Incontro con un uomo straordinario: Georgi Ivanovic Gurdjieff

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Incontro con un uomo straordinario: Georgi Ivanovic Gurdjieff

di Walter Catalano

Nell’agosto del 1944 un vecchio signore dall’aspetto vagamente orientale uscì dal suo appartamento
al numero 6 di Rue des Colonels-Renard ed attraversò le vie concitate di una Parigi in cui gli
occupanti tedeschi si preparavano a fare i bagagli. Era diretto alla camera d’ospedale dove un
giovane di poco più di trent’anni stava morendo per le conseguenze dell’infezione ad una ferita
procuratagli da un bombardamento americano.

Il giovane si chiamava Luc Dietrich, aveva scritto due romanzi1 ed era indubbiamente un allievo
molto dotato; il vecchio signore si chiamava Georgi Ivanovic Gurdjieff e sotto molti aspetti lo si
sarebbe potuto dire un maestro.
Maestro e allievo si guardarono senza parlare: non c’era molto da dire. Poi il maestro depose nelle
mani tremanti dell’agonizzante il dono che aveva portato con sé: un’arancia.

Molti uomini intelligenti, come lo scrittore, utopista e filosofo Lanza del Vasto, amico di
Dietrich, che si autoinvestì del ruolo di testimone dell’incontro, volendo troppo capire non
compresero un gesto semplice e riferirono scandalizzati dell’atteggiamento meschino ed insensibile
che quel gesto esprimeva. In realtà un gesto è uno specchio: sugli specchi Gurdjieff aveva costruito
il suo apostolato.

«Per via della sua reputazione -ha scritto Fritz Peters2- le persone raramente venivano a contatto
con un individuo chiamato Gurdjieff; esse incontravano piuttosto, l’immagine che si erano
precedentemente create nella loro mente».

E perché questa immagine infrangesse sempre e comunque le aspettative più ovvie, perché l’incauto
postulante non si trovasse di fronte un cliché ma un essere autentico, capace di dare o di togliere
ma soprattutto di disseminare conoscenza, Gurdjieff fu costretto ad indossare spesso una maschera di
apparente fraudolenza per percorrere una via aspra e difficile, quella che i sufi chiamano la “via
di malamat”: la via del biasimo.

«Per esempio -testimonia Henri Tracol3- non ha mai esitato a far sorgere dubbi su se stesso con il
tipo di linguaggio che usava, con le sue contraddizioni calcolate e col suo comportamento, ad un
punto tale che la gente intorno a lui, in particolare chi aveva la tendenza ad idolatrarlo
ciecamente, fosse finalmente costretta ad aprire gli occhi sul caos delle sue reazioni».

Da qui la necessità di confondere le acque, di camuffarsi, di barare su tutto quello che riguardava
la sua identità personale: quasi a ricordare che quel che davvero contava non era la sua persona, ma
l’insegnamento di cui era portatore. Dice un motto zen: «se qualcuno vi indica la luna dovete
guardare la luna, non il dito puntato ad indicarla».

Chiunque sia stato quindi quest’uomo certamente straordinario, che molti hanno cercato di
classificare in qualche categoria, ma che ad ogni categoria è sfuggito: autore di libri senza essere
scrittore, di musiche senza essere musicista, ‘maestro di danza’ per vocazione, cuoco raffinato,
attore situazionista se mai ve ne fu uno, esseno, tantrista, sufi o «incrocio fra uno gnostico ed un
dadaista» -come disse di lui Henry Miller- poco importa. Esiste un insegnamento, preciso e
raggiungibile, e questo è un dato di fatto.

«Gli uomini non sono uomini», dice in sostanza Gurdjieff, e quando si riferisce all’uomo “così
com’è” mette sempre la parola fra virgolette. Il problema essenziale si riduce a questo: uscire
dalle virgolette.
Il primo ostacolo, quello fondamentale, è la nostra stessa illusione: illusione di essere, di avere
un io unico, di poter fare.

«Tutto accade. Tutto ciò che sopravviene nella vita di un uomo, tutto ciò che si fa attraverso di
lui, tutto ciò che viene da lui, tutto questo accade. […] L’uomo è una macchina. Tutto quello che
fa, tutte le sue azioni, le sue parole, pensieri, sentimenti, convinzioni, opinioni, abitudini, sono
i risultati di influenze esteriori […] movimenti popolari, guerre, rivoluzioni, cambiamenti di
governi, tutto accade. […] L’uomo non ama, non desidera, non odia -tutto accade.»4

Per poter fare bisogna prima essere, e per poter essere bisogna prima aver preso coscienza della
propria fondamentale inesistenza. La dichiarazione può suonare sostanzialmente scandalosa ad un
orecchio occidentale, ed ecco sollevarsi comode accuse, da parte di molti, a denunciare una dottrina
inumana e crudele, laddove si dovrebbe parlare piuttosto di “obbiettiva imparzialità”.
In Gurdjieff il concetto di benevolenza e di misericordia non si associa con quello di dolcezza:
qualcuno giustamente lo disse «uomo di spietata compassione». Un altro uomo venuto a portare non la
pace, ma una spada. D’altronde l’unica cosa simile ad una definizione che Gurdjieff abbia mai dato
di sé, oltre a “maestro di danza”, è stata quella di “esoterista cristiano”; ma prontamente
aggiungeva:

«Il Cristianesimo dice esattamente questo, amare tutti gli uomini. Impossibile. Allo stesso tempo è
assolutamente vero che è necessario amare. Ma prima bisogna essere, solo dopo si può amare.
Sfortunatamente, col passare del tempo, i moderni Cristiani hanno adottato la seconda metà, amare,
ed hanno perso di vista la prima, la religione che avrebbe dovuto precederla. Sarebbe stupido da
parte di Dio chiedere all’uomo ciò che questi non può dare.»5

La nostra vita, così com’è, è solo reazione meccanica a stimoli esterni: quello che chiamiamo io è
un groviglio confuso di piccoli io in perenne conflitto fra loro. Non c’è unità in noi: «l’uomo è
plurale. Il nome dell’uomo è legione»6. Da qui la necessità di costruirsi un Centro di Gravità, o
Centro Magnetico, costituito dall’Insegnamento, intorno al quale agglutinare un certo numero di io e
procedere dalla molteplicità verso l’unità. La via è data dallo sforzo cosciente e dalla sofferenza
volontaria. Lo sforzo cosciente è attenzione, presenza, ricordo di sé; la sofferenza volontaria è
invece l’abbandono delle proprie certezze, delle proprie opinioni, della propria affermazione
meccanica di se stessi, del desiderio di rassicurazione, del conforto intellettuale del proprio
senso di sé con le sue pretese di importanza e di onniscienza.

Lo sforzo consiste anche nello smascheramento delle emozioni negative -ansia, rabbia,
autocommiserazione, vanità, amor proprio, ecc.- dell'”immaginazione”, cioè il credersi ciò che non
si è, e dell'”identificazione”, concetto non dissimile da quello che i Buddhisti chiamano
‘attaccamento’. I fini di questo sforzo non sono morali o moralistici: si può parlare con freddezza
ed efficacia di controllo della dispersione energetica nel contesto generale della “macchina” umana.

Viene dichiarata interiormente quella che René Daumal chiama la Guerra Santa: la nostra “essenza”
-ciò che è innato e ‘naturale’ in noi- cresce nutrendosi della “personalità” -ciò che è indotto,
acquisito dall’esterno- che normalmente la soffoca. In questa guerra -e non si può non pensare a
Krishna ritto sul cocchio accanto ad Arjuna- sono abbattute spietatamente tutte le illusioni: prima
fra queste, l’assai poco utile convinzione di avere “in dono” un’anima. Niente è in dono, tutto si
paga: se una tale possibilità esiste, anche questa va pagata ed il prezzo è alto.

«Se in un uomo vi è qualcosa capace di resistere alle influenze esteriori, allora proprio questo
qualcosa potrà resistere anche alla morte del corpo fisico. […] Se in un uomo vi è qualche cosa,
questo qualcosa può sopravvivere; ma se non vi è niente, allora niente può sopravvivere.»7

La condizione umana reale e consapevole è il riconoscimento di quello che Gurdjieff chiama «l’orrore
della situazione», ma la maggioranza degli uomini preferisce essere blandita e proseguire
indisturbata il suo sonno. Frasi come «beato chi ha un’anima, beato chi non l’ha, ma sventura e
dolore a chi ne ha solo l’embrione»8 raggelano i facili entusiasmi degli apologeti del New Age,
disturbano i dispensatori di balsami consolatori ed i confezionatori di manuali su “come ottenere
l’Illuminazione in 20 lezioni”. Così come suona sgradevole al sentimentalismo del tipico uomo
religioso, il concetto che

«Per essere capaci di aiutare gli altri, occorre innanzi tutto imparare ad aiutare se stessi. […] Quando un uomo si vede realmente quale è, non gli viene in mente di aiutare gli altri -si
vergognerebbe di questo pensiero. […] Soltanto un egoista cosciente può aiutare gli altri.»9

Né il sentimentalismo, né il moralismo appartengono all’insegnamento:

«Ciò che è necessario è la coscienza. Noi non insegniamo la morale. Insegniamo come si può trovare
la coscienza. Alla gente non piace sentirselo dire. Dicono che non abbiamo amore, solo perché non
incoraggiamo la debolezza e l’ipocrisia ma, al contrario, rimuoviamo tutte le maschere. Chi desidera
la verità non parlerà mai di amore o di cristianesimo, perché sa quanto ne è lontano.”10

La via di Gurdjieff è una via religiosa nel senso più propriamente etimologico del termine:
re-ligare, cioè riconnettersi, ricollegarsi. Negli ambienti gurdjieffiani l’applicazione
dell’insegnamento viene chiamata “il Lavoro”. La scelta del nome chiarisce la natura del processo
che si vuole mettere in atto.
Ouspensky, il divulgatore più noto delle idee di Gurdjieff, chiama questo percorso “Quarta Via”,
contrapposta alla via del “fakiro”, che lavora solo sul corpo; del “monaco”, che lavora solo sulle
emozioni; e dello “yogi”, che lavora solo sulla mente. Queste vie sbilanciate possono produrre solo
“stupidi santi” (che sono in grado di fare tutto ma non sanno cosa fare) o “deboli yogi” (che sanno
cosa fare ma non possono farlo).

La Quarta Via invece è la «Via dell’Uomo Astuto», quella che equilibra il lavoro delle prime tre,
sviluppando armonicamente tutti gli aspetti dell’essere e permettendo al praticante di non
abbandonare la sua vita ordinaria per rinchiudersi in un monastero, ma, come dicono i sufi, di
«essere nel mondo ma non del mondo». Negli scritti di Gurdjieff in realtà non viene mai menzionata
una Quarta Via, si parla piuttosto, nei Racconti di Belzebù al suo piccolo nipote, di antiche vie
basate su “fede”, “speranza” e “amore”, impulsi di origine divina ma ormai talmente distorti e
sviliti dall’uomo attuale, da essere inservibili. L’immaginario profeta Ashiata Shiemash scopre una
nuova via basata sulla “coscienza morale obbiettiva”, anch’essa di origine divina ma così rara nel
mondo da essersi preservata incorrotta ed essere quindi ancora ‘attiva’: tale coscienza è divenuta
inconscia e deve quindi essere risvegliata.

L’uomo è un essere tricentrico o “tricerebrale”; i tre centri o “cervelli” devono funzionare in modo
armonico e non sbilanciato come di norma. Stomaco (e tutto quel che si trova al di sotto di questo),
cuore e testa o, se si preferisce, corpo, emozioni e intelletto, devono equilibrare le loro funzioni
e non interferire fra loro. Non bisogna quindi sacrificare o mortificare nessuna delle parti
dell’uomo, ma bilanciarle e restituirle alla sfera appropriata:

«Meriterà il nome di uomo e potrà contare su ciò che è stato preparato per lui dall’Alto, solo colui
che avrà saputo acquisire i dati necessari per conservare indenni sia il lupo sia l’agnello che gli
sono stati affidati.»11

Se tipi diversi di uomini, guidati solo da uno dei loro centri -l’intellettuale, l’emozionale, il
sensitivo-motore- sono imprigionati in uno schema prestabilito, il quarto tipo di uomo, che ha
equilibrato i tre centri, può cominciare ad assaporare i primi barlumi di libertà.
Un’idea fondamentale collegata con questa è la differenza fra conoscenza e comprensione: la prima è
fondata su un solo centro, abitualmente il centro intellettuale; la seconda è tricentrica, passa
cioè per tutte le facoltà. Ciò che è compreso, cioè contemporaneamente capito, sentito e percepito,
ci appartiene davvero; la semplice conoscenza è invece del tutto strumentale e aleatoria. Da qui la
scarsa considerazione di Gurdjieff per l’uso puramente intellettuale, teorico delle idee
dell’Insegnamento: senza la comprensione e quindi la pratica, non si può che fraintendere.

Per tentare di controllare la macchina però, bisogna prima studiarne il funzionamento. Tutto
comincia da un’osservazione “obbiettivamente imparziale” di se stessi. Per usare le parole di
Margaret Anderson:

«I primi passi verso la libertà sono l’autosservazione ed il ‘conosci te stesso’. Il sistema di
Gurdjieff inizia con l’osservazione scientifica neutrale di se stessi -con l’esame del proprio corpo
in modo scientifico: inizialmente, basandosi sul centro fisico; più tardi, facendo osservazioni sul
centro mentale e sul centro emotivo. […] Il corpo è l’unico strumento col quale lavorare. Fatene
un buono strumento. Non tollerate che sia esso a controllarvi. […] I nostri corpi sono dei
‘fertilizzanti’ per l’anima.»12

Come in ogni disciplina tradizionale, anche nell’insegnamento di Gurdjieff, l’idea di base è quella
dell’identità fra il microcosmo ed il macrocosmo: l’uomo è l’immagine dell’universo e segue le
stesse leggi. Alla complessa psicologia, la sola aperta alle nostre possibilità esplorative, che
abbiamo appena tratteggiato, si connette una ancor più complessa cosmologia. Uno storico delle
religioni, in termini tecnici, la etichetterebbe probabilmente come “emanazionista” e “gnostica”.

A fondamento della manifestazione vi sono due leggi cosmiche universali: la Legge del Tre (Triade) e
la Legge del Sette (Ottava).

La prima legge postula come ogni fenomeno risulti dall’incontro di tre differenti forze: il pensiero
scientifico osserva invece solo la presenza di due forze (positivo e negativo magnetici; cellula
maschio e femmina, ecc.), ma è ignaro della terza.
Gurdjieff chiama queste forze:

Santa-Affermazione
Santa-Negazione
Santa-Riconciliazione,

oppure

forza attiva o positiva
forza passiva o negativa
forza neutralizzante.

Le tre forze sono osservabili all’esterno ed all’interno di noi, ma non è affatto facile
riconoscerle, specialmente la terza forza. In termini più ordinari si potrebbe parlare anche di
impulso, resistenza e conciliazione. Le triadi si succedono in ‘catene’ in cui

«il maggiore si fonde con il minore per realizzare il medio e così diviene o maggiore per il
precedente minore o minore per il successivo maggiore”13.

Inutile dilungarsi sulle analogie con altre tradizioni: la Trinità cristiana di Padre, Figlio e
Spirito Santo in cui, non a caso, quest’ultimo è il “Paracleto”, l’intercessore; la Trimurti indù di
Brahma, Shiva e Vishnu; i tre Gunas del Sankhya, Rajas il principio dinamico, Tamas il principio
statico e Sattva l’equilibrio; il Sale, Zolfo e Mercurio dell’Alchimia; lo Yin e lo Yang unificati
nel Tao; i Tre Triangoli della Quabbalah; ecc.

La legge del Sette, invece, fornisce la sistematizzazione del corso dei movimenti di una forza nello
svolgere il processo di completamento di un qualsiasi fenomeno: lo sviluppo della frequenza delle
vibrazioni, ascendente o discendente, della forza passa attraverso sette gradi, fasi o “note”
disposte lungo una scala armonica, con due prevedibili punti di stallo (proprio dove mancano i
semitoni tra mi-fa si-do nella scala maggiore mi, re, do, si, la, sol, fa, mi).
Questa legge si può chiamare «legge della discontinuità delle vibrazioni». Nell’universo tutto è
vibrazione, ma in ogni scala di trasmissione di queste, ci sono sempre due punti dove le vibrazioni
rallentano e richiedono uno shock esterno per poter continuare nella stessa direzione. Senza shock
esterno il percorso deraglia e cambia traiettoria: questo accade all’inizio (mi-fa) ed alla fine
(si-do) dell’ottava. In tal modo si spiegano, per esempio, il rilassamento dello sforzo e le
deviazioni dallo scopo originale in ogni impresa umana: una stessa perversa transizione porta dal
Sermone della Montagna all’Inquisizione o dalla ‘libertà, fratellanza ed uguaglianza’ rivoluzionarie
a Napoleone e a Stalin.

Se “ciò che è in alto è come ciò che è in basso”, anche questa legge si applica sia all’esterno che
all’interno di noi: sul piano cosmico l’ottava discendente del cosiddetto “Raggio di Creazione”, che
dall’Assoluto porta allo sviluppo progressivo dei mondi, colma il primo intervallo do-si con il
‘Fiat’ divino ed il secondo fa-mi con la funzione della vita organica sulla Terra, vero e proprio
organo di percezione del pianeta; analogamente sul piano della realizzazione umana, l’ottava
ascendente che porta l’uomo dal sonno meccanico all’essere reale, colma i due intervalli con lo
sforzo consapevole e la sofferenza volontaria proposti dal Lavoro.

Nello spazio compreso fra queste due ottave è racchiuso il destino dell’uomo: essere una pedina
nell’ottava discendente, svolgere passivamente il proprio ruolo di trasformatore di energia, con
tutte le creature viventi, e venire riassorbito a suo tempo nel substrato indifferenziato come parte
dell’ecologia cosmica; oppure entrare di forza nell’ottava ascendente, partecipare di un compito più
alto, essere attivo.

«Nell’universo tutto è materiale e per questo motivo la Grande Conoscenza è più materialista del
materialismo….».

In questo modo il cerchio si chiude, niente è casuale in questo sistema in cui ognuno può scegliere
se seguire la corrente generale, manifestando un’esistenza semiconscia e generando un grado di
energie rudimentali che vengono usate dal cosmo ad un solo livello; o invece cercare di “essere”, di
evolversi consapevolmente, e, applicando il principio “alchemico” della separazione dello ‘spesso
dal sottile’, muoversi verso la capacità di ricevere e generare energie più raffinate, svolgendo un
servizio più alto per le forze della creazione. In entrambi i casi niente viene sprecato: tutto in
natura è “cibo” per qualcosa; tutto viene utilizzato.

L’azione universale e coordinata delle due leggi è esemplificata dal simbolo dell’Enneagramma: un
cerchio che include un triangolo equilatero intrecciato con un’altra figura a sei lati. Dei nove
lati che lo compongono, sei sono ottenuti da 1 diviso per 7 (che produce un numero infinito in cui
non compare mai il 3, il 6 e il 9), gli altri da 1 diviso per 3 (che produce una serie infinita di
3, di 6 e di 9). I punti in cui i lati toccano il cerchio sono numerati da uno a nove. Il cerchio
simbolizza lo zero, il serpente ermetico che si morde la coda: in realtà non si tratta di un cerchio
ma di una spirale, perché il simbolo non è statico ma dinamico. L’Enneagramma rappresenta ogni
processo che si mantiene da solo per autorinnovamento: per esempio la vita. Per questo, secondo
Gurdjieff, è «il moto perpetuo ed anche la pietra filosofale degli alchimisti».

Tutto questo una volta detto lo si può anche dimenticare: si tratta adesso di riscoprirlo, non
perché ci viene spiegato o lo leggiamo da qualche parte, ma perché lo verifichiamo con la nostra
esperienza. L’insegnamento in realtà è soltanto pratico e viene trasmesso esclusivamente per via
orale o tramite esempi diretti che evitano anche la parola. Tutto ciò che Gurdjieff ha scritto è
terribilmente preciso, ma così analogico che solo la personale comprensione, nata dall’esperienza,
può condurre il cercatore al cuore dell’insegnamento. Chi si limita ai libri otterrà ben poco. «Se
non sei dotato di uno spirito critico, la tua presenza qui è inutile», in altre parole dobbiamo
trovare il modo di esercitare il nostro buon senso nell’attrito effettivo con la vita e non
riferendoci a schemi e concetti astratti.

Per quanto abbia spesso interpretato con divertimento e con innegabile immedesimazione, specialmente
nel suo iniziale periodo russo, il ruolo del ‘mago’ e dello ‘sciamano’, Gurdjieff ha sempre
manifestato una certa annoiata diffidenza verso gli occultisti e «gli iniziati di nuova emissione»,
come li apostrofava beffardamente; la ‘magia’ non gli interessava: il vero problema è svegliarsi,
non rendere più confortevole il sonno. La sua posizione ricorda piuttosto lo spoglio rigore e la
ruvida purezza di certi insegnamenti zen. A questo proposito Fritz Peters ricorda:

«Molti anni fa, Aleister Crowley, che si era fatto un nome in Inghilterra come “mago” e che si
vantava, tra le altre cose, di aver appeso per i pollici la moglie gravida nel tentativo di generare
un essere mostruoso, si presentò a Fontainebleau senza essere invitato. Crowley era visibilmente
convinto che Gurdjieff fosse un “mago nero” e lo scopo manifesto della sua visita era di sfidarlo in
una specie di duello di magia. L’incontro si rivelò una delusione poiché Gurdjieff, sebbene non
negasse di conoscere certi poteri che potevano essere definiti “magici”, si rifiutò di fare
qualsiasi dimostrazione. A sua volta, anche il signor Crowley si rifiutò di “rivelare” i suoi
poteri; perciò, con grande disappunto dei presenti, non si poté assistere a nessuna impresa
soprannaturale. Per giunta, il signor Crowley se ne andò con l’impressione che Gurdjieff fosse un
ciarlatano o uno stregone di mezza tacca.»

Non si cerca quindi niente di arcano, ma piuttosto una diversa attenzione per ciò che, ad uno
sguardo superficiale, può apparire banale: «Io insegno che quando piove i marciapiedi si bagnano»,
ripeteva sempre il maestro e, con la stessa tipica ironia, «Ho dell’ottimo cuoio da vendere a quelli
che vogliono farsi delle scarpe».

Per di più, secondo Gurdjieff, la ricerca individuale non era fruttuosa. Il marchio distintivo del
suo metodo fu ‘il gruppo’:

«Un uomo da solo non può fare nulla. […] Siete in prigione. tutto quello che desiderate, se siete
intelligenti, è fuggire. Ma come fuggire? È necessario scavare un tunnel sotto il muro, ma un uomo
da solo non può fare nulla; supponiamo però che ci siano dieci o venti uomini: se lavorano a turno e
si coprono a vicenda, possono completare il tunnel e scappare».

Per questo il Lavoro si è tramandato attraverso gruppi di allievi che, dalla sintonia e dal
conflitto delle proprie diverse personalità, hanno saputo trarre la linfa per far crescere il loro
singolo ramo di uno stesso albero.

I gruppi, nella tradizione “ortodossa”, che deriva immutata direttamente dagli appuntamenti di Rue
des Colonels-Renard, si ritrovano con periodicità regolare. Il conduttore del gruppo assegna gli
esercizi interiori della settimana, i membri possono fare domande o riferire sulle loro esperienze
dei giorni precedenti e vengono letti e commentati brani dei testi più importanti di Gurdjieff o dei
suoi allievi diretti. Generalmente l’incontro inizia con un breve momento di silenzio, chiamato
“rappel”, cioè richiamo a se stessi, che è la ripetizione collettiva della “meditazione seduta”
(svolta con posizione e modalità pressoché analoghe alla classica seduta di Zazen) che ogni membro
del gruppo pratica individualmente ogni mattina. Altre attività possono essere costituite dallo
studio dei Movimenti o Danze Sacre, dall’ascolto delle composizioni musicali di Gurdjieff e dal
lavoro manuale silenzioso, di solito secondo discipline artigianali classiche, come la tessitura, la
ceramica, la falegnameria, il giardinaggio, ecc. Alcuni rituali troppo strettamente legati alla
figura del maestro, come il “Brindisi agli Idioti”, tenuto durante le riunioni conviviali, con
abbondanti libagioni alcoliche, sono stati del tutto abbandonati dopo la morte di Gurdjieff.

Per tradizione “ortodossa” intendiamo quella trasmessa dallo stesso Gurdjieff ai suoi allievi,
riunitisi, dopo la sua morte, sotto la direzione organizzativa di Madame Jeanne de Salzmann, nella
“Fondazione Gurdjieff”, che ha le sue sedi principali a Parigi, Londra e New York. Solo questa linea
assicura la fedeltà all’insegnamento originario. Le altre, dai seguaci di Ouspensky dopo il suo
allontanamento dal maestro, ai fin troppo numerosi gruppuscoli, gurdjieffiani di nome ma non di
fatto, hanno distorto le idee in modo sempre più grave, giungendo talvolta a creare dei veri e
propri “culti” sul tipo di Scientology, pericolosi per la salute e per il portafoglio dell’incauto
cercatore.
Come avvertimento possiamo solo dire che, se si cerca un contatto con un gruppo serio, l’unico modo
di entrare è conoscere qualcuno che è già dentro. Nessun gruppo veramente esoterico metterebbe
inserzioni sui giornali o segnalibri, stampati in carta molto raffinata, dentro le edizioni
gurdjieffiane in commercio. Si pensi sempre a questo dettaglio non secondario, e si ricordi il
consiglio degli antichi: caveat emptor!

Per concludere questa breve e necessariamente incompleta introduzione, torniamo alla stessa immagine
con cui abbiamo aperto: torniamo alla stanza in cui agonizza Luc Dietrich, in cui due uomini si
guardano negli occhi. Se cerchiamo miracoli forse possiamo trovarli a Lourdes, ma non qui. Niente
miracoli. Solo una semplice presenza: qualcuno che in silenzio entra nella nostra camera ed in
silenzio ci porge un’arancia.

Indicazioni bibliografiche

Chi volesse avvicinarsi allo studio delle idee gurdjieffiane legga per prima cosa Frammenti di un
insegnamento sconosciuto (ed. Astrolabio) di P. D. Ouspensky, testo fondamentale di introduzione e
di divulgazione. Poi prosegua con Incontri con uomini straordinari dello stesso Gurdjieff (ed.
Adelphi), che sotto l’apparenza di un’avventurosa ed appassionante “autobiografia mitica” cela
indicazioni assai preziose pur se velate dal simbolismo; ed infine con Vedute sul mondo reale:
Gurdjieff parla ai suoi allievi (ed. L’Ottava), serie di conferenze e dialoghi molto semplici e
chiari.
Per un momento successivo si riserbi invece lo studio di I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote
(recentemente riediti da Neri Pzza), la monumentale opera maggiore di Gurdjieff, che richiede una
comprensione ed uno sforzo superiori a quelli del lettore ordinario. Lo stesso dicasi dell’ultima
opera (incompiuta) del maestro caucasico La vita è reale solo quando ‘Io sono’, tradotta in modo
pessimo ed amputata inspiegabilmente del capitolo introduttivo nell’edizione italiana (ed. Basaia),
si consiglia perciò di leggerla, se possibile, nell’edizione originale inglese o francese.

Chi fosse interessato all’aspetto storico-biografico ed aneddotico legga invece: G. I. Gurdjieff:
Anatomia di un mito di James Moore (ed. Il Punto d’incontro), certo la biografia più documentata ed
attendibile; La nostra vita col Signor Gurdjieff di Thomas ed Olga De Hartmann (ed. Astrolabio),
racconto della mirabolante fuga di Gurdjieff e dei suoi primi allievi, dalla Russia devastata dalla
rivoluzione; La mia fanciullezza con Gurdjieff (ed. Guanda) ed I miei anni con Gurdjieff (ed. Adea)
di Fritz Peters, forse le relazioni più affascinanti e rivelatrici sull’ “uomo” Gurdjieff. Altri
testi importanti sono: L’inconoscibile Gurdjieff di Margaret Anderson (ed. Gremese), testimonianza
della pratica quotidiana del Lavoro a fianco del maestro; Idioti a Parigi di John ed Elizabeth
Bennett (ed. Mediterranee), diario degli ultimi mesi di vita di Gurdjieff; Monsieur Gurdjieff di
Louis Pauwels (ed. Mediterranee), sorta di biografia critica per molti aspetti imprecisa,
scandalistica e fuorviante, ma non priva di suggestioni utili e stimolanti.
In ultimo non possiamo non citare le opere di Renè Daumal, Il monte analogo, La gran bevuta e La
Guerra Santa (contenuta nel volume La conoscenza di sè), la raccolta di lettere Il lavoro su di sè,
tutti pubblicati da Adelphi, forse le testimonianze letterarie più compiute nate dall’Insegnamento.

Per quanto riguarda una scelta dell’opera musicale si ascoltino i dischi o CD: G. I. Gurdjieff:
Sacred Hymns, esecuzione al pianoforte di Keith Jarrett (ed. ECM); Chercheurs de Verité; Chants et
rythmes d’Orient; Rituel d’un ordre Soufi; Chants Religieux (6 voll.), esecuzione al piano di Alain
Kremsky (ed. Valois); Music of Gurdjieff/de Hartmann (2 Voll.), esecuzione al piano di Herbert Henck
(ed. Wergo); e soprattutto The Music of Gurdjieff/de Hartmann (2 Voll.), eseguita dall’interprete
originario e trascrittore/coautore di tutti i motivi di Gurdjieff, Thomas de Hartmann (ed. Triangle
Records); recentemente è stata pubblicata da «Il Manifesto» una compilation su CD dal titolo
Racconti d’Oriente che ospita, fra l’altro, un brano eseguito all’harmonium portatile dallo stesso
Gurdjieff ed una breve conversazione, registrata nello stesso anno della morte del maestro, in cui è
possibile ascoltare la sua voce.

Infine fra i contributi cinematografici, possiamo ricordare principalmente due film: Meetings with
Remarkable Men, liberamente tratto dall’omonima “autobiografia” di Gurdjieff da Jeanne de Salzmann e
diretto da Peter Brook nel 1978 (non esiste un’edizione italiana); e La Montagna Sacra di Alexandro
Jodorowsky, film scandalo dei primi anni settanta che, in modo molto libero e personale, attinge ai
due romanzi di Daumal.

Note

1- Luc Dietrich (1913-1944), scrittore, poeta, fotografo, amico intimo di René Daumal e di Lanza del
Vasto. Dal 1938 partecipò ai gruppi organizzati da Jeanne de Salzmann per conto di Gurdjieff. I suoi
due romanzi pubblicati sono: Le Bonheur des tristes e L’Apprentissage de la Ville. torna al testo ^

2- Da: Fritz Peters, La mia fanciullezza con Gurdjieff , ed. SE, Milano 1992. torna al testo ^

3- Da: Henri Tracol, The Taste for Things That Are True, Element Books Limited, Shaftesbury 1994.
torna al testo ^

4- Da: P. D. Ouspensky, Frammenti di un insegnamento sconosciuto, Astrolabio, Roma 1976 (pag. 27 e
segg.). torna al testo ^

5- Citazione raccolta in: Jacob Needleman, Lost Christianity, Doubelday, N.Y, 1980. torna al testo ^

6- Da: P.D: Ouspensky, cit. (pag.69). torna al testo ^

7- Da: Ouspensky, cit. (pag. 39). torna al testo ^

8- Aforisma n. 29 in: G.I. Gurdjieff, Vedute sul mondo reale: Gurdjieff parla ai suoi allievi,
L’Ottava, Milano, 1985 (pag.262). torna al testo ^

9- Da: Ouspensky, cit. (pag. 116). torna al testo ^

10- Da: Ouspensky, cit. (pag.175). torna al testo ^

11- Da: G.I. Gurdjieff, Incontri con uomini straordinari, Adelphi, Milano, 1977 (pag. 30). torna al
testo ^

12- Da: Margaret Anderson, L’inconoscibile Gurdjieff, Gremese, Roma, 1989 (pag. 39). torna al testo
^

13- Da: G.I. Gurdjieff, I racconti di Belzebù al suo piccolo nipote, L’Ottava, Milano, 1988. torna
al testo ^

Walter Catalano
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