedono i medesimi rapporti delle consonanze musicali e gran
parte della bellezza del corpo umano riposa proprio su questo fondamento. Ciò mi ha dato la speranza
di trovare un modo di poter dilettare gli occhi con i colori analogo a quello con cui si diletta
l’udito. Alla fine ho escogitato un clavicembalo oculare che è descritto negli scritti
dell’Accademia di Berlino ed è completamente diverso da quello che ha fatto realizzare il padre
Castel” (1748, I, pp. 373 sgg. Cfr. anche Krüger 1743; Buffon 1748, p. 428; Wellek 1935; Wellek
1936; l’articolo “Farben- oder Augenclavecin”, in Walch 1775, I vol., pp. 1242-1243). L’analogia
emerge dunque chiaramente dagli scritti di Castel e la vivace partecipazione al dibattito suscitato
(cfr. Wellek 1935, p. 369) si può documentare in numerosi autori; le idee di Castel furono discusse
da Wolfgang Krafft, Christoph Mizler, Moses Mendelssohn, Denis Diderot (cfr. Diderot 1984, pp.
26-27).

L’analogia fra suoni e colori, vista e udito, suono e luce non è una prerogativa di Castel, ma è
accettata anche da Euler, il quale però sottopone a critica l’idea di un clavicembalo oculare.
Castel, che costruì un pianoforte in cui ogni tasto, non appena toccato, faceva apparire un pezzetto
di stoffa tinto di un determinato colore, credeva che questo strumento potesse offrire uno
spettacolo molto piacevole agli occhi. Euler crede invece che solo la pittura possa offrire qualcosa
di gradevole agli occhi, analogo alla musica per l’orecchio; non riesce a comprendere come una serie
di pezzi di stoffa colorati, presentati in un certo ordine e corrispondenti ciascuno ad un tasto del
clavicembalo, possa essere piacevole per gli occhi (cfr. Euler 1769, I, p.108; Euler 1958, p. 109).

Per spiegare come corpi opachi possano diventare visibili Euler rinvia, nella Nova theoria lucis et
colorum, ai casi in cui la corda accordata su una determinata nota emette un suono, benché nessuno
la tocchi, quando qualche strumento emette la medesima nota (cfr. anche Euler 1769, I, p. 89). Si
tratta del fenomeno della simpatia dei suoni che è descritto come segue, ad esempio da Marpurg: “In
dem Zurückprallen und Mitklingen der Töne hat dennoch die sogenannte Sympathie der Tone ihren Grund,
vermöge welcher eine klingende Seyte die andere nicht allein zittern, sondern auch öfters
mitklingend macht” (Marpurg 1757, p. 11). L’analogia, si fonda in Euler sulla teoria ondulatoria
della luce formulata da Euler richiamandosi a Cartesio: la luce è un movimento ondulatorio
dell’etere ed è analoga al suono, il quale può essere definito un movimento ondulatorio dell’aria
(cfr. Euler 1746, p. 184; cfr. anche pp. 171-172). Euler approfondisce questo tema nella Lettera 136
in cui spiega in che modo i corpi opachi ci divengono visibili. I corpi colorati sono simili alle
corde di un clavicembalo e i vari colori ai vari suoni, differenti per la loro acutezza e per la
loro gravità. La luce da cui questi corpi sono illuminati è analoga al rumore cui il clavicembalo è
esposto; come questo rumore agisce sulle corde, così la luce da cui un corpo è illuminato agirà
sulle più piccole particelle della superficie di questo corpo, e queste particelle, fatte così
vibrare, emetteranno raggi proprio come se fossero luminose, non essendo la luce altro se non il
movimento vibratorio delle più piccole particelle di un corpo comunicato all’etere, che,
successivamente, lo trasmette agli occhi (cfr. Lettere 19-30, 134-136; Euler 1958, p. 480). Abraham
Gotthelf Kästner redasse un estratto pubblicato nel 1750 nello “Hamburgisches Magazin” della teoria
della luce e dei colori di Euler, in cui ricorda che secondo Euler in una ottava è compreso un
numero notevole di suoni, dei quali solo alcuni ricevono un nome specifico dai conoscitori della
musica; analogamente nei colori semplici sono contenuti, nello spazio compreso fra la vibrazione più
lenta e quella più veloce, innumerevoli altre vibrazioni, ad alcune delle quali si potrebbe
attribuire un nome determinato, mentre le altre acquisiscono il nome di quelle cui più si avvicinano
(cfr. Kästner 1750, p. 193). Scrive Kästner che “i colori semplici sono analoghi ai suoni semplici
che compiono in un certo periodo di tempo un certo numero di vibrazioni” (Kästner 1750, p. 192; si
veda anche Herz 1787, pp. 170-171).

Nella Einleitung in die Natur-Lehre [Introduzione alla dottrina della natura] nella seconda edizione
del 1754, di Johann Andreas Segner, al § 579 si afferma

che il suono presenta analogie sotto diversi aspetti con la luce, e si può aver l’idea che perfino i
colori siano simili ai suoni. Non è dunque la luce il movimento ondulatorio di una materia elastica,
come il suono non è se non il movimento ondulatorio dell’aria? (Segner 1754, p. 433).

Nel 1772 le Meditationes physicae circa systemata Euleri et Newtonii de luce et coloribus di Carol
Daniel Reusch sottolineano che gli esperimenti di Newton dimostrano, a differenza di quanto
sosteneva Euler, che le vibrazioni non sono isocrone: la luce, quindi, non è simile al suono emesso
da una corda ma al suono di un corpo che provoca rumore (cfr. Reusch 1772, p. 41). Secondo Erxleben,
se si accettasse la teoria di Euler si potrebbe dire che un foglietto sottile e trasparente ha un
unico colore, come una corda tesa emette un unico suono determinato quando è percossa. Mentre Newton
aveva supposto che la luce fosse costituita da corpuscoli che emanano dalla fonte luminosa, Euler,
con il quale Erxleben concorda, concepisce la luce come un movimento ondulatorio simile al suono.
Euler spiega la differenza fra i colori fondamentali in base alla diversa velocità delle vibrazioni
dell’etere; quelle più veloci sono interrotte in misura minore di quelle più lente. I colori sono
per l’occhio, a suo avviso, quello che le note sono per l’udito: il violetto è la nota più grave, il
rosso la nota più acuta, il bianco un chiasso disordinato. In tal modo l’idea di un clavicembalo
oculare diventa molto verosimile (cfr. Erxleben 1772, p. 298).

Christoph Friedrich Hellwag (1754-1835), corrispondente di Kant, pubblica sul “Deutsches Museum”
dell’ottobre 1786 un saggio da lui inviato successivamente, sotto forma di estratto, a Kant in
allegato a una lettera scritta dopo la pubblicazione della Critica del Giudizio. Hellwag mostra in
un breve excursus storico che l’analogia fra suoni e colori è stata già prospettata da Kircher,
Newton e Castel. Il tentativo di Castel di “rappresentare accordi e melodie di colori su un
clavicembalo oculare” è giudicato però in modo negativo: Castel muove, infatti, dalla convinzione
errata che colori e suoni possano essere comparati l’uno con l’altro sino a riconoscerne la perfetta
analogia. Per Hellwag non si può certo negare che colori e suoni palesino una affinità sotto
molteplici aspetti; luce e suono rimangono però diversi. Contro Kircher, Newton, Castel e Euler,
Hellwag si richiama al principio della “mescolanza” dei suoni e dei colori: tanto i colori quanto i
suoni possono essere comparati e distinti a partire dalla mescolanza in cui si presentano
abitualmente e che è ignorata quando li si dispone sulla scala musicale oppure secondo punti
separati dello spazio visivo. I colori possono, però, essere ridotti a cinque fondamentali, mentre
gli elementi base dei suoni sono probabilmente indeterminabili. Possiamo dare una dimostrazione
dell’indeterminabilità facendo riferimento al sistema vocalico nel quale i suoni principali sono le
vocali, mentre gli altri sono disposti in posizione intermedia fra di essi; nei dittonghi sono
espressi tutti i gradi intermedi fra le due vocali che li compongono, cosicché essi risultano
mescolanze di suoni analoghe ai giochi cromatici delle bolle di sapone. La vista ha una maggior
varietà rispetto all’udito: mentre la scala musicale ha solo una dimensione, il campo visivo ne ha
due e il gioco prospettico è certo più ampio rispetto a quello della scala musicale (cfr. Kant 1990,
pp. 248-249).

4. Musica e cultura del gusto

Non è possibile trattare qui in modo particolareggiato il dibattito nato intorno alla metà del
Settecento sul valore delle arti in relazione alla promozione dei costumi; ci limiteremo ad indicare
le soluzioni antitetiche proposte da Rousseau, da Home, da Hume e da Sulzer, le cui opere furono ben
note a Kant. Per Rousseau le arti ingentiliscono le nostre maniere e insegnano alle nostre passioni
un linguaggio ricercato; nate dall’ozio e dalla vanità portano con sé il lusso, la dissolutezza dei
costumi e la corruzione del gusto (si veda Rousseau 1970, pp. 209-237). Hume rileva invece nella
musica come nelle altre arti liberali la capacità di affinare la nostra sensibilità per le passioni
tenere e gradevoli, rendendo la mente incapace di emozioni rozze e violente. Hume cita un verso di
Ovidio: “Ingenuas didicisse fideliter artes /emollit mores, nec sinit esse feros” (“L’avere appreso
fedelmente le arti belle / addolcisce i costumi e non permette di essere feroci”). Come le altre
arti, la musica sottrae la mente alla concitazione degli affari e degli interessi, alimenta la
riflessione, dispone alla tranquillità e produce una piacevole malinconia, la quale, fra tutte le
disposizioni della mente, è la più consona all’amore e all’amicizia. In secondo luogo, la
delicatezza del gusto è favorevole all’amore e all’amicizia in quanto limita la nostra scelta a
poche persone e ci rende indifferenti alla compagnia e alla conversazione della maggior parte degli
uomini (cfr. Hume 1994, p. 72).

Più esplicitamente, la Prefazione alla prima edizione della Teoria generale delle belle arti di
Sulzer attribuisce alle arti belle il merito di risvegliare un sentimento per il bene morale e
un’avversione per il male. Le belle arti possono esercitare questa azione di perfezionamento morale
se il loro unico fine è far sorgere un vivo sentimento del bello e del bene e una forte avversione
per il brutto e il male; anche la musica può causare questi benefici effetti. A riconoscere il
valore culturale delle belle arti è incline anche Henry Home lord Kames, nei suoi Principles of
Critics [Principi della critica]. La prefazione del traduttore contrappone la convinzione di Home,
che una corretta cultura delle belle scienze renda migliore il cuore, all’“errore” di Rousseau, che
aveva insegnato che le belle arti e le scienze corrompono il cuore e le disposizioni morali. Il
gusto per le belle arti e la sensazione morale sono strettamente affini, sostiene Home, poiché
entrambi scoprono ciò che è giusto e ciò che non è giusto. La critica, di cui Home esporrà i
principi, funge quindi come incentivo e appoggio della virtù e nessuna occupazione lega maggiormente
l’uomo ai suoi doveri che coltivare il gusto per le arti belle; un gusto corretto è una perfetta
propedeutica all’apprendimento di ciò che è bello, conveniente, grande nel carattere e nell’azione
(cfr. Home 1763, p. 14). Al capitolo 25 del secondo volume della seconda edizione riveduta e
corretta del 1772, le differenze, che non possono essere certo negate nella valutazione del bello da
parte di esseri umani diversi, sono ricondotte a distinti livelli di raffinamento del gusto. Gli
uomini, originariamente selvaggi e simili a bestie, sono stati indotti da vincoli sociali alla
ragione e alla finezza del gusto. Chi volesse quindi occuparsi del problema delle regole e del
giudizio tanto nella morale quanto nelle belle arti, non dovrebbe far riferimento a idee condivise
in genere dai selvaggi, ma piuttosto al gusto della parte “perfetta” dell’umanità (cfr. Home 1772,
p. 558).

5. Dissonanze e dolori innominati

Se nelle teorie e nelle osservazioni che sono state sinora riferite il discorso verte sul piacere,
si deve attribuire all’illuminista milanese Pietro Verri il merito di aver preso in considerazione
come nella musica si esprima soprattutto un sentimento di dolore. Nel 1777 comparve nella traduzione
tedesca di Christoph Meiners lo scritto Gedanken über die Natur des Vergnügens del milanese Pietro
Verri: la versione dell’edizione italiana del 1773. Nel 1781 Verri estese la sua edizione e le
premise una prefazione nella quale si confrontava con le fonti, riconoscendo il suo debito nei
confronti di una tradizione già esistente. Il piacere non può essere definito se si prescinde dal
dolore; anzi, esso non si presenta con una natura sua propria, ma si rivela essere solo l’improvvisa
cessazione del dolore. Il dolore è quindi l’elemento originario a partire dal quale soltanto il
piacere acquista una configurazione; l’analisi del piacere si trasforma in tal modo in un esame
della natura del dolore. Sia il dolore, sia il piacere che ne può risultare si possono suddividere
in due classi: vi possono essere tanto piaceri fisici, quanto piaceri morali, dolori fisici e dolori
morali. Essi hanno in comune il fatto di non fondarsi su dolori innominati, ovvero su sentimenti la
cui origine non può essere ulteriormente determinata perché non sono esattamente localizzabili. I
dolori innominati si presentano come il fondamento dell’anima, la quale agisce solo per liberarsene;
l’azione umana non deriva, quindi, dalla rappresentazione di un bene non ancora presente che si
cerca di realizzare, ma dalla volontà di placare un originario sentimento di dolore.

Questa definizione si iscrive in un metodo di natura empirica: non la struttura dell’opera d’arte
musicale deve imporsi come oggetto della ricerca, non le regole che possono garantire la produzione
di una bella musica, ma l’aspetto individuale e soggettivo della creazione e del piacere. Il metodo
psicologico che Verri desume da Locke induce alla convinzione che anche l’ascolto dell’arte
musicale, come l’invenzione, deve la sua origine al sentimento originario del dolore: se l’uomo si
trovasse in una condizione di soddisfazione morale e di salute fisica non sentirebbe l’esigenza di
ascoltare musica. Tutte le arti belle hanno per base dolori innominati [nahmenlose Schmerzen], mali
[Uebel] che sono la sorgente dei piaceri più delicati della vita. Se l’uomo è veramente lieto,
soddisfatto e vivace, è insensibile alle arti belle, a meno che la sua sensibilità derivi da
un’abitudine meccanica a riflettere su di esse, oppure la vanità di mostrarsi sensibile non lo renda
ipocrita. L’uomo vigoroso che ha contentezza nel cuore non ha la sensibilità, la quale cresce col
sentimento della nostra debolezza, dei nostri bisogni, dei nostri timori (cfr. Verri-Kant 1998, p.
61).

L’elemento fondamentale della musica è, per Verri, la melodia, che attrae l’essere umano e provoca
in lui un piacere fisico reale generato da suoni dolci (cfr. Verri 1777, p. 66). Non solo un
godimento fisico, ma anche una “elevazione dell’anima” e un “caldo entusiasmo” sono gli effetti
della musica, che si può definire “espressione di molte passioni”. Il risultato è una “completa
illusione”, che dipende dall’immaginazione dell’ascoltatore, alla quale di possono quindi ricondurre
le differenze individuali nei giudizi. La musica è diversa dalla pittura e dalla poesia perché un
dipinto e una poesia possono suscitare un piacere che presuppone un ascoltatore passivo, mentre
nella musica l’immaginazione è attiva (cfr. Verri 1777, pp. 67-68); il ruolo dell’ascoltatore è in
essa molto più rilevante della funzione del compositore; l’ascoltatore, infatti, può scoprire
bellezze ignote al compositore.

A questa definizione generale dello scopo e della funzione della musica si affiancano applicazioni
concrete. Che cosa permette alla musica di svolgere questo suo compito? In qual modo l’ascolto della
musica può liberarci dal sentimento di dolore connesso necessariamente, a partire dalla nascita, con
la condizione umana? Come può la musica suscitare piacere e liberarci dai dolori innominati e dalla
noia? Verri mette in particolare risalto il valore positivo delle dissonanze da cui appunto nasce
quel dolore momentaneo che è, ai suoi occhi, premessa indispensabile del piacere. Le dissonanze sono
un dolore momentaneo che funge da premessa indispensabile del piacere. Una musica composta solo da
consonanze è faticosa, regolare, e non presenta alcun difetto, ma proprio per questo motivo essa non
possiede grazia né attrattiva, né un leggiadro disordine

La grand’arte consiste a sapere con tanta destrezza distribuire allo spettatore delle piccole
sensazioni dolorose, a fargliele rapidamente cessare, e tenerlo sempre animato con una speranza di
aggradevoli sensazioni, in guisa tale ch’egli prosegua ad essere occupato dagli oggetti proposti, e
terminatane l’azione, richiamandosi poi la serie delle sensazioni avute, ne veda una schiera di
piacevoli, e sia contento di averle provate. A tal proposito io osservo che sarebbe intollerabile
una musica, se non vi fossero opportunamente collocate e sparse delle dissonanze, le quali cagionano
una sensazione disaggradevole e in qualche modo dolorosa (Verri 1972, p. 47).

6. Musica e piacere corporeo

Nel XVIII secolo compaiono frequentemente osservazioni riguardanti l’effetto dei suoni sul corpo e
anche su oggetti privi di vita. John Derham riferisce nella Physico Theologie [Teologia fisica] (1741) che esperimenti hanno dimostrato che i suoni, se sono dotati di stabilità e costanza, se cioè
la loro successione rappresenta un continuum temporale, possono esercitare un’azione talmente forte
sui corpi da determinarne la rottura; la semplice voce umana può causare la frantumazione di un
bicchiere di vetro e il suono della musica può danneggiare gravemente il pavimento di una casa.

Mi ricordo che quando raccontai al signor Willis l’esperimento del bicchiere che si era frantumato
per l’effetto della voce umana sentii dire da lui che il pavimento della casa di un musicista suo
vicino era stato spesso danneggiato, cosa che egli non aveva esitato a ricondurre al ripetersi dei
suoni musicali.

Non si tratta di parole di Derham, ma di una citazione da Morhof:

Memini cum ipsi [clarip. Willisio] de experimento Vitri per vocem fracti narrarem, ex eo audivisse,
quod in aedibus Musicis sibi vicinis aliquoties collapsum pavimentum fuerit: quod ispe sonis
continuis adscribere non dubitavit (Morhof 1683, cap. 12; si veda anche Marpurg 1757, p. 12).

Anche Euler scrive:

Anche la storia ce ne fornisce un bellissimo esempio, relativamente ai bicchieri. C’era un uomo che
riusciva a rompere i bicchieri lanciando un grido. Quando gli si presentava un bicchiere, egli ne
esaminava anzitutto il suono, poi cominciava a gridare nello stesso suono, facendo così vibrare il
bicchiere. L’uomo allora, mantenendo sempre lo stesso suono, aumentava con tutte le forze la propria
voce, fino a determinare la rottura del bicchiere, scosso da fortissime vibrazioni (Euler 1958, p.
89, Lettera 26).

E già Boyle notava:

An ancient musician affirmed to me, that, playing on a base viol in the chamber of one of his
scholars, when he came to strike a certain note on a particular string, he heard an odd kind of
jarring noise, which he thought at first had either been casual, or proceeded from some fault in the
string; but having afterwards frequent occasion to play in that same room, he plainly found, that
the noise he marvelled at was made bey the tremolous motion of a casment of a window, which would be
made to tremble by a determinate sound of a particular string, and not by other notes, whether
higher or lower” (Boyle 1685, p. 23, chapt. VII, observ. VI).

La musica agisce non soltanto sulla materia inanimata del bicchiere o di un pavimento, ma anche sul
corpo umano; il mezzo, l’aria, riceve le impressioni dei suoni che sono così recepiti dal senso
dell’udito. Questa analisi induce ad ammettere, per Derham, l’esistenza di un creatore saggio,
onnipotente e buono: come le melodie più belle sono la voce di una creatura vivente, anche il senso
dell’udito è opera di un creatore (cfr. Derham 1741, p. 236).

Anche Moses Mendelssohn nei Briefe über die Empfindungen prende in considerazione il piacere [Lust] sensibile che riguarda a suo avviso solo l’uomo ed è possibile solo pro positu corporis (cfr. JA, I,
p. 115); il piacere sensibile è il sentimento dell’incremento delle funzioni vitali nel corpo.
L’effetto della musica deriva dalla corrispondenza sussistente fra i nervi del corpo umano e le
corde degli strumenti musicali. Mendelssohn polemizza qui con Sulzer, notando che l’intuizione della
perfezione non è compatibile con la natura del piacere sensibile: i diletti dei sensi non possono
promettere all’anima un tesoro di concetti poiché per essenza sono diversi dai piaceri superiori.
Che i suoni, e in particolare l’armonia delle consonanze determinino tensioni analoghe nel corpo è
sottolineato anche da Euler: quando sentiamo il suono di una corda, le parti elastiche dell’orecchio
vibrano tante volte quante sono le vibrazioni emesse dalla corda nel medesimo tempo (cfr. Euler
1769, vol. I, p. 8. Euler affronta il tema in un saggio pubblicato in francese e recensito nello
“Hamburgisches Magazin” nel 1751, 8. Band, 3. Stück, pp. 271-276, in cui polemizza con Derham).

7. Musica e affetti

L’idea che è a fondamento della cosiddetta Affektenlehre, diffusasi in Europa nei secoli XVII e
XVIII, è che la musica possa determinare sia il sorgere sia la scomparsa di affetti. Athanasius
Kircher (1602-1680), teorico della musica e scienziato tedesco, gesuita che insegnò ad Avignone, a
Vienna e infine a Roma ne delineò i tratti fondamentali. Fu autore di una Musurgia universalis sive
ars magna consoni et dissoni in 2 volumi e dieci libri pubblicato nel 1650 e riedito nel 1690 e di
una Phonurgia nova (1670). Derham, che richiama anche il De Poematum Cantu, et Rythmi viribus di
Isaak Vossius, ricorda che il musicista Timoteo riusciva a indurre all’ira Alessandro con una
melodia frigia e a mitigarne, invece, il furore rallegrandolo con altri suoni. Analogamente, ricorda
ancora Derham, un altro musicista suscitò nel re Erich di Danimarca una collera tale da indurlo a
uccidere con le proprie mani il suo ministro più fidato. Derham riprende questa concezione e afferma
che, poiché agiscono sui nervi, i suoni possono far sorgere e far tacere gli affetti; Willis,
scrive, diceva che la musica agisce non solo sulla fantasia ma anche sul cuore dal quale può
eliminare preoccupazioni e angoscia (cfr. Derham 1741, p. 235. Sulla forza della musica si vedano le
fonti elencate da Derham 1741, p. 232 nota 29).

Anche Sulzer nota che la musica agisce sull’uomo non come essere pensante, ma come essere dotato di
sensibilità e dimostra questa sua tesi richiamandosi alla descrizione che Rousseau dà del potente
effetto dell’opera italiana sull’animo degli ascoltatori. Mentre Salimbeni cantava un adagio, circa
1000 ascoltatori provavano uno stato di diletto, immobili e silenziosi come se fossero diventati di
pietra. All’ascolto di quella voce, narra Rousseau, una voluttà indescrivibile si impossessò
totalmente della sua anima; e aggiunge che questa impressione non può avere un grado medio; o la si
sente oppure non la si sente affatto e quando la si prova si è trasportati al di fuori di se stessi
e si è in balia della tempesta della passione, che ci rapisce senza che abbiamo la possibilità di
resistere (cfr. Sulzer 1771-1774, articolo “Musik”, p. 433). Una composizione musicale che non
susciti sensazioni non può essere definita musica autentica. Ne trae la conseguenza che una serie di
suoni che si susseguono l’un l’altro in base a leggi matematiche può essere il fondamento
dell’armonia, la quale però non è ancora musica se non è in grado di infondere slancio alle nostre
sensazioni; la musica autentica risveglia sensazioni nel cuore (cfr. Sulzer 1771-1774, articolo
“Musik”, p. 424).

8. Musica e terapia

Su queste basi si fonda la convinzione, diffusa nel XVIII secolo, che la musica possa avere una
funzione essenziale nella cura delle malattie. Mendelssohn attribuisce a Leibniz la convinzione che
la medicina potesse fare molto da questo punto di vista (cfr. JA, I, p. 116). In un’opera di
Desarneaux dal titolo Médecin de l’hopital militaire de Saint-Macaire, Richard de Hautesierck redige
nel 1772 un Recueil d’observations de medécine des hopitaux militaires in cui descrive gli effetti
della musica sulle convulsioni; una volta che si sia scoperto che questi movimenti scomposti sono
l’effetto dell’azione di vermi intestinali e che essi si riducono sino a scomparire in seguito al
suono della musica, si può ipotizzare che quest’arte possa guarire in quanto placa il movimento dei
vermi, incantandoli con le sue melodie (cfr. Sulzer 1771-1774, p. 433). Prima di Sulzer già
Athanasius Kircher aveva sottolineato gli effetti medici della musica (cfr. AA XXIX, p. 148).

da lettere.unimi.it/Spazio_Filosofico/dodeca/giordanetti/capitolo01.htm

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