IL TARANTISMO OGGI

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IL TARANTISMO OGGI

di Giulio Castellano

In passato il tarantismo si delineava come un sistema culturalmente elaborato di liberazione
dall’angoscia, un efficace processo di risoluzione dei conflitti psichici individuali e delle
tensioni sociali. Il tarantismo offriva un preciso rituale terapeutico che prevedeva l’intervento
della danza, della musica e dei colori. Il tarantato, incalzato dal potente simbolismo del ragno che
morde, veniva accompagnato dai musicisti-terapeuti e dalla comunità tutta attraverso un violento
quanto risolutore stato alterato di coscienza, momento cruciale del rito. Il fenomeno del tarantismo
riguardava quasi esclusivamente il mondo rurale salentino, ma si inseriva nel più ampio contesto di
pratiche magico-prottettive che caratterizzava le civiltà contadine dell’intero Sud Italia (1) .

Già nel 1959 Ernesto De Martino intravide la profonda disgregazione culturale verso cui si avviava
quello che lui definiva “esorcismo musicale-coreutico-cromatico”. L’antropologo napoletano imputava
questo declino soprattutto all’azione omologante della religione cattolica, che, nel tentativo di
sottomettere a sé forme di religiosità considerate pagane, aveva finito per frantumare “il
tarantismo in una serie di grotteschi ibridismi senza avvenire, e soprattutto in una serie di crisi
senza orizzonte”. Durante il culto cristianizzato della taranta “il tarantismo si spogliava di ogni
dignità culturale, di ogni efficacia simbolica […]” (2) . Anche quel tarantismo, già profondamente
disgregato agli inizi degli anni Sessanta del XX secolo, è oggi del tutto scomparso.

Le motivazioni che hanno trascinato questo ultimo tarantismo ad una rapida e totale estinzione sono
da iscrivere anche nel quadro degli impressionanti mutamenti socio-culturali degli ultimi decenni
del XX secolo. Le spiegazioni popolari (degli attori sociali che agivano nel tarantismo) ovviamente
non fanno alcun riferimento all’analisi dei fattori di natura economica, storica e sociale che
possono aver portato all’estinzione del tarantismo; esse sono piuttosto la logica conseguenza della
convinzione, antica e indiscutibile, dell’esistenza della “famigerata” taranta. Alcune testimonianze
raccolte non più di quindici anni fa mostrano come la scomparsa del tarantismo venisse imputata al
fatto che la taranta non risultasse più nociva all’uomo perché i “veleni” contenuti nei moderni
concimi avevano alterato l’equilibrio della fauna. Ancora nel 1993, il contadino novantenne Luigi di
Acaya (intervistato dallo studioso Maurizio Nocera) affermava con convinzione: “Le medicine che
gettano ora, che irrorano dentro le campagne con il ‘Seccatutto’, quanti animali ci sono tanti ne
distruggono. Adesso tutto è stato distrutto con questo diavolo di medicine, perfino le taragnole, le
civette, tutti gli uccelli che prima facevano del bene alla campagna”(3). Se non ci sono più
tarante, non ci sono più nemmeno le tarantate, perché la tarantola è fredda, “non va in fecondazione
per la generazione” e per questo motivo “non danneggia, non ostacola, non ti fa male”. Una volta,
invece, “in tutti i terreni che erano sani, le tarantole erano molte e siccome prima tutte le donne
erano contadine, andavano a raccogliere le olive e andavano alle viti, maggiormente si sentivano
male” (4) , ricordava il celebre violinista terapeuta Luigi Stifani.

Ma lasciato il campo dell’immaginario popolare (che pur conserva la sua dose di saggezza), in realtà
sappiamo bene che ad essere mutato non è soltanto l’equilibrio ecologico delle terre salentine; è
soprattutto il contesto economico e socio-culturale alla base dello stile di vita ad aver subíto le
più grandi trasformazioni. L’assoluta mancanza di certezze che caratterizzava la vita di una società
prevalentemente contadina come quella coinvolta nel fenomeno del tarantismo si svuota oggi di ogni
significato. Tutta una serie di monolitiche avversità diviene esclusiva materia dei racconti dei
nonni: scompaiono i rischi legati all’incontro con animali pericolosi o la ciclica incertezza del
raccolto; l’angoscia derivante da situazioni di indigenza, miseria e povertà perde consistenza; il
tormento per un amore negato non esiste quasi più; la donna, spesso in posizione di estrema
subalternità rispetto all’uomo, si è emancipata. Sono insomma venute a mancare le condizioni che
portavano a quella che De Martino definiva “crisi della presenza”: non riuscire a superare i
contenuti critici dell’esistenza, sentirsi inadatti al presente. Il rito del tarantismo costituiva
allora una “forma di protezione culturalmente istituzionalizzata” che difendeva appunto la presenza,
l’esistenza, oppressa dalle alienazioni individuali alle quali il tarantismo offriva un orizzonte di
evocazione, deflusso e risoluzione. Grazie alla terapia coreutico-musicale-cromatica, il tarantismo
reintegrava l’individuo sofferente all’interno della comunità.

L’attuale situazione economica e socio-culturale del Salento è ovviamente molto differente rispetto
a quella di quasi mezzo secolo fa, all’epoca in cui De Martino registrava gli ultimi rantolii del
tarantismo. Oggi la “questione meridionale” (di cui proprio De Martino si faceva sostenitore
culturale all’inizio degli anni Sessanta) ha radicalmente cambiato prospettiva. Un Sud Italia
socio-economicamente arretrato è una immagine non più troppo attinente alla realtà. Piuttosto,
nonostante ancora oggi sussista un certo divario economico fra Nord e Sud, si registra un fenomeno
(misurabile su scala mondiale) di livellamento culturale, dovuto in larga parte alla massiccia
invadenza dei mass-media e all’acculturazione globale-informale. Il Salento è oggi una “società
post-industriale”: il settore terziario fornisce la prima fonte occupazionale, il lavoro puramente
esecutivo tende a ridursi, crescono le mansioni intellettuali, informatiche, di marketing e di
controllo. A livello individuale i cambiamenti rispetto ad un non lontanissimo passato sono forse
ancora più profondi: mutato è il senso morale, mutato il sentire religioso, i valori, l’ordine
familiare; la condizione generale della donna nella società è migliorata. Tuttavia nel Salento
ancora esistono vaste aree di crisi economica. Come accennato poc’anzi, si espande sempre più
subdolamente la massificazione perseguita dai mezzi di comunicazione che, dietro l’apparente
democrazia dei consumi, appoggiano un sistema essenzialmente monopolista, fonte di disoccupazione,
emarginazione e insicurezza sul futuro.

In maniera efficacemente sintetica Luigi Chiriatti elenca le cause economiche e socio-culturali che
hanno consegnato il tarantismo all’estinzione. Esse sono: “evoluzione generale del Salento, migliore
condizione di vita, migliore organizzazione del lavoro; emancipazione sociale, culturale, economica
e politica del soggetto più a rischio del tarantismo: le donne. La famiglia si è trasformata da
patriarcale a mononucleare; gli anziani e i vecchi rituali non costituiscono più punti di
riferimento; ed il cerchio magico-rituale-difensivo di una comunità a base contadina si è
definitivamente spezzato. La TV e un’informazione istantanea di tutto ciò che accade nel mondo,
senza intermediazioni, hanno creato l’illusione di essere al centro del mondo, a torto o a ragione.
Come sia sia, il fenomeno ha perso le sue radici rituali. Non si presenta più come una disgrazia ed
un onere; abbiamo, in definitiva, superato la cultura della sofferenza. Sono scomparsi i vecchi
saloni da barba, centri di cultura musicale e serbatoi materiali di suonatori di tarantate” (5).

Appare quindi del tutto comprensibile come l’interazione fra istituzione ecclesiastica e mutato
contesto socio-culturale abbia accelerato l’estinzione del rito magico-religioso del tarantismo,
divenuto ormai incongruente alle sue funzioni sociali. L’attuale civiltà globale dei consumi non
lascia dunque spazio al fenomeno del tarantismo classicamente inteso, avendo estinto le sue
connotazioni di miseria economica. Ma è anche vero che alla trasformazione di un determinato modello
di società si accompagna spesso una risemantizzazione dei significati di un prodotto culturale, una
diversa maniera di connotare un oggetto sociale. Tali cambiamenti presuppongono una
defunzionalizzazione, ossia una perdita di significato del segno, a cui può seguire una
rifunzionalizzazione che, nel nostro caso, apre il tarantismo a nuove connotazioni comunicative. Di
fatto attualmente è in corso un processo di recupero e riadattamento delle antiche modalità rituali
del tarantismo. Esse vengono rielaborate, mescolate, inserite dentro un nuovo contesto
socio-culturale per mezzo di quelle che M.J. Herskovits definisce dinamiche di ritenzione,
reinterpretazione e sincretismo. Per ritenzione si intende la conservazione di un arcaico schema
culturale. La reinterpretazione consiste nella rielaborazione della definizione di quell’oggetto
sociale. Il sincretismo, che nel tarantismo permetteva al rito “pagano” di sopravvivere alla
religione cristiana, oggi è la dinamica per mezzo della quale la società salentina si costruisce
un’identità culturale creata attorno al tema del tarantismo.

La società salentina sta esplorando da qualche anno a questa parte quella fase detta della
“liminalità”, una periodo di transizione da una struttura sociale data ad una sostanzialmente nuova.
La nozione di “liminalità”, studiata a fondo dall’antropologo Victor Turner, indica quella zona di
confine che si viene a creare tra contesti socio-culturali già definiti e nuovi assetti. Turner
asserisce che la liminalità consista “nella scomposizione della cultura nei suoi fattori costitutivi
e nella ricomposizione libera o ludica dei medesimi in ogni e qualsiasi configurazione possibile,
per quanto bizzarra” (6). La sorgente di questi processi di trasformazione sociale sgorga da quello
che Turner definisce “dramma sociale”, il limbo della creatività dove non sempre la potenzialità
diventa atto: “un dramma sociale si manifesta innanzitutto come rottura di una norma, come
infrazione di una regola della morale, della legge, del costume o dell’etichetta in qualche
circostanza pubblica […]. [Questa rottura] produce una crisi crescente, una frattura o svolta
importante nelle relazioni fra i membri di un campo sociale, in cui la pace apparente si tramuta in
aperto conflitto e gli antagonismi latenti si fanno visibili […]. La fase finale consiste o nella
reintegrazione del gruppo sociale dell’irreparabilità della rottura fra le parti in conflitto” (7).

In quest’ottica l’analisi della società salentina si inscriverebbe agevolmente in una chiave di
lettura che la vede rappresentata come un campo di tensioni, un luogo di conflitti e di
contraddizioni in cui componenti tradizionali vengono rimescolate e ridistribuite in modo che
accendano nuove dinamiche culturali. Il “dramma sociale” costituirebbe quindi la scintilla del
rinnovato interesse per il fenomeno del tarantismo, sia nell’immaginario collettivo che
nell’ispirazione degli esperti del settore: musicisti, antropologi, operatori culturali.

La ristampa della celebre opera di De Martino, La terra del rimorso, avvenuta nel febbraio del 1994,
e contemporaneamente la pubblicazione della tesi di laurea di inizio Novecento del medico Francesco
De Raho, Tarantolismo nella superstizione e nella scienza, sono solo una delle più evidenti
testimonianze della rinnovata partecipazione culturale verso il fenomeno e la sua eziologia. Il
“pubblico” del tarantismo cresce esponenzialmente grazie all’attività di gruppi musicali
folkloristici, alle fiorenti scuole di tarantella e di pizzica tarantata. Al fianco di fenomeni
prevalentemente legati al folklore, mai del tutto scomparsi, si sviluppa da qualche anno a questa
parte tutto un variegato sottobosco di artisti che trae ispirazione, riarrangia e propone una
versione inedita della tradizionale pizzica-pizzica. Il comune denominatore dei differenti approcci
al medesimo fenomeno consiste nella contaminazione sperimentale volta alle più svariate sonorità:
primo fra tutti, Eugenio Bennato con il suo progetto Tarantapower, ma anche Pino Zimba e gli
Officina Zoè, i Nidi d’Arac e Après la Classe. Il tarantismo è quindi uscito dall’ambito rurale e
contadino, spogliato della funzione catartica, ha operato la sua comparsa nei circuiti commerciali
della cultura metropolitana, giungendo inevitabilmente alla mercificazione del patrimonio
tradizionale.

L’emblema assoluto della riuscita commerciale del prodotto salentino ha il volto dei Sud Sound
System, il caso più eclatante e in un certo senso paradigmatico di questo movimento. Il Sud Sound
System è un gruppo hip-hop/reggae che dai primi anni Novanta calca indistintamente palchi di
provincia o metropolitani, proponendo un sound fusion che unisce il cuore della tradizione al ritmo
caraibico del reggae. I Sud Sound System rappresentano l’esempio più rinomato dell’intreccio fra la
tradizione e l’innovazione musicale: rap, dialetto salentino e ritmi giamaicani si mescolano in
un’originale patchanka (8) musicale (contemporaneamente portata alla ribalta discografica mondiale
dal celebre cantautore franco-spagnolo Manu Chao). Questo suono caratteristico, unito all’uso del
dialetto e ai riferimenti alla taranta e al tarantismo, ha convinto alcuni studiosi a esprimere la
convinzione di un esplicito legame dei Sud Sound System con la cultura tradizionale salentina,
stravolta e decontestualizzata “in forme di cultura metropolitana aventi a che fare nulla o quasi
nulla con la cultura contadina, della quale pure assorbono stilemi, rubano espressioni, utilizzano
frammenti […]” (9).

Due etnologi in particolare, George Lapassade e Piero Fumarola, hanno dedicato alla cultura hip-hop
del Salento uno studio approfondito, Inchiesta sull’hip-hop (10). Nel loro saggio cercano di
dimostrare una sostanziale identificazione del Sud Sound System con la cultura del tarantismo, una
identificazione che d’altra parte sembra essere svelata dal termine “tarantamuffin”, inventato dagli
stessi appartenenti del gruppo per definire il loro genere musicale. Lapassade e Fumarola sono
convinti del fatto che la cultura salentina si sviluppi e si modifichi secondo due forme: da una
parte essa segue il filo della cultura popolare tradizionale legata al rituale del tarantismo,
dall’altra si mescola con aspetti tipici della socialità metropolitana. Il Sud Sound System
rappresenterebbe l’anello di congiunzione tra queste due correnti. Tuttavia, per tracciare un quadro
aderente al vero, bisogna anche notare che gli stessi Sud Sound System, ai primordi della loro
carriera, sembravano quasi rifiutare qualsiasi connessione con il mondo del tarantismo. Il fatto
fornisce le basi all’opinione di quei detrattori che sostengono l’esagerazione (se non l’invenzione)
del legame che unirebbe il Sud Sound System alla cultura del tarantismo terapeutico, come proposto
da Lapassade e Fumarola. Insomma, se il gruppo salentino possa essere ridotto a una originale
manifestazione di controcultura metropolitana o se, al contrario, abbia profonde radici nella
tradizione della taranta, è ancora questione aperta.

Forse per mettere tutti d’accordo, per sancire questo legame con il tarantismo spunta la
dichiarazione di un componente stesso del gruppo salentino che, in una intervista del 1996, associa
il tarantamuffin’ alla “catarsi”. Appare questo il vero senso di vicinanza tra la loro musica e il
rito del tarantismo: esiste, secondo i Sud Sound System, “un suono terapeutico che può servire a
liberarsi dei mali interiori e per trasmettere agli altri energie positive. Lo facevano dimenandosi
le donne colpite dalla tarantola, che si riscattavano così dalla cultura maschilista e dalle assurde
condizioni di lavoro. Aggiungici un po’ di modernità e avrai il Sud Sound System” (11) .
L’esperienza del Sud Sound System rappresenta dunque una tappa fondamentale del fenomeno di
recupero-innovazione-contaminazione del patrimonio culturale salentino.

Un fenomeno che ha visto i suoi albori, secondo l’operatore culturale salentino Vincenzo Santoro,
già negli anni Settanta, quando alcune formazioni musicali si sono impegnate in un programma di
riproposta della musica popolare. Il più importante e famoso di questi gruppi è il Canzoniere
Grecanico Salentino, ancora oggi operante, caratterizzato, ai tempi, da un approccio fortemente
politicizzato e da una spiccata aderenza alla tradizione. A questa prima fase è succeduto un periodo
di “buio assoluto”, una sorta di rifiuto per tutto quello che riguardasse la tradizione popolare. Ma
verso la fine degli anni Ottanta i tamburelli hanno ripreso a suonare. Giovani formazioni musicali
si sono avvicinati alle sonorità tradizionali e hanno preso spunto dall’arte di anziani musicisti
come Luigi Stifani e Uccio Aloisi, spesso durante cerimonie rituali come la festa di San Rocco a
Torrepaduli. Il “movimento” venuto a formarsi è uscito poi dai confini regionali del Salento:
concerti di pizzica-tarantata, mescolata spesso alle moderne sonorità, vengono ora organizzati un
po’ dovunque, approdando nelle piazze, nelle discoteche e nei centri sociali di molte città italiane
ed europee.

La definitiva consacrazione internazionale del “movimento”, a livello commerciale e mediatico, è
avvenuta forse con la creazione, a partire dal 1997, di una manifestazione chiamata “La notte della
Taranta”, organizzata da un consorzio di nove comuni appartenenti alla cosiddetta Grecìa salentina.
Ogni anno, ad agosto, questi maxi-concerti richiamano migliaia di persone che giungono in Salento
per assistere ad uno spettacolo di piazza che vede suonare i migliori musicisti salentini assieme a
grandi nomi della musica italiana ed internazionale, come il jazzista Joe Zawinul, l’ex batterista
dei Police Stewart Copeland, i Radiodervish, Giovanni Lindo Ferretti, fondatore dei CCCP, Raiz, ex
cantante degli Almamegretta, Daniele Sepe e moltissimi altri.

Una corposa corrente dei più recenti studi relativi al tarantismo si prodiga nell’individuare una
relazione tra le forme di transe “religiosa” che si scatenavano nell’antico rituale del tarantismo
(e in altri culti di possessione tuttora esistenti in molte parti del mondo) e gli stati modificati
di coscienza che oggi molte persone, soprattutto giovani, cercano di raggiungere attraverso la
musica e la danza durante quelli che sono stati definiti i neo-riti metropolitani: i
techno-rave-parties illegali, il rito del ballo del sabato sera in discoteca, e, quello che ci
interessa maggiormente, il recente fenomeno dei grandi concerti di musica tradizionale salentina
suonata in un contesto “tecnologico”. Nonostante le doverose differenziazioni tra queste diverse
tipologie di happenings giovanili, esiste almeno un fattore comune che è rappresentato dall’elemento
musicale: il ritmo, ossessivo e ripetitivo, della pizzica tarantata possiede notevoli affinità con
la musica techno “pompata” dai sound system nei rave-parties e con la house-music “stordita” dal DJ
in discoteca. Ripetitività che appare peraltro una delle caratteristiche fondamentali di tutte le
“musiche da transe”.

Per transe o stato modificato di coscienza si intende uno stato di coscienza differente da quello
ordinario. La transe può essere definita come una alterazione psichica, una riorganizzazione della
coscienza, un cambiamento radicale del suo funzionamento abituale. Nulla di incredibile o
spaventoso: lo stato di sogno, lo stato di ipnosi, il dormiveglia, sono tutti stati modificati di
coscienza che quotidianamente ognuno di noi sperimenta. Per molti studiosi non è corretto, a
differenza di quanto sostiene la psichiatria classica, considerare tutti gli stati modificati di
coscienza come inevitabilmente patologici; essi sembrano piuttosto esperienze che presentano aspetti
neuro-fisiologici particolari, poiché è fondamentalmente “la cultura, intesa come insieme di norme e
credenze, che impone un contenuto e un significato; è la cultura e più precisamente l’immaginario
sociale che, a seconda dei casi, può reprimere o facilitare la ricerca e l’espressione di
determinati stati alterati di coscienza.” (12)

Per questo la ricerca di stati modificati di coscienza, lungi dall’essere caratteristica esclusiva
delle società primitive (alla cui base troviamo sempre un culto di gestione di tali stati), è un
comportamento universale connaturato all’essere umano. Essa dà luogo a pratiche diversificate a
seconda dei diversi contesti culturali, perchè ogni società seleziona alcuni stati modificati e li
socializza ritualizzandoli secondo forme specifiche. Secondo Gilbert Rouget “l’universalità della
trance indica che essa corrisponde ad una disposizione psicofisiologica innata della natura umana,
più o meno sviluppata, beninteso, secondo gli individui, mentre la variabilità delle sue
manifestazioni deriva dalla diversità delle culture attraverso le quali essa trova una forma” (13) .
E se è vero che la transe è propria dell’indole umana e le sue manifestazioni si diversificano a
seconda della cultura entro cui si produce, allora, la definizione di transe come “stato modificato
di coscienza culturalmente elaborato, socializzato e ritualizzato” (14) , data da Bourguignon,
Lapassade e Rouget è perfettamente coerente con questa affermazione.

Secondo Rouget la transe è uno stato inconsueto e passeggero che porta all’alterazione e
all’intensificazione delle facoltà mentali e della forza fisica. In altre parole “la transe si
presenta sempre […] come un superamento di se stesso, come una liberazione […], come
un’esaltazione – talvolta autolesionistica – dell’io” (15) . Lapassade, invece, si spinge oltre
questa definizione capovolgendo paradossalmente i termini del discorso: la coscienza morale è quella
veramente alterata perché deve assolvere alle esigenze della vita quotidiana, mentre “la coscienza
cosiddetta alterata è al contrario originaria, è la coscienza dello stato primario, e non ‘secondo’,
di fusione e di indistinzione. Ma dal momento che è tenuta sotto controllo, questa coscienza
apparirà come alterata, ‘esplodente’ o anche ‘spezzata’ una volta che essa venga ritrovata e messa
in libertà” (16). Gli stati modificati di coscienza sono dunque potenzialità insite in ciascun
individuo perché ognuno di noi ha una coscienza “diversa” che spinge per uscire sopprimendo i
confini fra reale e fantastico.

Accanto alla transe di origine religiosa che affonda le sue radici in epoche lontane, oggi,
all’interno di una società altamente tecnologizzata, si sviluppano nuovi tipi di dissociazioni che
sembra possano avere dei legami con quegli antichi culti di possessione. La religione è stata da
sempre il luogo deputato della transe, il suo spazio privilegiato. Ma da quando la religione, almeno
in Occidente, ha perso il suo potere indiscusso, la transe si svincola dalla ritualità sacra e
affiora negli ambiti più diversi e “profani”. Nuovi fattori, come la telefonia mobile, internet e le
droghe sintetiche, hanno modificato profondamente il tempo e lo spazio soggettivo: “[…] vi sono
situazioni nelle quali il tempo non scorre e altre invece in cui è enormemente accelerato […]. In
entrambi i casi si arriva a una situazione di tendenziale abolizione del tempo: la dilatazione
illimitata dell’istante coincide con l’illimitata frantumazione del continuo […]. La modificazione
temporale introduce una dimensione inedita, corrispondente a quella che sostiene e forma uno stato
estatico” (17) . Oggi le masse hanno la possibilità di accedere a quegli strati di esperienze prima
riservati a piccole comunità di iniziati. Diventano relativamente frequenti e diffusi, soprattutto
fra i giovani, quegli stati alterati di coscienza che cambiano la percezione della realtà, che
creano l’illusione di sospendere il tempo della vita quotidiana e di far recuperare all’io
l’interezza perduta attraverso transe liberatorie.

Una delle esigenze che sembra muovere i giovani verso la transe è la ricerca di una dimensione
inedita, autonoma o per lo meno alternativa alle forze espropriative della società contemporanea.
Quello che prevale nelle feste metropolitane (rave, concerti di pizzica e quant’altro) è un
carattere ludico ed edonistico, la voglia di fare festa, di divertirsi per dimenticare tutto il
resto attraverso la ricerca di una “fusione collettiva”, ideale unione con una folla di “simili”. Le
giovani generazioni compiono attraverso questo rito urbano “l’esperienza della solidarietà e
dell’appartenenza e dell’integrazione ad una collettività nuova” (18) . E proprio nel concetto di
“festa” convivono tre elementi essenziali: il gioco, la rottura col quotidiano e, non a caso, la
trascendenza. Il bisogno impellente dei giovani è quello di sfuggire a tutti i codici sociali, alle
regole del comportamento istituito, oltrepassando la propria condizione e la propria identità
attraverso momentanei stati modificati di coscienza.

È dunque possibile paragonare la transe “etnica” e liberatoria del tarantato agli stati alterati di
coscienza vissuti dai giovani in quei rituali della modernità che sono, con i dovuti distinguo, i
concerti di musica “attarantata”, i techno-rave parties illegali o le notti in discoteca? Secondo
alcuni studiosi sì, è lecito tracciare un parallelo tra la possessione del tarantato come veicolo
per la soluzione di problemi profondi e l’ottundimento sensoriale provocato dalla musica, dalla
danza, dalla droga e dall’alcol, attraverso cui le nuove generazioni cercano di liberarsi dalle
alienazioni della vita quotidiana. Lapassade, che come si è visto dà al termine transe un valore
positivo, non condivide in pieno questa posizione, convinto che le condizioni sociali metropolitane
non favoriscano l’emergenza di nuove pratiche di transe. Anzi, secondo l’etnologo francese,
l’estrema tecnologizzazione e la razionalizzazione sociale del nostro tempo distruggono le transe
tradizionalmente intese, tramutandole tutto al più in forme di alienazione, caratterizzate da una
sorta di torpore intellettuale, di deprivazione sentimentale. L’individuo alienato delle metropoli,
desensibilizzato dalla super-alfabetizzazione tecnologica, vive transe oggettivanti, possessive e
antiestetiche, ostili alla comunicazione. Distruzione del sentimento e del contatto. Trionfo della
necrofilia tecnologica e della deprivazione sensoriale.

L’unico legame realmente esistente fra l’antica transe “agricola” e questa metropolitana sembra
essere la costante umana nel cercare delle dimensioni “altre”, per oltrepassare la normalità e
accedere al trascendente, quand’anche questo legame non venga messo in discussione: il già citato
Vincenzo Santoro, per esempio, categoricamente rifiuta “che si possa spiegare la crescita del
movimento della pizzica con la ricerca di ‘stati modificati di coscienza’, in esplicito collegamento
con la ‘transe’ del ‘tarantismo’ ma anche con il fenomeno metropolitano del ‘rave’. Nel Salento i
concerti e le feste non sono frequentati solo da giovani, ma anche i vecchietti, le mamme con i
bambini […], insomma le famiglie al completo. La gente cerca il divertimento, la socializzazione,
la musica e il ballo, e non certo la transe. […] Ci troviamo di fronte all’espressione di un
bisogno di socialità, alla riscoperta di un modo particolare di ‘stare insieme’ e del valore
comunitario della festa, della musica e della danza” (20).

È possibile forse trovare, forzando magari un po’ i termini, un’ultima, ulteriore affinità fra i due
tipi di transe (arcaica e moderna) sul piano curativo e terapeutico. In fin dei conti l’essenza
della transe, sia che essa si manifesti in un ritrovo rave o in un rito domiciliare di tarantismo, è
sempre la “guarigione”, seppure temporanea e diversamente intesa, da ogni sorta di male di cui
l’individuo soffre. In definitiva, se il fenomeno, tutto moderno, del recupero metropolitano del
“rito della taranta” sia più o meno collegabile, nell’ambito della transe terapeutica, all’antico
culto di guarigione salentino, è una contesa tutt’ora aperta, fonte di numerosi convegni e
dibattiti. Di certo sempre più diffuso sembra l’interesse verso la cultura, la società e la taranta
salentina. Salvatore Colazzo, profondo conoscitore del Salento e delle sue “cose”, tenta di dare un
riscontro a questo interesse: “La taranta si propone come idonea accompagnatrice di chi cerca
dimensioni di conoscenza ulteriore e forme di coscienza altre […]. Sembra di intravedere nella
diffusa passione per la taranta, specie tra i più giovani, un bisogno di riaprire il vettore del
tempo, appiattitosi sull’unica dimensione del presente che, attraverso la potenza dei nuovi mezzi di
comunicazione, attualizza il passato e rende impensabile pensare il futuro se non come perpetuazione
dell’oggi.

Certo, c’è anche lo sfruttamento consumistico del fenomeno, il suo intersecarsi col business d’un
turismo più o meno avido di esotismo a buon mercato; ma togliendo la scorza è possibile leggere
un’ansia profonda, quella di una civiltà che è presa dall’inquietudine di recuperare l’uomo in un
ordine più vasto, in un sistema di equilibri più complessi, nell’ambito dei quali tutto il rimosso
da una ragione preordinata e orientata alla prassi efficace possa riemergere per essere integrato in
una forma di conoscenza che oggi, in cui pure la comunicazione è sovrana, è quasi del tutto
inattinta. La taranta e i suoi rituali sono percepiti come se in essi sia celato un messaggio
remoto, […] come se in essi vi sia la risposta a quell’inquietudine, che il più ampio benessere
materiale, le più alte conquiste scientifiche e tecnologiche, pure avvincenti, non possono tacitare,
l’inquietudine che accompagna come ombra l’umano errare, che solo ad avvertirla è in grado di
rovesciare il senso delle cose” (20).

Note

1 – Ernesto De Martino, Sud e magia, Feltrinelli, Milano, 2001 (1959)
2 – Ernesto De Martino, La terra del rimorso, Net, Milano, 2002 (1961), p. 112
3 – Giorgio Di Lecce, La danza della piccola taranta, Sensibili alle foglie, Roma, 1994, p. 194
4 – Ibidem, p. 164
5 – Luigi Chiriatti, Morso d’amore. Viaggio nel tarantismo Salentino, Capone, Lecce, 1995, p. 29
6 – Victor Turner, Dal rito al teatro, Il Mulino, Bologna, 1986, p. 61
7 – Ibidem, p. 131
8 – La patchanka è un termine inventato dal gruppo ska-punk Mano Negra (a cui apparteneva Manu Chao)
che allude al “pasticcio”, alla mescolanza, alla confusione dei generi.
9 – Salvatore Colazzo in Georges Lapassade, Intervista sul tarantismo, Madona Oriente, Maglie, 1994,
p. 84.
10 – Piero Fumarola – Georges Lapassade, Inchiesta sull’Hip-Hop, Capone, Lecce, 1993
11 – Pierfrancesco Pacoda (a cura di), Potere alla parola, Feltrinelli, Milano, 1996, p. 98.
12 – Gilberto Camilla, Per una scienza degli stati di coscienza, introduzione ad “Altrove” (Annuario
della Società Italiana per lo studio degli stati di coscienza, Sissc) 1, 1983, p. 14.
13 – Gilbert Rouget, La musica e la transe, Einaudi, Torino, 1986, p. 11.
14 – Georges Lapassade, Stati modificati e transe, Sensibili alle Foglie, Roma, 1993, p. 41.
15 – Gilbert Rouget, op. cit., p. 26.
16 – Georges Lapassade, Saggio sulla transe, Feltrinelli, Milano, 1980, p. 169.
17 – Elvio Fachinelli, La mente estatica, Adelphi, Milano, 1989, p. 91.
18 – Astrid Fontaine – Caroline Fontana, Raver, Sensibili alle Foglie, Roma, 1997, p. 28.
19 – Anna Nacci (a cura di), Tarantismo e Neotarantismo, Besa, Nardò, 2001, p. 43.
20 – Salvatore Colazzo, La taranta, oggi in www.amalteonline.com/

fonte: www.sguardomobile.it

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