UNA MAPPA DEGLI URALI DI 120 MILIONI DI ANNI

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UNA MAPPA DEGLI URALI
DI 120 MILIONI DI ANNI

Pravda
30 Aprile 2002

Un ritrovamento nel Bashkir contrario alle nozioni tradizionali della storia umana: sopra una lastra
di pietra, vecchia di 120 milioni di anni, la mappa in rilievo della regione degli Urali.
Studiosi dell’Università dello Stato del Bashkir, in Russia, hanno trovato indiscutibili prove
riguardo all’esistenza di un’antica civiltà altamente sviluppata. Si tratta di una grande lastra che
riporta il rilievo della regione degli Urali eseguita secondo una sconosciuta tecnologia. Vi si
osservano notevoli lavori di ingegneria: un sistema di canali lunghi circa dodicimila chilometri,
sbarramenti, dighe e possenti argini. Sono presenti anche losanghe, disegnate sul terreno, la cui
destinazione è sconosciuta. Le inscrizioni presenti sulla mappa sono costituite da geroglifici
inseriti in un linguaggio sillabico di sconosciuta origine che nessuno per adesso è in grado di
leggere.

Anche se la notizia è recente, il rinvenimento risale al 1999. Tutto ha inizio quando il dottor
Alexander Chuvyrov, insegnante di fisica e scienze matematiche dell’Università e un suo studente
cinese Huan Hun decisero di indagare circa la possibilità di migrazioni cinesi nel territorio della
Siberia e negli Urali.
In Bashkiria trovarono rocce incise con antico linguaggio cinese a conferma di migrazioni in quei
luoghi.

La maggior parte delle iscrizioni ritrovate contenevano informazioni riguardanti il commercio, i
matrimoni e i decessi. Nel villaggio di Chandar, nella regione Nurimanov, trovarono duecento lastre
di pietra; ma non erano stati i primi. Già nel diciassettesimo e diciottesimo secolo spedizioni
russe rinvennero nella regione degli Urali duecento pietre bianche con scritture e simboli e nel
ventesimo secolo l’archeologo A. Schmidt vide alcune lastre a Bashkiria. Seguendo questa pista, nel
1998 Chuvyrov formò un gruppo con i suoi studenti e si lanciò nella ricerca. Si avvalse anche di un
elicottero, ma le pietre non furono trovate.
Quando il fato ci mette lo zampino tutto diviene possibile. Il presidente della locale società
agricola, Vladimir Krainov, condusse il professore a vedere una pietra situata sotto il portico
della casa.

Nel 1999 la pesante pietra, di oltre una tonnellata, venne liberata. Alta centoquarantotto
centimetri, larga centosei, con uno spessore di sedici, venne piazzata su di uno speciale cavalletto
costruito appositamente e provvisto di ruote per poterla muovere con facilità. Una volta ripulita si
mostrò come una mappa tridimensionale.
Il Professor Chuvryov ammise: “Più imparo, più capisco che non so niente”.

Russi e cinesi esperti nel campo della cartografia, fisica, matematica, geologia, chimica e antico
cinese precisarono che si trattava di una mappa, in scala di 1:1,1 km, che rappresentava la regione
degli Urali. Si potevano vedere i fiumi Belya, Ufimka, Sutolka; il Canyon Ufa dalla città di Ufa
fino al centro di Sterlitimak.
La struttura geologica del reperto consiste di tre livelli: una base di quattordici centimetri di
dolomite, un secondo livello di diopside vetrosa e un terzo livello, di due millimetri, costituito
da porcellana a proteggerla da impatti esterni. Inutile dire che la metodologia usata nella
lavorazione non è conosciuta dalla scienza moderna. È chiaro che è impossibile sia stata elaborata
manualmente da un tagliatore di pietra, ma eseguita con strumenti di precisione come confermano i
raggi X.

Come abbiamo accennato, sulla mappa sono presenti iscrizioni verticali e per questo si è pensato
fosse di fattura cinese, ma le indagini svolte nelle biblioteche cinesi e le indagini degli studiosi
dell’università dello Hunan hanno escluso tale ipotesi.
Inoltre la porcellana, posta a copertura della lastra, non è mai stata usata in Cina. Nel corso
degli infruttuosi tentativi di decifrare la scrittura fu osservato che un segno corrisponde alla
latitudine attuale della città di Ufa.
Sulla mappa è presente un gigantesco sistema di irrigazione formato da fiumi, da due sistemi di
canali larghi cinquecento metri e dodici dighe, anch’esse larghe da trecento a cinquecento metri,
lunghe dieci chilometri, ognuna con una profondità di tre chilometri. Attualmente possiamo costruire
solo una piccola parte di quanto è raffigurato sulla mappa.

Le analisi effettuate per determinare l’età della pietra hanno prodotto diversi risultati che non
aiutano a fare chiarezza. Sulla superficie della pietra sono state trovate due conchiglie: la
“Navicoipsina Munitus”, risalente a circa 500 milioni di anni e la “Ecculiomphalus Principe”, della
sottofamiglia delle “Ecculiomphalinae”, vecchia di circa 120 milioni di anni. È stato anche
osservato che la mappa fu creata quando il polo magnetico della terra era situato nell’attuale zona
della Terra di Franz Josef, esattamente 120 milioni di anni fa. Quindi è stata accettata tale data
come quella della realizzazione dell’opera.
Quale può essere l’uso della mappa?

Secondo il centro di cartografia storico del Wisconsin tali mappe tridimensionali potrebbero avere
un solo uso: quello nautico. Attualmente negli Usa si lavora alla creazione di una mappa
tridimensionale come questa. Un lavoro che sarà completato nel 2010; guarda caso proprio due anni
prima della fine del quinto sole pronosticato dai Maya.
La tecnologia per compilare tali mappe richiede computer super potenti e una osservazione
aerospaziale dallo Shuttle.
Chi è stato capace di creare tale mappa in tempi assai remoti?
Chuvyrov ha voluto chiamare l’autore della mappa “Il Creatore”.

Vogliamo rimanere con i piedi in terra e non chiamare in causa i soliti extraterrestri come la
spiegazione più semplice ad un mistero inspiegabile per mancanza di dati, quindi non resta che
ammettere l’esistenza di una civiltà precedente dotata di conoscenze tecnologiche avanzate. Dato
inoltre che nella mappa non vi sono riportati percorsi stradali, dobbiamo considerare che le vie
fluviali formavano la viabilità di quel tempo, oppure gli autori della mappa utilizzavano trasporti
aerei.

Questo ci porta al Museo De Young, di San Francisco, ove è custodito un reperto di trenta
centimetri, rinvenuto a Vera Cruz e catalogato come “Flauto”. Ma non si tratta di una riproduzione
di uno strumento musicale; ingegneri aeronautici lo hanno classificato come la riproduzione in scala
di un velivolo Hovercraft del tipo GEM, Ground Effect Machine, macchina effetto suolo con pilota.
L’oggetto è stato ampiamente trattato e descritto in un mio articolo pubblicato sul n. 6 di Hera del
giugno 2000 dal titolo “L’ingegneria spaziale degli Dèi”.
L’aeronautica russa e la Fokker Aircraft Tedesca hanno concepito di recente un velivolo simile al
modello di Vera Cruz, provvisto di una lunga coda detta si “scorpione”, che funge da freno e
rallenta la discesa, ma che permette una elevazione dal suolo fino a tre metri contro il metro e
ottanta degli Hovercraft tradizionali.
Lo Yucatan era un tempo percorso da un esteso sistema di canali, quindi è possibile venissero usate
aeronavi che si spostavano velocemente attraverso la giungla rasentando la superficie dell’acqua.

Tornando alla scoperta del Bashkir la scienza preferisce considerare che il luogo fosse oggetto di
un progetto di drenaggio con lo scopo di renderlo abitabile. Ma gli studi condotti recentemente
portano alla conclusione che il reperto sia parte di una mappa più grande, qualcosa come 340 metri
di lato, composta da ben 348 frammenti.
Chuvyrov sembra certo che quattro di questi si trovino in Chandar.
Mentre gli scienziati inviano le informazioni inerenti alla loro scoperta verso differenti centri
scientifici di tutto il mondo, contemporaneamente nei congressi internazionali dichiarano che si
tratta di un lavoro di ingegneria civile di una sconosciuta civiltà.

Le foto che vengono divulgate non permettono di osservare in dettaglio i particolari che si
descrivono perché tutte scattate a debita distanza. Non vogliamo mettere in dubbio la buona fede e
la professionalità di insigni studiosi, ma gradiremmo constatare quanto si va affermando.
Al di là di qualsiasi interpretazione, rimaniamo convinti che siano gli occhi a decidere e
giudicare. Quindi occorrono delle immagini ove l’oggetto sia ben visibile, quelle che generalmente
vengono scattate ai reperti archeologici. Altrimenti non siamo in grado di giudicare se tutto quanto
si racconta sia reale o solo l’interpretazione speculativa di qualche studioso in cerca di
notorietà.

Se tutto corrisponde, tutti devono poter vedere tali scoperte e giudicare con i propri occhi.
Spesso si tende a sminuire o negare rinvenimenti di reperti che ci obbligano a riscrivere la storia
dell’umanità, ad ammettere l’esistenza di una civilizzazione precedente la nostra, a constatare che
forse noi siamo solo dei sopravvissuti.
Le notizie storiche in nostro possesso sono solo di sparuti e frammentari tasselli, non l’intera
mappa.

Un esempio: se i popoli trovati dai conquistatori spagnoli fossero stati solo i superstiti di una
precedente avanzata civiltà, estintasi a causa di terrificanti catastrofi naturali o per loro
sconsiderata gestione di sconosciute forze fisiche? Troppo è stato distrutto per avidità, o perché
ritenuto blasfemo, per poter risalire alle origini di quei popoli.
Atlantide da un lato e Mu, o Lemuria, dall’altro, devono aver portato grandi sviluppi e conoscenze.
È innegabile che nelle terre asiatiche vi siano tracce riguardo all’uso di un’avanzata tecnologia.
Centoventi milioni di anni sono tanti, un’enormità. Anche se la scienza ha dovuto ammettere che il
“Cro Magnom” non è apparso trentacinquemila anni fa, ma bensì settantamila anni prima, cioè
centomila anni fa, non si può credere al primo che grida: “All’Ufo, all’Ufo!”

a cura di Mauro Paoletti

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