Il valore della consapevolezza, nel percorso yogico 2

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Il valore della consapevolezza, nel percorso yogico 2

(Ivan Di Piazza – Domenico Puleo)

(parte seconda)

2. IL VALORE DELLA PRATICA

Ricordo bene gli anni che precedettero il mio incontro con la pratica dello yoga. Ricordo
linfanzia, ladolescenza. In un alternanza di opposti sentimenti, la violenza della vita sembrava
trascinare di qua e di là con dolore: i tradimenti degli amici, dei genitori, la mancanza di
comprensione da parte delle persone più vicine, la solitudine, ed insieme a tutto questo le gioie, i giochi e lamore.

Scrivo questo non tanto per parlare di fatti personali, ma perché penso che tutti, e in tutte le epoche, abbiano vissuto esperienze simili.

Oggi, se devo rilevare una differenza tra il passato e il presente, non è tanto nei rivolgimenti
della vita che, a ben guardare, sono forse più forti che un tempo, ma nel modo in cui ciò viene vissuto, cioè nella minore identificazione con queste gioie e sofferenze.

La disidentificazione rende interiormente più liberi, cioè in parte liberati dal karma, poiché le
azioni depositano semi più deboli, che germoglieranno con maggiore difficoltà e influenzeranno meno le esperienze future.

Per realizzare tutto ciò, elemento fondamentale è lo sviluppo di una prospettiva di ascolto più
profonda. Anzi, la disidentificazione nasce proprio dallascolto e dalla pratica. Lascolto o
consapevolezza è proprio un dono della pratica, una scoperta, una nuova modalità di approccio alle
cose che sacralizza il gesto e tutto ciò che ci circonda. Asana e pranayama rappresentano, in questo
contesto, lelemento principe che introduce dolcemente e gradatamente alla consapevolezza del corpo, del respiro e delle energie.

Gerard Blitz sottolinea molto bene questi aspetti nel libro Il filo dello Yoga, in cui invita i
praticanti occidentali a riprendere prima di tutto contatto con la dimensione del corpo15. Tale
lavoro di base può essere fatto in sala yoga attraverso una pratica attenta, che riporti al momento
presente, e ci faccia uscire dagli automatismi. Recuperare una dimensione autentica attraverso asana
significa riappropriarsi di un sentire vero, non filtrato dalla mente piena di pregiudizi, idee e
propositi. In una seduta di yoga vanno rispettate le indicazioni di Patanjali, sthiram sukkham
asanam: lasana deve essere comoda e piacevole; è esclusa lidea di sforzo, di meta, di obiettivo da raggiungere e di competizione.

Come indicazione generale, ed ai fini dello sviluppo di un ascolto profondo, lasana va adattata al
singolo individuo attraverso un accorto sintonizzarsi dellinsegnante sui suoi bisogni e limiti fisici.

Lasana si deve quasi far da sola, e la volontà deve costituire semplicemente limpulso iniziale allazione, che poi si dipana in modo naturale e consapevole.

Lasana si esegue con il corpo, con la mente e soprattutto con il cuore, evitando di cadere
nellautomatismo di una fredda esecuzione tecnica, nellillusione che la postura operi
indipendentemente dal nostro grado di attenzione. Semmai, il lavoro con asana è un lavoro di
attenzione-consapevolezza in cui le posture stimolano laspetto energetico, e facilitano lascolto di ciò che viene suscitato.

Ritengo inoltre che, ai fini dello sviluppo di una pratica consapevole, linsegnante debba
richiamare lattenzione su ogni singolo gesto che si compie in una seduta di yoga. Nulla deve essere
a caso e tutto deve essere a caso, ed ogni movimento deve essere illuminato dalla luce della
coscienza. Si evita così che la mente divaghi durante lesecuzione delle tecniche.

La pratica deve essere più fluida, equilibrata ed armoniosa possibile. Ogni asana deve scivolare
naturalmente verso la successiva, per permettere al praticante di entrare in una corrente di
posture scandite dal ritmo del respiro. Può essere utile inserire delle pause di ascolto tra
unasana e la successiva o tra un gruppo omogeneo di asana e le successive, in modo da dare il tempo di assimilare e contattare ciò che lasana ha prodotto.

Linsegnante dovrebbe inoltre ricercare un delicato equilibrio tra lezioni in cui si danno
indicazioni sulle posture, sui loro effetti, sui significati, o su temi specifici, e vere e proprie
sedute in cui ci si limiti a fornire pochissime spiegazioni, evitando di stimolare così il
pensiero discorsivo, e privilegiando linteriorizzazione. Questultimo modo di praticare può essere
più congeniale ai praticanti avanzati, mentre il primo si dovrà necessariamente adottare nei corsi
per principianti. Via via che lattitudine allascolto cresce negli allievi, è opportuno tendere
verso una pratica sempre più silenziosa, rimandando magari gli approfondimenti teorici e discorsivi alla fine.

La seduta deve diventare un fare, che, però, è anche un non-fare. Uscire dalla prospettiva del
fare per ottenere deve essere uno degli intendimenti alla base della pratica di yoga. In relazione
alla consapevolezza, i pranayama rappresentano unopportunità per entrare ancora più intimamente in
contatto con il proprio respiro e possono diventare ottime tecniche di concentrazione. Ad esempio,
praticare ujjayi focalizza la mente sul suono prodotto dal passaggio dellaria attraverso la
glottide. Questo tipo di pratica, dunque, può calmare il mentale e agire da antidoto contro lansia
di fare. Nadi sodhana armonizza sul piano energetico, e crea nella mente una condizione di
sospensione favorevole alla meditazione. I pranayama che stimolano molto energeticamente con o senza
ritenzioni (ad esempio bastrika4), possono essere adoperati per sensibilizzare lascolto verso i
movimenti delle energie sottili e psichiche. Questo tipo di lavoro in sala yoga completa ed affina il lavoro di ascolto in condizioni ordinarie.

La pratica della concentrazione (dharana), sia in ambito di asana che con tecniche specifiche, ci
consente di sviluppare la facoltà di stare con ciò che cè, indipendentemente dal fatto che mi
piaccia o non mi piaccia. Questa forma di consapevolezza attiva si distingue da una attenzione passiva di tipo ordinario che si focalizza solo su ciò che piace.

Con lo yoga abbiamo lopportunità di invertire tale processo e sviluppare la capacità di stare con
le cose indipendentemente dal fatto che ci piacciano o che ci arrechino beneficio. Viene in mente
quanto si dice nella Gita a proposito del karma yoga come la necessità di coltivare lazione senza
frutto; agire, cioè, in modo non strumentale, operare non per ottenere qualche vantaggio egoistico ma al solo fine di operare.

Queste indicazioni appaiono come un rovesciamento dei valori indotti oggi dalla società e dai mezzi
di comunicazione, che propongono una visione fortemente dualistica, in cui si è operata una
scissione netta tra se stessi e il cosmo. Esaltando la dimensione egoica, è facile cadere in una
assertiva oggettivazione di ciò che ci circonda e quindi sviluppare un rapporto strumentale con le
cose, e vedere le cose stesse ed i fenomeni in funzione dei propri piccoli bisogni. Gran parte della
cultura scientifico-tecnica riduzionista si è orientata storicamente in questa direzione. La pratica
yoga si propone di attenuare lelemento di divisione e favorire un processo di integrazione
delluomo nelluniverso, e di avviarsi verso uno sguardo più compassionevole e partecipe delle cose del mondo.

Dunque è un grande cambiamento (una vera conversione nel senso più ampio) che la pratica si
ripromette, giacché essa ci propone di passare da unattenzione subordinata allinteresse per questo
o per quello, allinteresse per lattenzione stessa, allinteresse per lessere attenti. Tale
interesse può nascere soltanto vedendo che lattenzione in quanto tale ci porta sempre qualcosa, indipendentemente dalla qualità degli oggetti a cui si rivolge.

La meditazione (dhyana) rappresenta la continuazione del lavoro di base su un piano mentale e profondo.

Yama e Niyama danno il necessario sfondo etico-esistenziale che evita di far cadere nellesecuzione di fredde tecniche psico-fisiche.

4 Tecnica di respirazione toracica ad alta frequenza con ritenzione finale.

Siamo generalmente portati a vedere il percorso yoga linearmente, cioè considerando gli anga di
Patanjali come tappe successive di un percorso ascendente che porta verso la liberazione. In questa
prospettiva gli anga esterni (Yama, Niyama, Asana, Pranayama) sono preparatori e propedeutici agli
interni (Pratyahara, Dharana, Dhyana, Samadhi). Tuttavia, complementariamente, possiamo guardare
il percorso ashtanga come circolare, in cui ognuna delle membra è un anello di una catena che poi
si chiude. Una spirale rappresenta bene questo movimento. Ogni parte affina lascolto e la
consapevolezza e fornisce insight sulle altre parti, senza una effettiva gerarchia degli anga. Ad
esempio, lavorando con dharana, possiamo avere una comprensione più profonda degli yama. Così, lattitudine radicata di pratyahara, illumina la pratica di asana.

Sotto questo profilo, gli anga esterni possono essere visti anche come strumenti propri a trasferire
il potere della consapevolezza dalla pratica alla vita. Durante la vita quotidiana ci muoviamo,
compiamo dei gesti, respiriamo, proprio come in una seduta di asana. Per ben comprendere questo,
penso possano occorrere molti anni. Ricordo gli inizi della mia pratica di hatha yoga, in cui il
contatto si limitava alla seduta formale, e per di più durante la seduta non ero in grado di mantenere un adeguato livello di concentrazione.

Dallesperienza ho dedotto che la mente ed il corpo, al principio della pratica dello yoga, si
ribellano a quella, seppur dolce, applicazione della mente alloggetto che caratterizza asana e
pranayama. Pur rendendosi palesi effetti benefici su tutte le sfere, la mente può sviluppare in
questa fase una sorta di avversione alla pratica, che si manifesta con pensieri caotici e fuori
tempo, fretta di finire, etc., nonostante il piacere di praticare e le ricadute positive quasi immediate.

Si manifesta così il gioco di citta-vritti: le oscillazioni del mentale, che, per una mente non
educata, possono costituire forze (inconsce) dirompenti che impediscono di stare pienamente nel
momento presente. Per questo Patanjali propone saggiamente, allinizio del percorso, asana e
pranayama per centrare la mente su oggetti specifici evidenti e rilevanti: il corpo e il respiro. Si
tratta, in sostanza, di una consapevolezza selettiva che, se ripetuta con costanza ed intenzione per
diverso tempo, origina una diminuzione dellagitazione mentale e consente livelli di adesione sempre
più profondi. E come se ci venisse indicata una modalità per interrompere, almeno nelle sedute di
yoga, il feed-back karmico negativo, quello che Freud chiamava coazione a ripetere, per cui
leffetto del condizionamento (lagitazione mentale, citta-vritti) rafforza il condizionamento di
partenza. Tale comprensione ritengo sia fondamentale per un adeguato avanzamento nella pratica.

Tutto ciò va in controtendenza rispetto a ciò che si manifesta ordinariamente. Allinizio del
cammino di pratica, o se la consapevolezza viene meno, si verifica una forma di attaccamento e di
compiacimento dei propri condizionamenti, perchè è forte lidentificazione con tali condizionamenti,
e la fine di essi equivarrebbe alla fine di una parte di noi stessi. Lio, non possedendo una
propria consistenza ontologica, ha paura di far cadere quelle barriere che rivelerebbero la relatività e la parzialità della sua natura.

Un testo molto antico in cui queste idee sono esposte chiaramente è quello della yogini tibetana Ma
Gcig16 (Canti Spirituali, scritto nel 1050 d.C.) sulla recisione dei demoni. Nel linguaggio
moderno potremmo usare i termini forze inconscie o archetipiche al posto dei demoni. Eimportante
chiarire il rapporto tra queste forze che operano dentro di noi e la dimensione della liberazione e della consapevolezza.

La yogini descrive lo stato di pura consapevolezza nel seguente modo: Lode a quello stato che
trascende ogni considerazione oggettiva, dimensione pura, inesprimibile, che va oltre il pensiero.

Ma Gcig, come Patanjali, ritiene che lo stato di pura consapevolezza sia la condizione naturale
della mente, ordinariamente offuscata dai condizionamenti o demoni. Vale la pena riportare ancora un
breve brano: Quel concetto discriminante di bene o di male che si viene a formare nella mente
allapparire di un fenomeno, viene detto demone intangibile. Se ci si separa dallo stato spontaneo e
naturale della mente e ci si aggrappa allidea di divinità benevole e di spiriti malefici, a causa
dellalternanza di speranza e timore, il nostro proprio demone si manifesta in noi stessi. Qui Ma
Gcig sembra sottolineare che luscita dalla condizione naturale, originaria della mente si attui
attraverso una serie di proiezioni inconsce (demoni), che offuscano la pura visione e ci fanno individuare nelle cose contenuti non presenti.

Dal vasto e chiaro spazio della dimensione essenziale della realtà sorgono in tutte le direzioni i
pensieri e i ricordi, così come dalloceano immobile sorgono le onde e le increspature. Chiunque
abbia questa conoscenza non necessita di alcun artificio: rimanga naturalmente in sè stesso! Si è liberati nello spazio in cui non nascono né beneficio né danno.

La dinamica di citta-vritti è leffetto delle forze (demoni) al di fuori della coscienza, ed esiste
uno spazio incontaminato dentro di noi in cui la pura consapevolezza può manifestarsi. Poiché la
conoscenza sorge spontaneamente in sè stessi dallo spazio della realtà essenziale, non è necessario
nutrire invidia, avversione o desiderio. Se non si provano avversione o desiderio, ecco che si manifesta la mente spontanea.

Vi è dunque lidea di una conoscenza nel fondo di noi stessi legata al nostro stesso esistere.
Inoltre ritorna il tema dellavversione e del desiderio (raga-dvesa) nellambito della
consapevolezza. Ma Gcig è influenzata dalla cultura buddhista, ma è una yogini che porta in sè tutta
la tradizione indiana. Come in Patanjali, la proposta è una purificazione della mente e del corpo da
demoni ( o klesha-vritti) che impediscono la corretta percezione dei fenomeni. Si tratta di un
ritorno alla condizione naturale, piuttosto che di una artificiosa manipolazione per uscire dalla condizione naturale e cercare uno stato diverso ed esotico.

Vista in questa ottica, la consapevolezza, lattenzione nuda non giudicante, è lo strumento principe
di cui si avvale la coscienza per liberarsi di ciò che non è più necessario, ed affrancarsi dai
demoni e dalla loro tirannia. Si tratta di trascendere la condizione umana ordinaria.

Una seduta formale di yoga rappresenta la situazione ideale per raccogliersi ed indagare
linteriorità e il suo rapporto con il corpo. La scoperta di una dimensione corporea profonda è di
solito il primo passo della pratica, particolarmente per noi occidentali, provenienti da una
struttura culturale che ha fatto della divisione tra mente e corpo, tra physis e psyche, quasi un
baluardo, un dogma. Le modalità educative occidentali cognicentriche non offrono molte possibilità
di sviluppare un rapporto libero e cosciente con il proprio corpo. La mente discriminante, la mente
razionale, viene esaltata a scapito delle altre dimensioni dellesistenza. Ecome se, avendo a
disposizione dieci strumenti, ne gettassimo via nove e ne utilizzassimo uno soltanto. Si è educati
a scindere razionalità ed emozioni identificate, e si oscilla tra questi due poli inconciliabili
creando un grande conflitto interiore. Come sottolinea Jung in una sua lucida analisi, con la caduta
degli archetipi e la svalutazione del sacro è avvenuto nelluomo moderno uno scollamento tra
inconscio (personale e collettivo) e coscienza dellio; ciò ha generato una condizione esistenziale
in cui ci si ritrova a fronteggiare il mondo senza più protezioni psicologiche, ma non ancora interiormente attrezzati per farlo autonomamente.

Tornando al lavoro sulla dimensione del corpo, anche là dove sembra che il corpo venga valorizzato,
come nelle pratiche sportive, in realtà si tratta generalmente di una identificazione completa con
il corpo stesso in uno scenario competitivo e prestazionale. Rispetto a questo approccio
meccanicistico, lo yoga adotta una visione olistica che ricerca una armonia perduta. Pur con grosse
variabilità soggettive, la riscoperta e la riappropriazione della propria dimensione corporea, può
richiedere diversi anni di pratica assidua. Anche qui si tratta di indirizzare la consapevolezza opportunamente e di affinare uno strumento.

Rapporto tra Hatha Yoga e Raja Yoga

Vorrei in questa sede suggerire quale, a mio avviso, può essere il rapporto tra Hatha Yoga e Raja
Yoga nei riguardi della consapevolezza. La mia esperienza mi ha fatto comprendere come la pratica
regolare di asana e pranayama non sia lo scopo finale dello yoga, ma essa crea un terreno assai
favorevole per il contatto con una dimensione profonda dellessere e la caduta dellio-mio, quella parte dellio che vuole possedere le cose e controllarle.

Il lavoro sulla postura, sul respiro e la sua regolarità e sugli aspetti energetico-salutistici
promosso dallHatha Yoga ridona la salute del corpo e favorisce linstaurarsi di una attitudine
sattvica verso sè stessi e la vita. In questo senso, un possibile piano interpretativo di
pratyahara, normalmente tradotto come ritiro dei sensi, è il ristabilirsi di un rapporto non
viziato con i sensi, di non accaparramento, dovuto allindebolimento della dimensione egoica. Dunque
lo yogi che, grazie allHatha Yoga, ha maturato una condizione di generale equilibrio psico-fisico,
è meglio disposto nei confronti degli oggetti della percezione, sia interni che esterni, e tende a
fronteggiare tali oggetti in modo non identificato e senza bramosia di possesso, né desiderio di
ripetere ciò che è piacevole. Egli, a questo stadio, mangia perchè ha fame e beve perchè ha sete, ma
ha interrotto la condizionata compulsione ad attitudini di vita scomposte, ed ha ristabilito un
equilibrio sano tra la coscienza e gli oggetti della percezione. Linstaurarsi della consapevolezza
nel processo yogico trova nella condizione di pratyahara raggiunta dal sadhaka (praticante) un terreno fertile per cominciare a rivelarsi.

Tutto è pronto per il Raja Yoga, che ha come principali oggetti la coscienza e la mente. Il termine
dharana viene normalmente tradotto come concentrazione, ed in effetti pratiche di calma
concentrata sono utili per allenare la mente a focalizzarsi su un solo punto e a divenire stabile.
Tuttavia, man mano che la mente viene purificata, dhyana, lo stato meditativo di consapevolezza, si
può fare strada nel praticante e divenire la normale modalità per rapportarsi con la vita.

A conclusione di questo breve capitolo dedicato al significato della pratica possiamo dire che lo
yoga, nella sua pratica formale, ci offre la possibilità di indagare il nostro rapporto con il
corpo, con il respiro e con le dinamiche mentali. Abbiamo dunque lopportunità di essere avviati
verso una consapevolezza che si manifesta su tutti i piani, e procedere sulla via spirituale. La
pratica yoga crea inoltre una disposizione ed un substrato idoneo per una consapevolezza allargata alla vita ed estesa a tutte le nostre relazioni.

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