La civiltà Maya

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Maya

fonte: sapere.it

Tante storie diverse

La civiltà maya si sviluppa in un arco di 3.000 anni di storia su un territorio vasto piú di 300.000
chilometri quadrati con condizioni climatiche e ambientali molto diverse tra loro – umide foreste
tropicali, sierre aride, alte montagne e fasce costiere – che comprende la penisola messicana dello
Yucatán, il Belize, il Guatemala, l’Honduras e il Salvador. La cronologia dei Maya si divide in
Periodo Preclassico (dal 2000 a.C. al 250 d.C.), che vede l’assestamento di quella civiltà, in
Periodo Classico (dal 250 al 900 d.C.) che ne segna l’apogeo, e in Periodo Postclassico (900-1450
d.C. circa), che mostra il declino e l’influenza di popoli stranieri. Nonostante l’apparente
omogeneità culturale, le concezioni artistiche e architettoniche dei tanti ceppi Maya sono
diversissime tra loro, essendosi sviluppate in regioni isolate le une dalle altre e in periodi
storici differenti. L’arte e la scienza maya – considerate l’espressione culturale piú alta e
sofisticata di tutte le civiltà della Mesoamerica – nascono inizialmente in luoghi diversi e
soltanto nel Periodo Classico le conoscenze acquisite dai vari gruppi vengono combinate e utilizzate
comunemente.

I primi insediamenti in epoca Preclassica iniziale si ubicano nelle foreste dello Yucatán, nel
Belize e sugli altipiani della costa dell’Oceano Pacifico, ricevendo l’influenza degli Olmechi che
si erano spinti in quelle terre lontanissime alla ricerca di materiali preziosi come ossidiana e
giada. Tra il Preclassico medio e tardo nascono le prime città-stato con architetture monumentali
come Becán, Uaxacutún, Dzibanché, Cobá e Edzná, che probabilmente ebbero contatti con la Cultura di
Monte Albán e con gli Zapotechi, dai quali ereditano le prime nozioni sui calendari (poi
perfezionati dai Maya stessi), il cerimoniale del sacro Gioco della Palla e i riti sacrificali. Nei
quasi sette secoli del Periodo Classico, tra il 250 e il 900 d.C. circa, lo sviluppo urbano –
insieme alla scienza, all’arte e alla tecnica – conosce il suo apogeo: vengono creati i grandi
centri cerimoniali di Tikal, Copán, Palenque, Yaxchilán, Piedras Negras, Uxmal e decine di altre
città minori, ognuna con sue peculiarità architettoniche e culturali, geograficamente separate da
un’infinità di barriere naturali come fiumi, foreste e montagne, anche se legate da alleanze
politiche, da un comune sistema di scrittura e dal culto.

Nel periodo iniziale sembra si possa leggere ancora una certa influenza della cultura di
Teotihuacán, che aveva raggiunto terre molto lontane dal sito originario, ma, a partire dal VI
secolo d.C., i che sarà l’ultimo baluardo maya capace di resistere ai Conquistadores spagnoli che
invadono lo Yucatán nel 1527.

Il mistero della scrittura

La società maya era regolata da una rigida gerarchia che vedeva al primo posto della scala sociale
l’Ahau, il Signore e re, che aveva un potere divino simile a quello dei faraoni d’ Egitto. Ai
sovrani sono dedicate le immense piramidi, i monumenti e le stele che recano lunghe iscrizioni con
il racconto della loro discendenza dinastica, delle loro imprese militari e degli atti di governo.
La conoscenza della scrittura espressa in glifi era monopolio dei Maya, anche se la compilazione dei
testi e la lettura erano riservate esclusivamente alla classe dominante e ai sacerdoti. La
difficoltà maggiore che gli studiosi moderni incontrarono nel decifrare la scrittura maya consisteva
nell’interpretazione dei glifi, poiché essi formano un complicato sistema misto in parte ideografico
e in parte fonetico: per esempio il suono ta può avere piú significati – avvoltoio, fascio di
bastoni o torcia – e quindi possiede un proprio glifo sillabico, ma diversi glifi ideografici. Il
primo studioso che comprese questo sistema è stato l’epigrafista russo Yuri Knorosov negli anni
Cinquanta, che pubblicò una grammatica base dei glifi maya.

Un’altra rivoluzione nello studio della scrittura maya venne condotta dagli epigrafisti Heinrich
Berlin e Tatijana Proskouriakoff, i quali riuscirono a leggere le iscrizioni delle stele che
raccontavano la storia del popolo maya: «Ora conosciamo gli antichi governanti e di molti non
soltanto sappiamo i nomi, ma anche che faccia avevano, conosciamo le loro origini, le loro opere,
quello che edificarono, contro chi combatterono o con chi si allearono e quali trucchi escogitarono
per proteggere il loro diritto a governare» – scrive la storica messicana Maricela Ayala Falcón – «e
alla fine hanno smesso di essere figure mitologiche senza nome per trasformarsi in esseri umani».
Cosí le città maya sono diventate libri di pietra che ci permettono di conoscere la loro eredità
spirituale, materiale e sociale.

Il libro sacro del Popol Vuh

Le origini, i miti e la storia della civiltà maya ci sono stati trasmessi inoltre da due libri,
compilati e trascritti in epoca coloniale: uno è il Popol Vuh (letteralmente, “libro della comunità”
o “del consiglio”) o, il testo sacro dei Maya Quiché del Guatemala che raccoglie la genesi, la
mitologia e la storia antica per quanto riguarda le migrazioni e il contatto con le culture olmeca,
tolteca e maya yucatena; l’altro è il Chilam Balam, una raccolta di cronache maya dello Yucatán in
dodici quaderni che contiene testi di carattere religioso, cronologico e profetico.

Il nome Chilam Balam (“colui che è bocca”) era un titolo che veniva dato ai sacerdoti di Maní che
interpretavano le volontà divine. I sacerdoti erano una casta privilegiata nell’ universo maya e
secondo la loro concezione religiosa il mondo era stato creato da entità sovrannaturali e poteva
continuare a esistere grazie alle energie divine, alimentate però dalle azioni degli esseri umani. I
sacerdoti erano esperti astronomi e per loro vennero eretti numerosi osservatori nei centri
cerimoniali, costruiti secondo le leggi dei movimenti astrali. Per misurare il tempo i Maya
utilizzavano tre sistemi calcolati sulle osservazioni delle ricorrenze cicliche degli equinozi, dei
solstizi, delle eclissi, del passaggio zenitale del sole, della posizione degli astri e delle fasi
lunari.

Un calendario di sorprendente precisione

Per poter stabilire i rapporti tra gli eventi astrali e gli avvenimenti terrestri i Maya avevano
elaborato un Calendario Rituale (tzolkin) di 260 giorni, composto da cicli di 20 giorni
rappresentati da glifi e da 13 cifre, e un Calendario Solare (haab) di 365 giorni – di sorprendente
precisione matematica se confrontato con il calendario del mondo moderno – suddiviso in 18 mesi di
20 giorni ciascuno, piú un breve periodo di 5 giorni nefasti (uayeb), chiamati anche “giorni
sospesi” o “perduti”. La combinazione di questi due calendari veniva incisa con glifi e segni
numerici su una ruota calendaria. Inoltre i Maya utilizzavano il cosiddetto “Conto Lungo”: la base
del sistema numerico era vigesimale con l’ausilio dello “zero” e per rappresentare le cifre venivano
utilizzati dei pallini fino al numero 5, designato invece da una barra, mentre il 20 era raffigurato
da un glifo a forma di conchiglia o di fiore stilizzato.

I periodi del “Conto Lungo” – che copriva un periodo di 5.125 anni, cioè l’intero ciclo della storia
secondo i calcoli maya – erano sempre interpretati da glifi che raffiguravano l’intero anno solare
(tun) che moltiplicato per venti componeva l’unità di un katun che, a sua volta moltiplicato per
venti, raggiungeva l’unità di un baktun, cioè un ciclo di 400 anni. L’era maya era composta da 13
baktun e gli epigrafisti hanno potuto calcolare che – secondo il nostro calendario – i Maya avevano
stabilito l’inizio della loro storia all’11 agosto del 3114 a.C. e che la fine del loro mondo
sarebbe arrivata il 21 dicembre del 2012. Ma a porre termine prima del previsto a questa antica e
grande civiltà ci pensarono i Conquistadores spagnoli che sbarcarono all’inizio del XVI secolo sulle
coste dello Yucatán.

Le divinità

Le credenze religiose dei Maya sono complesse e includono una grande varietà di divinità legate alla
natura, al cielo e al mondo sotterraneo. L’ Universo maya è rappresentato dalla ceiba, l’Albero
Cosmico: al di sopra dell’albero vi è il cielo simboleggiato da un uccello-serpente piumato che
regola l’ordine della natura e del cosmo; la corona dell’albero segna il punto di contatto tra gli
uomini e gli dèi; all’altezza del tronco si trova la Terra e tutto ciò che investe le vicende umane,
mentre le radici affondano nell’Inframondo (xialba), abitato dai nove Signori della Notte. Ai
quattro punti cardinali, designati ognuno da un colore (bianco per il nord, giallo per il sud, rosso
per l’est e nero per l’ovest) è aggiunto un quinto punto, quello centrale, di colore verde o blu.
Secondo il mito fu il dio supremo Hunak-Ku a creare l’ universo, ponendo i suoi quattro figli – i
Bacab – ai quattro angoli del mondo per sorreggerlo.

Una divinità in particolare è presente dappertutto nell’iconografia religiosa dei Maya ed è il dio
Chaac, associato al mais, all’ acqua, alla pioggia e all’ energia vitale in genere. Chaac è una
divinità antropomorfa nata tra i serpenti e i draghi e viene rappresentata come un essere mostruoso
dotato di zanne, occhi spiraliformi e un naso ricurvo che somiglia a una proboscide, da cui il nome
“il dio dal naso lungo”. Talvolta regge tra le mani una torcia, simbolo di siccità, oppure un’ascia,
simbolo del fulmine, e per scongiurare le carestie al dio venivano offerti sacrifici di sangue. Le
maschere inquietanti di Chaac si trovano scolpite dovunque e a grande profusione sui templi e sulle
facciate dei palazzi, specie nei centri cerimoniali delle “terre calde”, nello Yucatán e nel
Campeche, dove le piramidi e i palazzi dei sovrani maya emergono dalla foresta color smeraldo come
gemme abbandonate dagli dèi.

Palenque

Nella regione del Chiapas, nell’umida e impenetrabile foresta che qui regna sovrana, sorge la città
di Palenque, sublime esempio dell’architettura maya di epoca Classica, paragonabile soltanto ai
centri monumentali di Tikal in Guatemala e di Copán in Honduras. Grandiosa doveva apparire Palenque
al tempo del suo massimo splendore, con le piramidi dipinte di rosso avvolte dal verde cupo della
vegetazione tropicale che a tutt’oggi copre ancora gran parte della città che anticamente si
estendeva per 15 chilometri quadrati. Gli edifici piú importanti, come il Gruppo della Croce, il
Tempio delle Iscrizioni e il Palazzo, risalgono tutti alla metà del VII e all’inizio dell’VIII
secolo, quando il regno era guidato dal sovrano Kin Pacal (615-683 d.C.) e da suo figlio Chan Bahlum
(683-702 d.C.). La storia di Palenque è scritta sulle pietre dei suoi monumenti in forma di rilievi,
di stucchi o di glifi, mentre l’architettura stessa si eleva a testimone del pensiero maya: il mondo
dei mortali è rappresentato dal Palazzo e l’ universo degli dèi dai templi del Gruppo della Croce,
mentre la Piramide delle Iscrizioni è il luogo dove l’uomo si fa dio.

Le pareti interne del Tempio delle Iscrizioni recano piú di 600 glifi che illustrano 150 anni della
dinastia regnante tra il VII e l’VIII secolo e che vennero decifrati nel 1958 dall’epigrafista
Heinrich Berlin che riuscí a individuare i cosiddetti “glifi emblematici” (glifi che indicano i nomi
di sovrani e di città e che possono paragonarsi ai cartigli egiziani). Negli anni Cinquanta venne
inoltre svelato un altro mistero: la Piramide celava nelle sue viscere il sepolcro di un grande
sovrano (forse Kin Pacal) che qui riposava insieme al suo tesoro di giada. La scoperta fu
fondamentale per la conoscenza del mondo maya, poiché fino ad allora si era creduto che le piramidi
fossero soltanto edifici di culto e non anche monumenti funebri che nascondevano tombe.

A spasso per Palenque

Il Palazzo che si erge al centro di Palenque su una piattaforma alta 10 metri è in realtà un
agglomerato di vari edifici addossati gli uni agli altri che vennero costruiti in un arco di 120
anni a partire dal 600 a.C., quando Palenque era governata dalla regina Zak Kuk, madre del grande
sovrano Pacal. Tutti gli ambienti sono raggruppati intorno a delle corti e sono decorati con ricchi
stucchi – un tempo dipinti di giallo, verde e blu – che raffigurano scene di incoronazioni o le
imprese memorabili dei sovrani. Sui gradini della corte centrale sono incisi numerosi glifi del
calendario, mentre lungo le pareti sono state innalzate delle lastre con immagini di schiavi o di
prigionieri di alto rango, a giudicare dalle vesti sfarzose che indossano.

Il Gruppo della Croce , costruito alle spalle del Palazzo sul lato sinistro del torrente che
attraversa la città, è costituito da tre templi: il Tempio della Croce, il Tempio della Croce
Fogliata e il Tempio del Sole. Si tratta di tre edifici a pianta rettangolare sormontati da una
struttura a cresta, con pilastri che scandiscono la facciata, mentre l’interno è diviso in tre
piccole stanze dalla falsa volta, tipica dell’architettura maya, rivestite da pannelli istoriati. Il
Tempio della Croce e quello della Croce Fogliata devono il loro nome a un’errata interpretazione dei
primi scopritori, che videro sulle pareti un rilievo che somigliava a una croce, ma che in realtà
raffigurava la Ceiba, l’Albero Cosmico dei Maya. Il Tempio del Sole mostra invece delle immagini di
giaguaro e si pensa quindi che fosse dedicato ai sacrifici di sangue e alla guerra. Ai tre templi
erano associate altrettante divinità di cui non si conoscono i nomi e perciò ricordate come “Triade
di Palenque”.

La Piramide delle Iscrizioni è invece l’edificio piú imponente dell’antica Palenque e dalla cima
della ripida gradinata si può cogliere l’intera città che si perde nel mare verde della foresta
tropicale. I pilastri della facciata sono decorati con stucchi che mostrano il re Pacal insieme al
dio K, una divinità legata alla classe dominante. In origine i rilievi erano dipinti seguendo delle
regole precise: il rosso serviva per colorare i corpi dei re e le parti umane delle figure
antropomorfe che rappresentavano la terra; il giallo veniva usato per le immagini di felini, per le
piante acquatiche e per i serpenti ed era il colore dell’Inframondo; il blu era invece il simbolo
del cielo e in questa tonalità venivano dipinti gli dèi e gli attributi divini dei sovrani.

Quando, nel 1949, l’archeologo Alberto Ruz Lhiullier aprí una botola nel pavimento del Tempio delle
Iscrizioni di Palenque, non aveva la minima idea di aver fatto una delle scoperte piú clamorose
sulla civiltà maya. Ci vollero quasi tre anni per liberare la gradinata sottostante da terra, calce
e pietre. Finalmente, nel 1952, Alberto Ruz poté scenderla e accedere al ventre della piramide: il
passaggio era però ancora ostruito da due muri, l’uno di detriti e l’altro costruito in pietra. Ai
piedi di questo secondo ostacolo Ruz trovò un cassettone di pietra che conteneva alcune offerte
votive: orecchini, pezzi di collana, due piatti di ceramica e una perla. Una volta abbattuto il
muro, l’archeologo vide sei scheletri – cinque di sesso maschile e una donna – che recavano gli
attributi dei personaggi di alto rango: avevano il cranio deformato e i denti incrostati. Ruz era
ormai certo che, oltrepassando quella camera, avrebbe potuto svelare il segreto della piramide,
poiché gli scheletri appartenevano probabilmente ai dignitari che erano stati sacrificati alla morte
di un re.

Rimosso l’ultimo ostacolo, Ruz penetrò in una stanza lunga 9 m, larga appena 4 e alta 7, con nove
grandi figure di stucco che decoravano le pareti, mentre il pavimento era quasi interamente occupato
da una massiccia lastra scolpita sormontata da un coperchio di pietra con un bassorilievo che
raffigurava l’Albero Cosmico, alla cui sommità era Itzámná, il dio supremo, e inoltre un sovrano che
emerge dalle fauci del Mostro Terrestre, simbolo di morte. Ormai non vi erano piú dubbi: doveva
trattarsi del sepolcro di un’importante autorità regnante a Palenque. Tra mille difficoltà tecniche
Ruz riuscí a far sollevare il pesante coperchio e vedere il volto dell’antico sovrano: «La prima
impressione fu quella di contemplare un mosaico verde, rosso e bianco, ma poi il mosaico si scompose
in dettagli e vidi ornamenti di verde giada, ossa e denti dipinti di rosso e frammenti di una
maschera» – raccontò Ruz in seguito. Il corredo funerario era ricchissimo e consisteva in un
diadema, orecchini, una collana, un pettorale, bracciali, anelli, statuine e una maschera tutti in
giada, nonché preziose teste in stucco, forse ritratti dello stesso sovrano. Sebbene molti studiosi
abbiano identificato il defunto con il re Kin Pacal (il Signore Scudo Solare), Alberto Ruz non fu
mai d’accordo con questa interpretazione e a tutt’oggi non c’è ancora una spiegazione definitiva.

Le città del Rio Usumacinta

Accanto a Palenque vennero a formarsi in epoca Classica altre importanti città-stato e centri
cerimoniali come Piedras Negras (oggi in Guatemala sul confine con il Messico), che ha conservato
una serie di splendide stele con iscrizioni; Yaxchilán, che si estende su due acropoli lungo le rive
del fiume Usumacinta e dove sono stati portati alla luce dei preziosi rilievi che illustrano le
cerimonie del passaggio di potere tra i sovrani, atti di autosacrificio rituale e scene di
battaglia; e Bonampak (in lingua maya vuol dire “muri dipinti”), che possiede un tempio con le piú
belle pitture del Periodo Tardo Classico dei Maya: vi sono raffigurate scene di battaglia con
guerrieri che vanno a caccia di prigionieri da sacrificare, cerimoniali di corte con danzatori e
figure grottesche al cospetto dei sovrani, vivide rappresentazioni di sacrifici umani e scene di
autosacrificio, un atto che consisteva nel trafiggersi la lingua o i genitali con una cordicella
ricoperta di spine per raccogliere le gocce di sangue da offrire agli dèi.

Piú a sud, in una valle abitata oggi dalle popolazioni Lacandoni, i Maya costruirono l’immenso
complesso palaziale-religioso di Toniná (“casa di pietra”) che divenne nel Periodo Postclassico
l’avamposto militare della regione. Gli edifici e i templi, costruiti interamente in mattoni di
pietra, si sviluppano su sette terrazze sovrapposte che danno alla città un’immagine piú di fortezza
che non di centro religioso. Tutte le pareti erano ricoperte da stucchi di cui si sono salvate
alcune immagini che raffigurano le divinità dell’Inframondo. Ogni piattaforma possiede diversi
templi, tombe, troni, pozzi per il sacrificio, labirinti e gallerie sotterranee che portano fuori
dalla cittadella. Negli anni dell’improvviso e misterioso collasso della civiltà maya intorno al X
secolo, Toniná riuscí a sopravvivere alla crisi – per un certo periodo estese la sua influenza fino
a Palenque, ormai decaduta – e continuò a prosperare accanto ai grandi centri maya-toltechi come
Chichén Itzá e Mayapán.

Uxmal

Nelle antiche cronache del Chilam Baalam Uxmal viene descritta come una città ricca e fiorente,
capoluogo religioso e amministrativo dei Maya dello Yucatán, che abitavano nelle terre collinose di
Puuc, nome che designa anche il particolare stile architettonico di quella regione. L’edificio piú
maestoso di Uxmal è la Piramide dell’Indovino, costruita in forma semi-ellittica in stile
puuc-chenes: si possono riconoscere cinque fasi di sovrapposizioni architettoniche, a iniziare dal
tempio piú antico che risale al VI secolo d.C. ed è decorato con numerose maschere del dio Chaac,
fino al primo Periodo Postclassico, quando la città venne occupata intorno al 1000 d.C. dalla
dinastia degli Xiú, una popolazione di lontana origine maya che introdusse nuovi culti e nuove
politiche. Nella struttura inferiore della piramide venne scoperta la cosiddetta Regina di Uxmal,
una scultura che raffigura il volto tatuato di un sacerdote che emerge dalla bocca di un serpente.

Tutta l’architettura di Uxmal denota l’altissimo grado di perfezione raggiunto dagli intagliatori
maya nell’arte della lavorazione della pietra. Lo dimostra anche il Palazzo del Governatore, un
edificio lungo quasi 100 metri che sorge sopra una vasta piattaforma a gradinate e che fungeva
probabilmente da residenza delle massime autorità. Il palazzo è orientato verso il sorgere del
pianeta Venere e presenta una parte inferiore semplice e lineare, mentre il cornicione superiore è
fittamente decorato con i simboli cari alla cultura maya: sul fregio si possono contare 260 maschere
del dio Chaac, tante quanti sono i giorni del calendario dell’anno sacro. La parte posteriore del
palazzo è caratterizzata da una serie di strette porte a forma di punta di freccia che immettono in
un piccolissimo vano, il cui uso è rimasto sconosciuto.

Per lunghi secoli Uxmal è stata una delle città maya piú popolose dello Yucatán, grazie anche a un
prodigioso sistema di approvvigionamento d’ acqua attraverso numerosi chultunes, grandi cisterne che
assicuravano una duratura riserva idrica in un luogo privo di pozzi naturali. All’arrivo degli
Spagnoli, Uxmal era ancora abitata, anche se l’ultima dinastia Xiú aveva da tempo trasferito la sua
capitale a Mayapán. Le prime descrizioni del luogo si trovano nei diari del frate spagnolo Alonso de
Ponce, ma poi scese il silenzio su Uxmal fino alla prima metà dell’Ottocento, quando venne
riscoperta dall’esploratore-scrittore statunitense John Lloyd Stephens e dall’architetto e
disegnatore inglese Frederick Catherwood. Appassionati entrambi delle culture precolombiane,
Stephens e Catherwood si erano avventurati per lunghi anni tra le foreste tropicali del Guatemala,
dell’Honduras e dello Yucatán alla ricerca delle antiche rovine di popolazioni sconosciute – allora
essi ignoravano che si trattava di una cultura omogenea chiamata Maya – e a loro dobbiamo una
preziosa documentazione scritta e illustrata dei maggiori monumenti di quelle regioni.

Le città delle colline Puuc

Oltre a Uxmal nacque nella regione Puuc, tra il VI e il IX secolo, una serie di centri cerimoniali e
urbani, collegati tra loro da una vasta rete viaria, i sacbéoob (sacbé significa “strada bianca”),
viali diritti, larghi fino a 10 metri e costruiti in posizione leggermente elevata. Uno di questi
sacbéoob è ben visibile a Kabáh, dove segna l’ingresso al centro cerimoniale, attraversando un arco
monumentale. Il complesso architettonico piú spettacolare di Kabáh è il Codz-Poop, un edificio dal
colore dorato costruito sopra una piattaforma, di cui si ignora a tutt’oggi la funzione. Il nome
significa “stuoia arrotolata” ed è riferito probabilmente al naso ricurvo del dio della pioggia
Chaac, che orna la facciata con 250 maschere, composte ognuna da 30 pietre intagliate. Sulla stessa
piattaforma si trova anche il Teocalli, un edificio per le funzioni sacre, dotato di numerosi altari
e costruito secondo i dettami dello stile puuc con fasce di doppie colonne sulla facciata e pilastri
nei vani delle porte.

Nonostante una certa uniformità dello stile puuc – grandi complessi palaziali a pianta rettangolare,
gruppi di colonne alternate a pannelli incorniciati, maschere di Chaac sulla facciata e mosaici di
pietra quasi “barocchi” – ognuna delle città si distingue per l’originalità del disegno urbano e per
le variazioni degli elementi architettonici: uno di questi centri è Sayil, fondato alla fine del
Periodo Classico e che possiede un imponente palazzo costruito su tre terrazze, decorato con lunghe
file di semicolonne e pilastri sormontati da capitelli che segnano le porte. Il piano superiore
dell’edificio reca una serie di maschere di Chaac, composizioni zoomorfe e rilievi che raffigurano
il “ dio Discendente»” posti a intervalli regolari.

Poco lontano da Sayil sorge Labná, che fu una delle città piú importanti della regione, colma di
grandiosi edifici tuttora visibili. Il gigantesco Palazzo mostra tutti gli elementi classici dello
stile puuc ed è formato da un edificio centrale e due corpi avanzati costruiti sopra una terrazza
artificiale. Su uno degli angoli arrotondati spuntano le fauci di un serpente dalle quali emerge la
testa di una figura umana, simboli delle divinità dell’ Acqua e della Fertilità. Un ampio sacbé
collega il Palazzo alla piramide del Mirador, dall’alta cresta bianca, e all’Arco di Labná,
costruito con una falsa volta maya e affiancato da due ambienti laterali. Sulla fascia superiore
dell’Arco sono scolpite due nicchie nella forma tipica delle capanne maya fatte di tronchi d’albero
con tetto spiovente di foglie essiccate, come ancora oggi si possono vedere nei villaggi.

Becán e le altre

Tra le due coste – quella del Golfo di Campeche e quella del Mare Caraibico – si trovano centinaia
di città maya, alcune isolate o ridotte a singole rovine, altre raggruppate e dotate di splendidi
edifici. Una delle prime città fondate dai Maya in quelle regioni fu Becán, che possiede delle
imponenti strutture di pietra iniziate intorno al I secolo d.C. nello stile del Río Bec, che
denotano l’influenza dei costruttori di Petén (Guatemala). L’apogeo della città risale al II-IV
secolo quando furono edificati i complessi piramidali con finte torri, grandi pilastri e ripide
scale monumentali. L’intera città era circondata da un profondo vallo circolare con sette ingressi,
gallerie e torri. Gli edifici sono raggruppati intorno a tre piazze: la prima, con al centro un
altare per le offerte agli dèi, è dominata da quattro piattaforme piramidali con strutture per le
osservazioni astronomiche; la seconda piazza è occupata da un grande campo per il Gioco della
Pelota, mentre sul terzo piazzale si erge una piramide massiccia con otto ambienti colonnati sulla
cima e dieci grandi stanze nascoste all’interno dell’edificio dove, forse, venivano consumati riti
individuali come l’autosacrificio.

Un centro politicamente dipendente da Becán era Chicanná – la “casa delle fauci di serpente” –, che
deve il suo nome a un edificio la cui facciata consiste in una gigantesca maschera zoomorfa dalla
bocca spalancata. Poco si conosce della storia di questo sito, scoperto soltanto nel 1969, ma
probabilmente nato come residenza elitaria di persone facoltose, vista la ricchezza decorativa degli
edifici e lo splendore degli oggetti di giada, di alabastro e di ossidiana rinvenuti sotto le
rovine. L’influenza dell’architettura monumentale dei Maya del Guatemala si nota specialmente a
Xpuhil, un altro centro cerimoniale non lontano da Becán, che possiede un vasto edificio centrale
scandito da tre torri, a imitazione dei complessi cultuali di Tikal. L’aspetto piramidale delle
torri di Xpuhil, con vaste scale e templi, è un puro effetto ottico: i gradini sono troppo stretti e
ripidi per essere scalati e dunque sono soltanto decorativi. Sulla facciata delle torri erano
applicate grandi maschere di felini, elemento comune nelle architetture delle culture Río Bec e
Chenes. Un eccellente esempio dei complessi intrecci a mosaico di pietra dello stile Chenes con
influenza puuc è il Tempio di Hochob, costituito da una centrale maschera di Chaac circondata dai
simboli del serpente celeste e da sculture associate ai culti dedicati agli esseri sovrannaturali,
mentre sulla cresta dell’edificio si erge una serie di statue nella rigida posizione “sull’attenti”.

Nell’area di Becán sorgeva anche Balamku, un sito maya scoperto appena nel 1990 e ancora in fase di
scavo. Tra la fitta vegetazione della foresta si intravedono resti di edifici, gradinate e monticoli
a forma piramidale. La costruzione piú imponente è la Casa dei Quattro Re, risalente al Periodo
Classico, che ha conservato un bellissimo fregio dove compaiono giaguari, mascheroni, coccodrilli e
figure ibride. Grandi mascheroni dagli occhi leggermente strabici venivano scolpiti anche a Edzná
nel cuore della regione del Campeche. Qui sorge un centro cerimoniale maya dalla spazialità
sconfinata, con immensi piazzali racchiusi da piattaforme e piramidi. La Grande Acropoli è dominata
dalla Piramide dei Cinque Piani che risale al VI-VIII secolo e ricorda lo stile degli edifici del
Guatemala. Dai glifi presenti sui gradini delle scalinate e delle stele si è potuto risalire a una
dinastia di dieci sovrani che governavano Edzná tra il IV e il IX secolo. In seguito molte strutture
vennero smantellate e ricostruite, ma al volgere del XV secolo la città risultava completamente
abbandonata.

Da Comalcalco a Tulum

Nel Periodo Classico alcuni gruppi maya migrarono dalle foreste dello Yucatán fino alla costa del
Golfo del Messico, nel Tabasco, al confine con le terre dei Totonachi. Il centro piú distante dalla
terra d’origine è Comalcalco, ultimo avamposto maya a Occidente, che ha conservato delle vestigia
grandiose che stilisticamente ricordano Palenque, anche se la tecnica di costruzione è diversa: gli
edifici sono formati da mattoni, tenuti insieme da malta impastata con conchiglie frantumate. Vi
sono otto piramidi con templi che recano ancora ampie tracce di stucco bianco e un’acropoli sulla
quale venne edificato un possente palazzo con torri, gallerie, cortili e un sofisticato sistema
idraulico. Dall’alto del palazzo lo sguardo spazia a 360 gradi sull’orizzonte, segnato da una linea
netta che divide il cielo dalla fitta vegetazione della foresta tropicale.

Sul versante opposto, nella regione del Quintana Roo che comprende la fascia costiera del Mare
Caraibico, i Maya fondarono diverse città-stato, tra cui Kohunlich e Cobá. Quest’ultima fu una delle
città piú estese della civiltà maya, che copriva oltre 50 chilometri quadrati con un monumentale
centro cerimoniale dal quale partivano 45 sacbéoob, le “strade bianche” che raggiungevano distanze
fino a 100 chilometri. Il periodo del suo massimo splendore è da collocarsi tra il VII e il IX
secolo, quando venne costruito il cosiddetto “Gruppo Cobá”, con un’enorme piramide a nove livelli e
un vasto campo per il Gioco della Pelota dotato di massicci anelli di pietra. Tra le radure della
fitta foresta sono state individuate 6.500 strutture superstiti, ma soltanto una piccola, seppur
monumentale parte è stata portata alla luce, tra cui il castello del Nohoch Mul (“grande collina”),
il Tempio delle Pitture e il Gruppo Macancox che prende il nome dal vicino lago e consiste in un
nucleo di stele del VII secolo che rappresentano i sovrani di Cobá accanto alle loro mogli, tutte
scelte tra le dinastie maya di Tikal. Un altro centro monumentale fu Kohunlich, la “collina delle
palme”, che ebbe il suo apogeo tra il IV e l’VIII secolo. La disposizione degli edifici è
rigorosamente orientata verso le costellazioni celesti e si pensa che Kohunlich sia stata un
importante centro religioso per i calcoli astronomici, poiché tutte le strutture possiedono elementi
architettonici per l’osservazione delle stelle, dei solstizi e degli equinozi.

I Maya si insediarono anche direttamente sulla costa, ma pochi sono i siti che hanno potuto
conservare i loro monumenti, poiché erano piú esposti alle incursioni dei nemici. Erano abitate
anche le isole come Cozumel o Jaina, di fronte al litorale di Cancun, dove è stata scoperta una
miriade di preziose statuine che raffigurano sacerdoti, scribi e gente del popolo, talvolta colti in
atteggiamenti maliziosi e spiritosi. Alcuni resti di piramidi e piattaforme con altari sono stati
trovati a Muyil, un luogo ancora tutto da scoprire, mentre piú maestose sono le rovine di Tulum, una
città maya abitata fin dal V secolo che venne fortificata nel Periodo Postclassico, dopo il 1200
d.C. Tulum si affaccia direttamente sul mare Caraibico e già da lontano i navigatori potevano
scorgere le sue possenti vestigia, come il cosiddetto Castello dedicato al dio Discendente, una
divinità metà uomo e metà ape dotata di ali e di coda di uccello, e come il Tempio degli Affreschi
le cui pitture raffigurano molte divinità del vasto pantheon degli dèi maya.

Chichén Itzá

Nel Periodo Postclassico il mondo maya attraversò una grave crisi politica e le dinastie furono
costrette ad allearsi militarmente con popolazioni di origine straniera. Accadde cosí che molte
istituzioni politico-sociali venissero sovvertite e ai sovrani-sacerdoti si sostituissero dei
re-guerrieri. In quell’epoca nacque una capitale potente e autorevole, Chichén Itzá, orgogliosa
metropoli maya-tolteca che dominerà lo Yucatán per circa tre secoli. La città venne costruita con un
mirabile connubio tra elementi maya e toltechi: il grande piazzale cerimoniale avrebbe
rappresentato, secondo il pensiero maya, il luogo primordiale della creazione, mentre l’enorme
Piramide di Kukulkán avrebbe simboleggiato la montagna dove la Prima Madre aveva modellato i primi
uomini nel mais. Su questa struttura maya i Toltechi, provenienti da Tula, introdussero i simboli
delle loro tradizioni guerresche come il “muro dei crani”, i Chac-Mool – forse messaggeri degli dèi
– e le immagini di serpenti, giaguari, aquile e atlanti.

Con l’arrivo della tribú degli Itzá (probabilmente a loro volta di lontana origine maya, ma su
questo punto esistono ancora controversie) la società si militarizzò profondamente e forse il crollo
della città nel XIV secolo è da attribuire alla ribellione delle popolazioni locali contro i
dominatori stranieri. La grande Piramide che domina il piazzale ingloba un edificio maya piú antico
sul quale gli Itzá eressero nel X secolo un tempio, al cui interno erano stati collocati un
Chac-Mool (un altare antropomorfo raffigurante un uomo semisdraiato con le gambe piegate e la testa
sollevata e un recipiente al centro del ventre per le offerte sacrificali) e un trono a forma di
giaguaro, dipinto di rosso e decorato da dischetti di giada per simulare le macchie del manto
felino.

La Piramide venne chiamata dagli Spagnoli con il nome generico di El Castillo, ma in realtà sembra
fosse dedicata al culto di Kukulkán (cosí era definito a Chichén Itzá il divino Quetzalcóatl): le
quatto scalinate hanno i parapetti ornati da lunghissimi “serpenti piumati” le cui fauci si aprono
alla base della piramide, mentre le colonne del tempio superiore sono costituite da serpenti a
sonagli la cui coda sostiene un architrave. Kukulkán fa la sua apparizione nei giorni degli equinozi
di marzo e di settembre quando l’ombra delle nove terrazze si proietta sul muro nord-ovest, creando
l’illusione di un serpente che striscia lungo la piramide. L’importanza dei calcoli
astronomico-calendariali è ribadita in tutto il monumento: le quattro scalinate contano ognuna 91
gradini per una somma totale di 364, a cui va aggiunto l’unico gradino del tempio per un conto
finale di 365 gradini, l’esatto numero dei giorni del ciclo solare.

Il Tempio dei Guerrieri rappresenta la perfetta unione tra architettura maya e ideologia tolteca. La
sua struttura ricorda il Tempio della Stella del Mattino di Tula, l’antica capitale dei Toltechi: la
gradinata centrale è ornata da teste di serpenti piumati e conduce al Tempio scandito a sua volta da
colonne con l’immagine di Quetzalcóatl-Kukulkán, mentre sui muri esterni dell’edificio le statue
dell’eroe divino sono invece incorniciate da maschere del dio maya Chaac. Dalla sommità della
piramide un grande Chac-Mool guarda verso il portico sottostante dove piú di 40 pilastri sono
istoriati con immagini di guerrieri dai pettorali a farfalla e con simboli del giaguaro e
dell’aquila. Luogo di riunione dei guerrieri Itzá era l’adiacente sala, chiamata delle Mille Colonne
per la selva di colonne a rocchi di pietra che sostenevano un tetto, crollato già in epoca antica a
causa delle fragili travi di legno esposte alle intemperie e all’umidità del clima tropicale.

Nel pozzo dei sacrifici

Come raggi di sole dalla Piramide di Kukulkán partono numerosi sacbéoob, tra cui la strada
principale che conduce al Cenote Sacro, il grande pozzo dedicato ai sacrifici e alle offerte. I
cenotes sono pozzi naturali alimentati da sorgenti sotterranee (l’antico nome era chen, per cui
Chichén Itzá può essere tradotto con “sul ciglio del pozzo degli Itzá”) che oltre a essere preziosi
serbatoi d’ acqua, erano considerati luoghi sacri. Per onorare gli dèi della Pioggia e dell’ Acqua
nei pozzi venivano gettate offerte di ogni tipo, da statue di legno a gioielli di giada e oro, da
animali a esseri umani destinati al sacrificio. Dagli inizi del Novecento molti cenotes sono stati
esplorati e, sebbene siano stati rinvenuti diversi scheletri umani, le scoperte piú eclatanti
riguardano le offerte votive di materiali preziosi: dal solo Cenote Sacro di Chichén Itzá sono
riemersi piú di 4.000 reperti tra gioielli e idoli.

La leggenda di Quetzalcóatl-Kukulkán vuole che l’eroe fosse asceso al cielo trasformandosi in
“Stella del Mattino”, cioè nel pianeta Venere. A Chichén Itzá due piattaforme sono dedicate al dio
in questa veste ed egli vi appare con gli attributi di uccello e di serpente. Le osservazioni
astronomiche avvenivano probabilmente nel Caracol, uno dei pochi edifici circolari a chiocciola
della cultura maya e tolteca. Su un doppio basamento dagli angoli smussati venne costruito un
edificio in blocchi di pietra levigata scandito da quattro porte, mentre sul tamburo superiore
furono applicate delle maschere di Chaac in corrispondenza delle aperture. Un ulteriore piano del
Caracol presenta invece delle finestrelle da cui si affacciavano i sacerdoti-astronomi per scrutare
il cielo. Qui, senza strumenti se non due assicelle di legno incrociate, i sacerdoti potevano
seguire il cammino del sole e della luna, le costellazioni e studiare esattamente l’arrivo dei
solstizi e degli equinozi. Con grande pazienza annotavano lo scorrere del tempo e la loro perizia li
aveva portati all’elaborazione di un calendario solare di 365 giorni, con uno scarto infinitesimale
su quello stabilito dagli astronomi moderni.

La presenza dei Maya riappare chiaramente osservando le rovine della cosiddetta Chichén Vecchia con
il vasto Complesso delle Monache – chiamato cosí per la sua struttura conventuale – risalente al
Periodo Classico e decorato sulla facciata principale da intrecci geometrici, mentre gli angoli
arrotondati sono formati da maschere sovrapposte del dio Chaac. Gli edifici annessi rappresentano
anch’essi un monumentale omaggio al dio della Pioggia, con numerosi mascheroni dalle fauci
spalancate e fregi con serpenti stilizzati. Vi era anche un Tempio dedicato al dio supremo Itzámná,
rappresentato in veste di uccello-serpente: l’edificio viene chiamato Tomba del Gran Sacerdote e
consiste in una struttura piramidale costruita sopra un pozzo, mentre al suo interno sono state
rinvenute sette tombe con numerosi scheletri accompagnati da ricche offerte.

Uno dei luoghi piú impressionanti per spazialità e forza è il gigantesco Campo per il Gioco della
Pelota: la corte misura circa 170 metri di lunghezza per circa 50 di larghezza, mentre i muri
laterali – ornati da una fascia a forma di serpente – sono alti quasi 8 metri e gli anelli sono
fissati a un’altezza di oltre 7. Guardando quei bersagli cosí alti viene spontaneo chiedersi come i
giocatori potessero lanciare la pesante palla di caucciú fin lassú senza usare le mani, colpendola
soltanto con i gomiti, le ginocchia e i fianchi. Poco oltre il Campo della Pelota i Toltechi
costruirono la piattaforma dello Tzompantli, il “muro dei crani”, e quella della Casa delle Aquile
dedicata ai corpi militari elitari. Sul “muro dei crani” venivano esibiti i teschi dei giocatori
sacrificati: i Toltechi avevano introdotto questo rito nel mondo maya, nel quale esisteva sí il
sacrifico umano, ma non aveva mai raggiunto livelli cosí cruenti. L’importanza del sangue versato
nelle società guerriere appare chiaro anche nei rilievi che decorano la Casa delle Aquile dove
giaguari e rapaci –emblemi dei due ordini militari piú importanti, nonché simboli rispettivamente
del Sole notturno e del Sole diurno – divorano cuori umani.

Un gioco tra Sole e ombre

Il Gioco della Palla era noto fin dal tempo degli Olmechi ed era legato a un antico mito tramandato
dal Popul Vuh che racconta la lotta tra le divinità terrestri e solari e i demoni dell’Inframondo.
Il gioco era associato al culto del Sole che doveva rinascere ogni giorno abbandonando il mondo
delle tenebre: il campo da gioco rappresentava la Terra, mentre la palla simboleggiava il Sole, per
cui il giocatore che lasciava cadere la palla doveva essere sacrificato poiché aveva impedito al
Sole di rinascere. Vi erano civiltà come gli Zapotechi e i Totonachi dove il Gioco della Pelota era
diventato un’ossessione – nel centro cerimoniale di El Tajín esistevano ben 14 campi di gara – anche
se le regole e l’abbigliamento dei giocatori cambiavano a seconda dei riti, che culminavano comunque
quasi tutti nel sacrificio di sangue.

Nel Gioco della Pelota di Chichén Itzá si fronteggiavano due squadre formate da sette elementi
ciascuna, le cui immagini compaiono sui rilievi che ornano la base dei muri: i giocatori erano
protetti da cinture che coprivano le parti vulnerabili dalle natiche alle ascelle e da paracolpi
sulle braccia e sulle ginocchia. Sui limiti nord e sud del campo furono costruite due ampie
piattaforme con due templi dedicati al Sole e alla Luna, anch’essi coperti interamente da
bassorilievi. Addossata al muro esterno si trova una piramide tronca, chiamata il Tempio dei
Giaguari che, nella parte bassa, possiede una camera decorata da rilievi con al centro un trono di
pietra a forma di giaguaro. La sala sulla cima, visibile dal campo di gioco, è sorretta da due
giganteschi serpenti a sonagli ed era adibita a stanza rituale durante le competizioni.

La fine dei Maya

Chichén Itzá era una delle tre città governate da gruppi guerrieri giunti nello Yucatán da terre
straniere, i quali avevano imposto il loro dominio nel territorio maya: gli Itzá si erano stabiliti
a Chichén Itzá, gli Xiú a Uxmal e i Cocom a Mayapán. Le rivalità tra i tre regni si accentuarono nel
XIII secolo e, secondo le cronache del Chilam Balam, la signoria di Mayapán riuscí a rovesciare la
dinastia di Chichén Itzá, affermando cosí la propria supremazia sulla regione. Anche Mayapán venne
costruita nel segno del “serpente piumato” Kukulkán e la disposizione degli edifici fa pensare a una
Chichén Itzá di dimensioni minori: il centro cerimoniale comprende la Piramide di Kukulkán, il
Tempio dei Guerrieri con sale colonnate, un Tempio del Pianeta Venere e un Caracol che serviva da
osservatorio astronomico. Il potere dei governatori di Mayapán venne spezzato nella stessa maniera
violenta con la quale era nato: nel 1441 i nobili della città, stanchi della tirannia Cocom, si
allearono con il gruppo Xiú e uccisero l’ultimo sovrano insieme a tutta la sua famiglia. Da allora
lo Yucatán rimase in preda alla guerra civile, durante la quale sedici piccoli regni si combatterono
ferocemente.

Questo sarà lo scenario che i Conquistadores spagnoli troveranno al loro arrivo nello Yucatán nel
1527, ma le discordie dei singoli feudi non faciliteranno la conquista: gli Spagnoli sono costretti
a battersi su piú fronti e soltanto alla fine del XVI secolo la regione può venire parzialmente
assoggettata. Gli ultimi Maya resisteranno disperatamente ai nuovi padroni, alle loro leggi e alla
nuova religione, il cristianesimo. L’Ordine dei Francescani cercherà di dominare la popolazione
assumendo il ruolo insieme di predicatori, politici e giudici: nelle cronache sono ricordati i
violenti metodi inquisitori dei frati, che suscitano grande scompiglio tra gli Indios, tanto che
molti preferiscono suicidarsi piuttosto che vivere nel terrore. Rimane celebre l’autodafé del
vescovo Diego de Landa, personaggio ambiguo che, pur lasciando una preziosa documentazione sulle
tradizioni maya, era un implacabile persecutore dei “pagani”: nella pubblica piazza di Maní – la
città porta il nome profetico di “è tutto finito” ed era stata l’ultima sede dei Maya Xiú – fece
bruciare sul rogo tutti gli antichi codici maya, distruggendo un tesoro inestimabile, abbatté gli
idoli e fece giustiziare gran parte della popolazione. Fu questa la fine morale della cultura maya,
anche se per secoli sono continuate a esistere sacche di resistenza nella giungla del Quintana Roo e
del Chiapas, che vennero però spezzate definitivamente alla fine dell’Ottocento dalle prime truppe
federali del Messico.

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