Siddharta: il viaggio di Hesse verso l’oriente

pubblicato in: AltroBlog 0

Siddharta: il viaggio di Hesse verso l’oriente

di Paul W. Morris

Siddharta è una storia sull’individualità e l’auto-espressione, un racconto essenzialmente
occidentale, ma celato sotto vesti indiane e punteggiato di robusto anticonformismo, grazie al quale
è riuscito ad attraversare le culture e le generazioni. Il processo di auto-realizzazione di Hermann
Hesse era stato indissolubilmente legato alla sua stesura.

Quando le case editrici (Frassinelli in Italia nel 1945 e la casa editrice New Directions negli USA
nel 1951) decisero di pubblicare le prime traduzioni di Siddharta di Hermann Hesse, non potevano
immaginare l’enorme impatto che esso avrebbe avuto sulla cultura occidentale. La storia
apparentemente semplice del romanzo – un giovane e bene educato bramino, Siddharta, che sfida la
tradizione paterna per vagabondare in India alla ricerca dell’Illuminazione – piacque allo stesso
tempo ai vagabondi inquieti, ai giovani alienati e agli anarchici. Tra i suoi molti temi vi sono
l’emarginazione dalla società, il rifiuto dell’autorità, la comunione con la natura, l’insofferenza
verso la scuola e l’idea di un Dio immanente. Pubblicato negli Stati Uniti durante la Guerra Fredda,
Siddharta esprimeva un’inquietudine perenne e fornì una nuova scala di valori a una generazione
disillusa dal conservatorismo dei genitori. Per ammissione dello stesso autore, Siddharta è una
storia sull’individualità e l’auto-espressione, un racconto essenzialmente occidentale, ma celato
sotto vesti indiane e punteggiato di robusto anticonformismo, grazie al quale è riuscito ad
attraversare le culture e le generazioni.

Nonostante l’interesse eclettico di Hermann Hesse per le religioni mondiali, nessuna disciplina
spirituale ha permeato la sua vita più del buddismo. Molti dei suoi romanzi si basano sul principio
fondamentale della compassione, mentre i suoi personaggi sono caratterizzati da un’espansione della
coscienza di sé e un’evoluzione del carattere tali da trascendere il contenuto intellettuale della
filosofia buddista. L’autore fu colpito dalla vita del Buddha “simile a un lavoro compiuto o
un’azione portata a termine. Una formazione, un’auto-formazione spirituale del tipo più elevato”. È
questa disciplina che vediamo riflessa negli scritti di Hesse e nel suo personale conflitto
psicologico.

La sua opera più influente, Siddharta, è anche, si potrebbe dire, la più ottimista. Il romanzo
offriva ai lettori la speranza di una liberazione in questa vita, speranza assente nei movimenti
giovanili sia americani che europei emersi dopo le due guerre mondiali. Non avrebbe potuto esserci
un messaggio più incoraggiante per coloro che cercavano la “via interiore”. Come risultato,
l’America vide l’esplosione di un “fenomeno Hesse” che non aveva precedenti per uno scrittore
europeo. Ma nonostante il successo in America, apparentemente predestinato, tutto era sembrato
congiurare contro il romanzo, rendendone difficile il completamento già nel 1920.
Fu solo grazie a una serie di esperienze formative dalle quali l’autore uscì trasformato, che
Siddharta vide la luce. In realtà, il romanzo aveva una sua storia già prima di arrivare in America.
Il processo di auto-realizzazione dell’autore era stato indissolubilmente legato alla sua stesura.

In una piovosa mattina del 1918, in Germania, un anno e mezzo prima di cominciare a lavorare sulla
sua leggenda indiana, Hermann Hesse faticava ad alzarsi. Per un po’, giacque immobile in uno stato
di semi-incoscienza, non ancora sufficientemente desto per guardare l’orologio. Gradualmente tornò
in sé, fino a diventare consapevole dell’ambiente circostante. Quando si voltò a guardare la stanza,
la testa era un po’ indolenzita. Notò il modo in cui la luce cadeva sui suoi vestiti appoggiati a
una sedia e il gioco delle forme parzialmente celate dalla foschia, oltre la finestra. Voleva
tornare a dormire, ma quando udì il suono leggero della pioggia sul tetto, si sentì pieno di
tristezza e dolore. Dal sonno era emerso, simile a un’ombra, il ricordo di un lungo sogno. In
seguito, Hesse avrebbe raccontato quel sogno nel suo diario: aveva udito due voci che gli parlavano
di un grande dolore, ma era stata la seconda voce, più profonda e sonora, che aveva comandato:
«Ascoltami! Ascoltami e ricorda: il dolore non è nulla, è illusione. Solo tu lo crei, solo tu
provochi il tuo dolore!».

Dopo aver riflettuto sul significato del sogno, Hesse descrisse la seconda voce come “in se stessa
oscura e causa di dolore”. Che Hesse si soffermasse tanto a lungo su un sogno, non deve
meravigliare: già nel 1916, dopo la seconda di molte crisi nervose, aveva cominciato un trattamento
psicoanalitico con un terapista discepolo di Carl G. Jung (più tardi avrebbe tratto giovamento da un
rapporto stretto con lo stesso, insigne psicologo). Hesse conosceva bene l’idea di Jung secondo la
quale l’inconscio poteva accedere e stati di consapevolezza comuni a tutta l’umanità. Sapeva che
questa voce era una risposta all’interrogativo fondamentale dell’esistenza che lo inseguiva
dall’infanzia.

Fino a quel momento, tutta la vita di Hesse era stata una serie di ribellioni, dall’abbandono della
scuola all’età di tredici anni alla rottura con la tradizione protestante dei genitori (che volevano
fare di lui un missionario), fino alla sua forte opposizione al conflitto globale della prima guerra
mondiale. Suo nonno, conoscitore di nove lingue indiane e molto noto in tutta Europa come
un’autorità sul subcontinente, incoraggiò l’interesse del giovane Hesse per i classici della
spiritualità; questi ultimi gli fecero comprendere “che oriente e occidente non erano solo unità
distinte, ma che vi era un punto di contatto, un elemento in comune sopra e al di là di ciò:
l’umanità”. Fu l’amore di suo nonno per l’India che convinse Hesse, un decennio dopo la morte del
suo mentore, a recarsi laggiù nel 1911, in un tentativo di riconciliare la tradizione missionaria
della famiglia con il suo spirito ribelle. Il contatto con la cultura indiana (in particolare, con
il buddismo), avrebbe influenzato molte delle sue opere successive, ma l’esperienza del viaggio in
oriente non appagò la sua sete spirituale.

Nel 1919, Hesse, alla ricerca di sollievo, scappò a Montagnola, un piccolo villaggio delle prealpi
svizzere meridionali, dove avrebbe vissuto per il resto della vita. Sebbene i colleghi lo
prendessero in giro dicendo che si era fatto monaco, Hesse sentiva di aver finalmente raggiunto
quello che aveva desiderato negli anni precedenti, quando, al culmine della sua insoddisfazione come
marito e padre, aveva proclamato: «Darei la mia mano sinistra per poter essere di nuovo un povero
scapolo felice e possedere niente altro che venti libri, un nuovo paio di stivali e una scatola
piena di poesie segrete». Ma la nuova indipendenza ebbe un prezzo maggiore di un semplice sacrificio
fisico: costretto ad affidare la moglie a una casa di ricovero, dopo il rapido aggravarsi della
schizofrenia di lei, non fu in grado di provvedere ai tre figli e dovette affidarli controvoglia
alle cure di amici. Dalle lettere di quell’anno, è chiaro che entrambe le decisioni gli costarono
molto. Tuttavia, nonostante lo stress emotivo, Hesse emerse dal suo periodo di crisi – nel
frattempo, era finita la prima guerra mondiale – ed entrò in una delle fasi più creative e
produttive della sua vita. Questo significativo mutamento di prospettiva fu evidente soprattutto nel
dicembre 1919, quando Hesse cominciò a scrivere Siddharta. All’inizio, la stesura del libro
procedeva senza problemi, tanto che la prima parte era completata all’inizio del 1920. Poi, più
nulla.

Scoraggiato, a metà del 1920 scrisse a un amico: “Da molti mesi il mio ‘poema’ indiano, il mio
falcone, il mio girasole, l’eroe di Siddharta, giace inutilizzato”. Incapace di continuare il
romanzo, confessò a un altro amico che “la mia grande opera indiana non è ancora pronta e potrebbe
non esserlo mai. Per ora la sto mettendo da parte, perché dovrei descrivere uno sviluppo che io
stesso non ho ancora sperimentato a fondo”. Questa affermazione rivela la serietà dell’impegno
esistenziale di Hesse. I capitoli iniziali della prima parte riguardano l’inquietudine, la ricerca
di Siddharta, a partire dal rifiuto di seguire la tradizione bramanica del padre fino ad arrivare
alla via contemplativa del Buddha, passando per la via dell’asceta itinerante e mendicante. Questi
capitoli, secondo Hesse, erano venuti “magnificamente”, informati della sofferenza dell’autore. Ma
perché la parte seconda venisse bene, Hesse doveva affrontare il trionfo del protagonista, laddove
Siddharta alla fine consegue l’illuminazione. Tuttavia, concepire una simile soluzione alla
sofferenza del suo protagonista era impossibile finché l’autore fosse rimasto dissociato dal proprio
essere interiore.

Se non fosse stato per l’implacabile determinazione di Hesse a scoprire se stesso, Siddharta sarebbe
stato sicuramente abbandonato. Questo sembrò avvenire nel giugno 1921, quando la prima parte venne
pubblicata in modo indipendente, senza un’adeguata conclusione.
In quegli anni, lavorando intensamente con Jung, Hesse aveva cominciato ad affrontare la sua
alienazione dalla società per completare la propria formazione, mentre Siddharta veniva messo da
parte. Insieme a Jung, Hesse ripercorse la sua infanzia, composta di molte antichità indiane sullo
sfondo dell’iconografia cristiana. Si re-immerse nella letteratura sacra mondiale che aveva
incontrato per la prima volta da bambino, nella biblioteca del nonno. E scoprì di apprezzare gli
insegnamenti del Buddha. Naturalmente, la simpatia di Hesse per il buddismo non fu l’unica
responsabile della sua catarsi finale; il pensiero buddista era solo una tra le tante religioni
asiatiche che egli conosceva bene, secondo la moda di quel tempo. Ma l’influenza degli insegnamenti
del Buddha su Siddharta è incontestabile.

All’inizio del 1921, Hesse scrisse a un amico artista che il buddismo era stata “la sua unica fonte
di consolazione” per anni, e sebbene ammettesse che “il mio atteggiamento è gradualmente cambiato e
non sono più un buddista”, riconobbe i benefici della pratica buddista più tardi, nello stesso anno:
“Il punto e il fine della meditazione non è la conoscenza nel senso intellettuale dell’occidente, ma
un’alterazione della coscienza, una tecnica il cui risultato più elevato è la pura armonia, una
cooperazione simultanea e paritaria di pensiero logico e intuitivo”.
Quando acquistò più familiarità con la dottrina buddista, Hesse cominciò a comprendere le
sottigliezze della pratica che lo aveva fatto uscire dalla depressione acuta. Per lui, le parole del
Buddha erano “una fonte e una miniera di ricchezza e profondità senza precedenti”, come scrisse nel
suo diario.

“Non appena cessiamo di considerare l’insegnamento del Buddha dal solo punto di vista intellettuale
e accettiamo una certa affinità con l’antichissimo concetto orientale di unità, se permettiamo al
Buddha di parlarci come una visione, un’immagine, come il risvegliato, il perfetto, troviamo in lui
(in modo praticamente indipendente dal contenuto filosofico e dal nocciolo dogmatico del suo
insegnamento) uno straordinario prototipo del genere umano. Chiunque legga attentamente pochi degli
infiniti ‘discorsi’ del Buddha, si accorge ben presto che in essi esistono un’armonia, una
tranquillità di animo, una trascendenza sorridente, una saldezza assolutamente incrollabile, ma
anche un’immutabile cortesia e una pazienza infinita”.
Tornando a lavorare sul romanzo nel 1922, Hesse completò rapidamente gli otto capitoli che
costituiscono la seconda parte. Nel maggio di quell’anno, il libro era finito: il Siddharta di Hesse
– un termine sanscrito che vuol dire: “colui che ha trovato la meta” – trova il suo riposo nella via
di mezzo, proprio mentre Hesse stesso scopre la sua via di uscita dalla depressione. La comprensione
del buddismo da parte dell’autore ha la sua migliore espressione verso la fine del romanzo, quando
Siddharta medita tranquillamente sul movimento del fiume: “Egli era morto e un nuovo Siddharta era
nato dal suo sonno. Anche lui sarebbe invecchiato e morto. Siddharta era transitorio, tutte le forme
erano transitorie”. Finalmente, nell’ottobre 1922, il romanzo venne pubblicato nella sua interezza.

Hesse non era del tutto soddisfatto del lavoro finito; dubitava di essere riuscito a “riformulare
per la nostra era un ideale indiano di vita meditativa”. Ma pochi mesi prima della pubblicazione, un
professore indiano di Calcutta che aveva letto tutto il libro impressionò molto Hesse, dicendogli
che esso andava “tradotto in tutte le lingue europee, perché qui per la prima volta viene offerto
all’occidente l’oriente autentico”. Incoraggiato, Hesse scrisse a un amico esprimendogli la speranza
che il romanzo apparisse in inglese “non tanto per il bene degli inglesi, quanto per quegli asiatici
e le altre persone che ne sarebbero riscattati”.
Già nel 1925 apparve la prima traduzione in giapponese, seguita, durante gli anni ’50, dalle
edizioni in molte lingue indiane. E sebbene una traduzione cinese non sia apparsa fino al 1968,
l’enorme interesse dell’Asia per questa parabola indiana attesta l’universalità della verità
afferrata da Hesse. Soddisfatto per l’accoglienza del suo romanzo lirico, Hesse non tornò mai più
all’India come espediente letterario, ma il suo apprezzamento per gli insegnamenti del Buddha non
diminuì.

Della letteratura sacra, Hesse disse: “Le opere più antiche sono quelle che invecchiano meno”. Lo
stesso potrebbe applicarsi al Siddharta, che oggi si mantiene fresco e significativo come negli anni
’20 in Germania e negli anni ’60 in America. Il romanzo ha attraversato un secolo di tumulti,
diventando testimone dell’umana sofferenza.
Un anno prima della morte, nel 1962, mentre Siddharta riscuoteva grande successo negli Stati Uniti,
l’autore raccontò di essere stato colpito da uno di quei “semplici ed efficaci” koan Zen come da una
rivelazione: “Mi sopraffece come un respiro dall’universo; sperimentai l’estasi e, allo stesso
tempo, il terrore, come in quei rari momenti di consapevolezza immediata dell’esperienza che chiamo
‘risvegli'”. In modo simile, Siddharta agì come un koan che risvegliò milioni di persone dalle loro
illusioni, ispirandole, sfidandole e ricordando (come aveva fatto la voce del sogno a Hesse) che “il
dolore non è nulla, è illusione”.

Una leggenda sugli scaffali
Anni ’50
Dopo l’assegnazione del Premio Nobel a Hermann Hesse, New Directions pubblica la prima traduzione
inglese di Siddharta, su segnalazione di Henry Miller. Un’edizione in brossura esce nel 1957, lo
stesso anno che vide la comparsa di opere influenti come Sulla strada di Jack Kerouac e La via dello
Zen di Alan Watts. L’immagine di questa copertina divenne un’icona della controcultura.
Anni ’60

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *