Il Perdono intelligente

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Il Perdono intelligente

di Caitanya Carana Dasa

Alcuni esempi nella tradizione vedica illustrano il perdono intelligente,
che aiuta a crescere sia chi dispensa il perdono sia chi lo riceve

Se qualcuno ci fa del male, lo perdoniamo o lo ripaghiamo con la stessa moneta? Sicuramente ognuno di noi si è posto questa domanda, come del resto hanno fatto tutti i pensatori nel corso della storia. Le grandi tradizioni di saggezza e di spiritualità spesso descrivono il perdono come una virtù gloriosa, indispensabile per una maturazione spirituale autentica. Persino la nostra cultura contemporanea riconosce il valore del perdono; da un sondaggio d’opinione del 1988 emerge che il 94% degli americani crede nell’importanza di perdonare. Nel contempo, l’85% avverte l’esigenza d’imparare a farlo nel modo giusto. A chi possiamo rivolgerci per avere una guida in tal senso? La tradizione vedica consacrata dal tempo fornisce principi ed esempi preziosi.

Perché Perdonare?

In un passaggio rivelatore dell’Udyoga Parva del Mahabharata, Vidura parla del perdono a Dhritarastra: “Chi è incapace di perdonare si riempie di contaminazioni.” La scienza moderna ha scoperto alcune di queste contaminazioni: i danni psicologici e fisiologici di un’attitudine impietosa. Molti libri, come ad esempio Imparare il perdono, del Dr. Fred Ruskin, ricercatore alla Stanford University, citano una serie di studi che dimostrano in modo inequivocabile gli effetti benefici del perdono sulla salute. Le persone meno inclini a perdonare sono più soggette ad ammalarsi.

Quando rifiutiamo di perdonare un’offesa, il risentimento ci affligge di continuo e restiamo mentalmente ancorati al passato. Di conseguenza, il rancore condiziona negativamente i nostri pensieri, le parole, le azioni e la nostra stessa vita, facendoci chiudere a riccio oppure esplodere. Nel primo caso, riversiamo la rabbia su noi stessi e le ferite profonde che infliggiamo alla nostra psiche possono perfino distorcere la nostra personalità. Se invece esplodiamo, sfoghiamo la rabbia all’esterno e ce la prendiamo non solo con chi ci ha offeso, ma con chiunque si trovi sulla nostra strada al momento dell’esplosione, creandoci così la fama di persone irascibili.

Entrambe le reazioni dominate dal rancore – chiudersi o esplodere – sono quindi inutili, se non addirittura dannose; pertanto, quantomeno ai fini della nostra salute fisica e psicologica, il perdono è benefico, perché ci libera dalle emozioni negative. Migliorare la nostra visione alla luce di quello che i Veda insegnano sulla legge del karma può renderci il perdono più facile. Le indicazioni vediche ci aiutano a capire che quando veniamo offesi senza una ragione plausibile, il male che subiamo è la probabile reazione al male che noi stessi abbiamo fatto a qualcuno nel passato.

Quest’apertura nella prospettiva ci permette di vedere l’offensore non come l’origine della nostra sofferenza ma come il suo strumento: l’origine è il nostro comportamento pregresso. Sottolineando questo punto filosofico, Srila Prabhupada ci raccomanda di non prendercela con gli “strumenti del nostro karma”. Se restiamo arrabbiati, prima o poi quest’emozione negativa ci spingerà a fare degli errori che ci contamineranno ancora di più. Anche quando lo sdegno rende la logica del karmadifficile da digerire, il perdono conserva la sua capacità di affrancarci dal risentimento. Ecco perché nella Bhagavad-gita (16.3), Sri Krishna descrive il perdono come una qualità divina che porta alla liberazione e lo contrappone alla rabbia e alla durezza che caratterizzano gli empi e li tengono prigionieri del karma.

E Se la Storia Si Dovesse Ripetere?

Ovviamente, nelle situazioni della vita reale in cui dobbiamo decidere se e come perdonare, oltre alla salute e al karma, ci preoccupa la relazione con l’offensore. Prima di affrontare il tema del perdono, devo però fare una premessa. In una relazione, l’indelicatezza da entrambe le parti alimenta il conflitto e dobbiamo esaminare con onestà sia gli errori che possiamo aver fatto in tal senso, sia il modo di correggerli. Dato che sto parlando di perdono, mi focalizzerò su quelle situazioni in cui abbiamo ragionevolmente accertato che il torto è soprattutto dell’altro e siamo noi a dover decidere se perdonare oppure no.

Le offese fanno più male quando vengono da persone con cui abbiamo una relazione intima. Poiché si tratta di un legame che implica delle reciproche aspettative, quando queste sono deluse è molto difficile perdonare. La reazione impulsiva più scontata a una condotta offensiva è la ritorsione, che con tutta probabilità potrà solo peggiorare sia la situazione che la relazione. Se poi il legame è molto importante per noi, vale la pena cercare di preservarlo col perdono. Nel decidere se perdonare o meno chi ci ha offeso, un valido motivo di esitazione è il timore che l’offesa venga reiterata: “E se l’offensore dovesse considerare il mio perdono una licenza per continuare a offendere?”

Nel Mahabharata, poco prima del passaggio che abbiamo citato, Vidura parla proprio di questo timore: “C’è solo un problema nel perdonare qualcuno: la gente considera debole chi perdona. Tuttavia, quello che viene reputato un difetto, in realtà non lo è, perché il perdono è una forza potente.” Per capire come mai Vidura riconosce che il perdono può essere visto come una debolezza ma nel contempo lo definisce “una forza potente”, dobbiamo esaminare il suo comportamento nel Mahabharata. Egli consiglia più volte a suo fratello maggiore Dhritarastra, re della dinastia Kuru, di preferire la moralità al favoritismo, cioè di non trascurare il dovere di proteggere i Pandava, suoi nipoti, dai piani malefici del figlio Duryodhana, che voleva negare loro il diritto al regno.

Purtroppo, il re era molto affezionato a Duryodhana, diede quindi il proprio tacito consenso alle trame efferate ordite contro i Pandava. Dopo che questi furono privati di tutto ed esiliati perché sconfitti in un gioco truccato, le dichiarazioni benefiche ma scomode di Vidura sulla natura malvagia di Duryodhana e le sue tragiche conseguenze divennero intollerabili a Dhritarastra, che biasimò e rigettò il proprio benefattore. Il re tuttavia tornò presto in sé e inviò al fratello il proprio segretario, Sanjaya, con la richiesta di perdono. Vidura perdonò Dhritarastra, ma non dimenticò le sue tendenze faziose; tenne quindi occhi e orecchi costantemente aperti.

Poiché non fu così ingenuo da fidarsi di Dhritarastra, riuscì a tenere traccia delle capziose ricadute del fratello e a salvare i Pandava da ulteriori pericoli. Nondimeno, egli non provava rancore per l’insulto subito, quindi fu capace di mantenere una buona relazione con Dhritarastra. Fu proprio la solidità di questo legame che alla fine permise a Vidura di aiutare il re a vedere l’irrilevanza e la pazzia dei suoi attaccamenti materiali, e a spingerlo sul sentiero dell’illuminazione. Il comportamento di Vidura mette in evidenza il grande potere insito nel perdono, cioè la capacità di migliorare una relazione o una persona laddove qualsiasi cambiamento positivo sarebbe altrimenti impossibile.

Per accedere a questo potere e per usarlo, dobbiamo saper cogliere la sottile ma cruciale differenza tra il perdono e la fiducia. Nel sito web Oxforddictionaries.com il perdono è “smettere di provare collera o astio verso qualcuno a causa di un’offesa, un difetto o un errore” e la fiducia è “fede ferma nella credibilità, veridicità e capacità di qualcosa o qualcuno.” Se tralasciamo le sfumature di significato di questi due termini, possiamo capire che il primo si riferisce essenzialmente al passato e il secondo al futuro. Vidura ci mostra come perdonare senza dare fiducia. Se non perdoniamo, allora né l’altro, né la relazione con l’altro miglioreranno.

Se invece perdoniamo e ci fidiamo, indurremo senza volerlo una percezione di debolezza e ci esporremo a ulteriori offese. Perdonare qualcuno di certo non vuol dire lasciare che continui a farci del male; questo sarebbe masochistico e il masochismo non è né lodevole né spirituale. D’altro canto, è bene sottolineare che neanche vendicarsi di un’offesa è lodevole o spirituale. Abbiamo dunque bisogno di trovare l’equilibrio che permetta al passato di aprire la strada al futuro. Il perdono senza fiducia rappresenta il giusto mezzo, ci permette infatti di tenere la porta aperta all’altro senza che ci calpesti mentre impara a correggersi.

Col nostro perdono l’aiutiamo a non cadere nel tranello delle giustificazioni e con la nostra mancanza di fiducia evitiamo che dimentichi il male fatto. In questo modo ci assicuriamo che un legame ancora risanabile non finisca. Dopotutto, anche noi siamo esseri umani fallibili come l’offensore e in futuro potremmo noi stessi sbagliare e aver bisogno del perdono di qualcuno. Non vorremmo forse la medesima opportunità di riscatto? Se chi ci ha offeso dimostra nel tempo di aver migliorato in modo consistente il suo comportamento, allora possiamo sia dimenticare che perdonare, riportando nella relazione la fiducia di sempre.

Equilibrio Tra Perdono E Castigo

Ovviamente, c’è sempre la possibilità che l’offensore non attraversi la porta del miglioramento che noi gli abbiamo aperto. Dovremo allora con tristezza chiuderla, ma almeno il perdono senza fiducia ci avrà permesso di non chiuderla prematuramente. Un esempio scritturale di rilievo si trova nel Decimo Canto dello Srimad-Bhagavatam, laddove il re Vasudeva, padre di Sri Krishna, si confrontò col tiranno e demoniaco re Kamsa, che aveva ucciso i suoi primi sei figli. Quando in modo del tutto inaspettato sembrò che il cuore del tiranno fosse cambiato ed egli chiese perdono a Vasudeva per le proprie atrocità, Vasudeva lo perdonò subito, ma non si fidò di lui ed evitò di rivelargli dove Si trovava Krishna.

Con destrezza e cautela Vasudeva fece tutto il possibile per nascondere a Kamsa il posto in cui Krishna viveva. Fu presto chiaro che il cambiamento di Kamsa era stato un evento passeggero. Ricaduto nella malvagità di sempre, il re fece imprigionare di nuovo Vasudeva e ingaggiò vari demoni per uccidere Krishna. Sri Krishna stesso prese atto della natura incorreggibile di Kamsa e dell’esigenza di proteggere gli innocenti dalla sua crudeltà; decise quindi di castigarlo con la morte. Questa pena capitale liberò il vero Kamsa – l’anima – dalla mentalità implacabile insita nel suo corpo materiale, mettendo l’anima purificata nella condizione di progredire sul sentiero spirituale.

Il principio della giustizia deve dunque bilanciarsi col principio del perdono; se l’offesa è addirittura criminale, prendere misure disciplinari immediate può essere l’unica via percorribile. Tuttavia, anche nell’infliggere un castigo si può essere liberi dalle emozioni negative dell’astio e del rancore, come illustra il comportamento di Sri Rama nello Yuddha-khanda del Ramayana di Valmiki. Quando il demone Ravana rapì Sita, la consorte di Sri Rama, il Signore Si offrì di perdonarlo se si fosse pentito del suo misfatto e avesse lasciato libera Sita. Quando Ravana rifiutò con sprezzo la generosa offerta del Signore, Sri Rama Si preparò a fare il necessario per punirlo con la morte.

Sri Rama uccise Ravana, ma senza odio, come dimostra il fatto che organizzò il suo funerale. Vibhisana, il fratello minore di Ravana, all’inizio non volle compiere il rito funebre per una persona che si era macchiata di una tale lussuria criminale, ma Sri Rama rivelò il Suo cuore pieno di compassione dandogli la seguente istruzione: “Non bisogna mai disprezzare l’anima. Con la morte l’anima lascia il corpo e va verso una nuova nascita. Il corpo peccaminoso di Ravana ora è morto, ma la sua anima pura continua a vivere ed è sempre degna di rispetto. Devi dunque eseguire il rito per il bene eterno dell’anima immortale di tuo fratello.»

Sri Rama espresse così la Sua amorevole premura per il benessere spirituale di Ravana e dimostrò la stessa premura a tutte le vittime dei suoi abusi. Poiché il demone non aveva manifestato la minima intenzione di correggere le sue tendenze allo sfruttamento e alla crudeltà, nonostante i numerosi ammonimenti e le molte opportunità ricevute, il Signore prese contro di lui le dovute misure disciplinari, ma senza odio. Quando anche noi dobbiamo intraprendere un’azione punitiva, possiamo farlo senza rabbia o risentimento verso l’offensore, ma col desiderio di impedirgli di ferire altre persone e di incorrere in un ulteriorekarma negativo.

Applicazione Individuale

Come si applica a noi tutto questo? Ogni individuo è diverso dall’altro; sono diverse anche le relazioni e le circostanze. Questo articolo delinea i principi generali per la risoluzione del problema e non i rimedi specifici, che variano da situazione a situazione. In ultima analisi, riflettere con maturità e sensibilità è un requisito indispensabile nell’applicazione dei principi generali alle circostanze particolari. Spesso avremo bisogno di essere guidati interiormente da Krishna attraverso il fervore della preghiera ed esteriormente da maestri spirituali e devoti esperti in consulenza. Krishna ci assicura nella Gita (10.10) che darà a coloro che Lo servono con amore l’intelligenza grazie a cui potranno tornare a Lui. Se dunque ci rivolgiamo al Signore affinché guidi i nostri passi, Egli ci aiuterà a scegliere la soluzione migliore per la nostra situazione specifica.

Caitanya Carana Dasa è un discepolo di Sua Santità Radhanatha Swami. E’ laureato in elettronica e ingegneria delle telecomunicazioni, e serve a tempo pieno al tempio ISKCON di Pune. Ha scritto undici libri. Per leggere gli altri suoi articoli o le sue riflessioni quotidiane sulla Bhagavad-gita, “Gita-daily”, potete visitare il sito web thespiritualscientist.com

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