Ripensare la scienza della nutrizione

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Ripensare la scienza della nutrizione

Whole – Vegetale e Integrale

di T. Colin Campbell

>> http://goo.gl/evrvoi

La verità. Come e perché vi è stata negata.
Ecco ciò che troverete in questo libro.

Con il libro The China Study, T. Colin Campbell ha rivoluzionato il nostro modo di considerare il cibo dimostrando come una dieta senza proteine animali e basata su alimenti vegetali e integrali sia la più sana e naturale.

Ora, con Whole, Campbell ci spiega la teoria scientifica che è alla base di questa scoperta, ci dimostra come il nostro attuale modello medico sia errato perché ignora l’affascinante complessità dell’organismo umano. Inoltre ci fornisce i motivi per cui, nonostante le prove schiaccianti di quanto siano errate le conoscenze nutrizionali che crediamo di possedere, le nostre abitudini alimentari non sono cambiate.

“Whole, Vegetale e Integrale” è un viaggio rivoluzionario e illuminante nell’alba del nuovo pensiero nutrizionale, un’avventurosa impresa scientifica ricca di straordinarie implicazioni per la nostra salute e per il nostro mondo.

Quello lanciato dal dott. T.Colin Campbell è un monito appassionante per chiarezza e intenti: ciò che mangiamo determina come stiamo, e soprattutto come staremo.

“In questo libro provocatorio, T. Colin Campbell rivela come e perché in tema di cibo e salute regni la più totale disinformazione e indica le strade da percorrere. The China Study ci ha svelato cosa mangiare; Whole ci dice perché.” Dott. Dean Ornish, autore del bestseller mondiale Il Metodo Ornish

“Il nutrizionista numero uno d’America, T. Colin Campbell, illustra con coraggio e convinzione cosa stia impedendo a tutti noi di accedere alla verità su alimentazione e salute ottimale”
Dott. Caldwell Esselstyn, Jr, autore del libro Come prevenire e guarire le malattie cardiache con l’alimentazione.

Presentazione del Libro

“Raccontare questa storia non è stata un’impresa da poco. So bene che una dieta a base di soli alimenti vegetali appare un po’ stravagante a molti lettori. Ma ora, le cose stanno cominciando a cambiare. Con il passare del tempo, questa idea sta diventando sempre più grande.

Il sistema attuale non è sostenibile. L’unica domanda aperta è se riusciremo a liberarci prima di essere travolti dal suo crollo o se continueremo a inquinare i nostri corpi, le nostre menti e il nostro pianeta con le scorie del sistema finché esso collasserà sotto il suo stesso peso economico e la sua logica biologica.

Per noi generazioni precedenti, il nostro modo di mangiare sembrava una questione personale e privata: le scelte alimentari non sembravano contribuire molto in un senso o nell’altro al benessere o alla sofferenza degli altri, per non parlare della vita animale e vegetale e della capacità biologica dell’intero pianeta. Ma, se mai questo è stato vero in passato, le cose non stanno più così.

Ciò che mangiamo, a livello individuale e collettivo ha ripercussioni che vanno ben oltre il nostro girovita e i valori della nostra pressione sanguigna.

È in gioco niente meno che il futuro della specie.

La scelta sta a noi.

La mia speranza è che questo libro vi incoraggi a scegliere con saggezza: per la vostra salute, per le prossime generazioni e per l’intero pianeta.”

T. Colin Campbell

Tutta la Verità – Estratto da “Whole – Vegetale e Integrale”

«La storia è una gara fra istruzione e catastrofe»
Herbert George Wells

Nel capitolo precedente ho argomentato come ciò che mangiamo possa avere un maggior impatto sulla salute di qualsiasi altra cosa. Le prove che insieme ad altri ricercatori ho accumulato negli anni indicano nella dieta vegetale e integrale la dieta umana ottimale.

Rimando il lettore al mio libro precedente, The China Study, per un approfondimento delle evidenze scientifiche a sostegno di questa tesi.

Ovviamente, malgrado le prove addotte, non tutti al mondo sono convinti che una dieta a base vegetale sia il miglior modo di mangiare per la salute umana e per il pianeta.

I media pullulano di opinionisti che contraddicono le mie affermazioni, spesso in maniera piuttosto articolata e divertente.

Il fatto è che è estremamente facile per i miei oppositori estrapolare singoli dati e utilizzarli per sostenere conclusioni opposte alle mie. In realtà, come si possono valutare le prove scientifiche senza diventare esperti di biochimica, cardiologia, epidemiologia e di decine di altre discipline che fornirebbero il contesto necessario?

Prima di descrivere gli ostacoli a una più vasta adozione della dieta vegetale e integrale vorrei affrontare la questione degli oppositori e delle loro critiche esponendovi il mio modello valutativo per la ricerca medica e nutrizionale. La mia speranza è che questo vi aiuti a capire il senso dell’assurdo ostruzionismo e delle mezze verità che vengono prese come legittime critiche della dieta vegetale e integrale, e nei media passano addirittura per informazione in tema di salute.

Una volta che sarete immunizzati contro la “moda salutistica della settimana”, potrete affrontare più smaliziati e sicuri le notizie ufficiali su questo tema, e avrete ancor più validi strumenti per giudicare da soli le prove a favore della dieta vegetale e integrale e le obiezioni che ha ricevuto.

VALUTARE LA RICERCA IN CAMPO SANITARIO

Se seguite le notizie televisive, ogni settimana vi verranno raccontate storie di nuovi farmaci promettenti, nuove terapie genetiche, nuovi macchinari high-tech e nuove indicazioni salutistiche collegate a cibo, vitamine, enzimi e altri micronutrienti. Nessuna di queste “scoperte decisive” offre lontanamente gli stessi vantaggi della dieta vegetale e integrale, anche se vi sarà difficile capirlo dalle notizie strombazzate e malinformate riguardanti le ricerche che le hanno originate.

Prima di opporre le mie prove alle loro, parliamo di come valutare la ricerca in generale, altrimenti resteremo intrappolati in diatribe del tipo «Tizio ha detto, Caio ha dichiarato», in cui ha ragione chi urla più forte (o, in questo caso, chi è più sponsorizzato).

Quando sentite un’affermazione sulla salute relativa a un prodotto alimentare, ponetevi tre domande: è vero? È tutta la verità, o solo una parte? È rilevante?

È vero? Il primo passo per valutare un’affermazione nel campo della salute è determinare se le ricerche che forniscono le relative basi teoriche sono state condotte in modo adeguato: in altre parole, se sono state ben impostate, condotte in modo professionale e riportate in forma sufficientemente accurata da permettere di scoprire qualche aspetto della verità.

Sfortunatamente, alcuni studi sono impostati e condotti in modo così poco scientifico che le loro conclusioni sono sciocchezze belle e buone. Eppure, la verosimiglianza di questi risultati aumenta in modo eclatante quando l’organizzazione che ha sovvenzionato la ricerca ha buone probabilità di far soldi grazie a un particolare risultato. In realtà, sono affidabili i risultati che, idealmente, sono stati riprodotti in esperimenti multipli, preferibilmente da ricercatori diversi, e comunque sottoscritti da finanziatori differenti.

È tutta la verità? È altrettanto importante considerare anche ciò che “loro” non dicono sui potenziali effetti collaterali e sulle altre conseguenze non intenzionali di una particolare linea d’azione.

In natura (e il nostro corpo idealmente è un prodotto della natura), quasi ogni cosa è connessa con ogni altra. Se avete mal di testa e prendete una pillola, potrete essere certi che nel vostro organismo quel medicinale provocherà molti altri effetti oltre ad alleviare il dolore. Allo stesso modo, se seguite la dieta vegetale e integrale per prevenire le cardiopatie, ne avrete benefici che vanno ben oltre la salute delle arterie.

Quando sentite parlare di una pillola miracolosa che fa abbassare la pressione sanguigna, siate sempre curiosi sugli altri effetti (“collaterali”) del farmaco, poiché in realtà non ci sono effetti “collaterali”, ma solo effetti. Domandatevi sempre quale sia l’effetto di una particolare misura sanitaria, oltre ai suoi obiettivi dichiarati.

È rilevante? Come vedremo nel corso di tutto il libro, parecchie delle cosiddette scoperte mediche in realtà non sono così impressionanti come il marketing le fa apparire. Forse sarà commercialmente valido giocare con le statistiche per aumentare le vendite, ma non è scientifico.

Uno dei modi per farlo (senza necessariamente affermare il falso) consiste nel selezionare con cura un dettaglio, riportarlo senza contesto e attribuirgli indirettamente un’importanza molto maggiore di quella che riveste in realtà.

Un farmaco potrebbe per esempio ridurre il colesterolo, senza avere il minimo effetto sul tasso di infarti e ictus. Poiché il pubblico presume che un basso valore di colesterolo garantisca una migliore salute cardiaca, la pubblicità del prodotto probabilmente strombazzerà ai quattro venti il calo del colesterolo, e affermerà addirittura che un valore inferiore del colesterolo è tipicamente associato con un rischio inferiore di malattie cardiovascolari, tacendo opportunamente il fatto che quel particolare farmaco non sembra affatto garantire un rischio inferiore: la sua capacità di ridurre il colesterolo non è davvero rilevante, almeno in riferimento alla longevità e alla qualità della vita di chi lo assume.

In realtà occorre avere una conoscenza diretta del metodo scientifico per valutare le affermazioni relative alla salute in base ai primi due criteri (è vero, ed è tutta la verità?), oltre che per avere accesso ai dettagli che riguardano l’impostazione della ricerca.

Tuttavia, anche se non siete scienziati, non disperate. Se state guardando la pubblicità di un farmaco su una rivista, non dovrete far altro che voltar pagina e leggere le avvertenze fittamente stampate a caratteri minuti.

Oppure potrete consultare le riviste revisionate da esperti.

Questo procedimento scientifico prevede che i risultati di una ricerca, prima di essere pubblicati, vengano revisionati e sottoposti al giudizio critico di professionisti qualificati. Si tratta di una strategia che offre alla comunità scientifica un’opportunità di mettere alla prova i risultati della ricerca in modo accessibile all’esame dei professionisti e del pubblico: un’occasione per riprodurre e verificare le osservazioni scientifiche o per dimostrare che sono false. Potrà non essere ritenuto un sistema perfetto, ma personalmente non ne conosco uno migliore: quantomeno promuove l’obiettività e l’integrità e offre ai lettori delle riviste revisionate un buon grado di affidabilità rispetto ai dati scientifici pubblicati nelle sue pagine.

Quanto alla terza domanda – se cioè le implicazioni di una nuova indicazione salutistica siano rilevanti – si tratta di qualcosa che quasi tutti noi possiamo valutare autonomamente. Tutto ciò che occorre è un po’ di buon senso.

COME STABILIRE SE UNA MISURA SANITARIA SIA RILEVANTE

Se rifletto sulla rilevanza di una particolare misura sanitaria – se cioè sia meritevole perseguirla a livello individuale, commerciale o scientifico – personalmente utilizzo tre criteri di base, elencati qui di seguito in ordine inverso di importanza:

Quanto tempo impiega per funzionare? (Rapidità).
Quanti problemi di salute contribuisce a risolvere? (Ampiezza). Quanto migliorerà la mia salute grazie a questo intervento? (Profondità). Rapidità

Quanto tempo ci vuole perché una sostanza nutritiva, un farmaco, una modificazione genetica o qualsiasi altro fattore producano davvero un effetto all’interno dell’organismo?

Non sto parlando del tempo necessario perché una sostanza venga assorbita nel flusso sanguigno e trasportata alle cellule tissutali. Mi sto invece domandando: “Quanto tempo deve passare perché ci sia un effetto significativo, come un aumento di energia o la riduzione dei sintomi di una malattia?”.

La rapidità con la quale si presenta la maggior parte dei benefici nutrizionali in chi adotta la dieta vegetale e integrale è sbalorditiva. I diabetici devono essere sottoposti a monitoraggio a partire dal primissimo giorno, in modo da ridurre l’assunzione dei farmaci via via che la dieta ha effetto, altrimenti correrebbero il rischio di avere un calo di zuccheri tale da causare una crisi ipoglicemica.

Anche gli alimenti privi di sostanze nutritive funzionano con grande rapidità, ma in senso opposto. Per esempio, dopo 1-4 ore dal consumo di una colazione a elevato contenuto di grassi da McDonald’s (Egg McMuffin®, Sausage McMuffin®, due frittelle di hash brown, una bevanda senza caffeina) i trigliceridi nel siero subiscono un’impennata (aumentando il rischio di cardiopatie e diabete e di molte altre patologie) e le arterie si induriscono (causando l’aumento della pressione sanguigna). Il ritorno alla normale fluidità richiede diverse ore. Niente di tutto questo accade dopo una colazione a ridotto contenuto di grassi a base di cereali e frutta.

Quando il mio amico e collega Caldwell Esselstyn Jr., M.D., cominciò a usare una dieta in larga parte vegetale e integrale per far regredire le cardiopatie avanzate in uno studio che ebbe inizio nel 1985, scoprì che il dolore cronico al torace (noto anche come angina) di norma scompariva entro una o due settimane.

Confrontiamo questo dato con un farmaco contro l’angina come la ranolazina (commercializzato con il nome Ranexa), approvato dall’Agenzia per gli alimenti e i medicinali degli Stati Uniti (Food and Drug Administration, FDA) nel 2006.

Un esperimento clinico intrapreso per stabilirne l’efficacia aveva somministrato a caso il Ranexa o un placebo a 565 pazienti. Il “gruppo Ranexa” aveva sperimentato una “riduzione statisticamente significativa” degli episodi di angina nell’arco di sei settimane. Un risultato fantastico, vero? Ciò che si intende è che il gruppo Ranexa era passato da 4,5 a 3,5 episodi di angina alla settimana.

Non esattamente la soluzione rapida che tutti noi auspicheremmo, vero?

Si aggiungano i normali effetti collaterali riportati dalla casa produttrice, fra cui «vertigini, mal di testa, stitichezza e nausea» (lo studio non specificava il tempo di insorgenza di questi sintomi) e si otterrà la miglior risposta della medicina occidentale alla dieta vegetale e integrale: interventi costosi con un effetto positivo limitato e un gran numero di potenziali effetti collaterali.

Qualcuno forse penserà che non è corretto paragonare i prodotti farmaceutici con la dieta vegetale e integrale, dal momento che i farmaci sono chiamati a trattare i sintomi piuttosto che le cause a monte della malattia.

Eppure, se c’è una cosa che dovrebbe deporre a favore dei medicinali è proprio la rapidità dell’effetto. In effetti, l’unica funzione utile che possono vantare è il “tempo di acquisto” per un paziente per il quale un cambiamento di stile di vita e di dieta potrebbe arrivare troppo tardi.

Quando qualcuno viene portato al pronto soccorso in barella dopo aver subito un infarto o un ictus, forse è meglio somministrargli un trombolitico per sciogliere il coagulo, piuttosto che fargli un’endovena a base di frullato di cavolo nero.

Ma eccezion fatta per le vere emergenze, la rapidità della risposta della dieta vegetale e integrale è superiore a quella di qualunque farmaco, in assenza degli effetti collaterali.

Ampiezza

Qual è l’ampiezza degli effetti di un simile intervento nell’organismo? È in grado di migliorare un’ampia gamma di funzioni, oppure agisce su un singolo parametro biologico, come la pressione sanguigna o il profilo lipidico?

Verrebbe da pensare che un approccio standardizzato in cui una sola strategia risolva un’ampia serie di condizioni patologiche possa essere la soluzione ideale. Ma la scienza medica nutre profondi sospetti per qualsiasi rimedio che si proponga come panacea (dal greco pan, ovvero “tutto”, e akos, “rimedio”).

Per contro, i più apprezzati farmaci cinesi sono quelli che trattano una grandissima varietà di disturbi. Nei primi anni Ottanta del Novecento, alcuni decani della professione medica in Cina mi fecero conoscere la loro tradizione secolare basata sull’uso medicinale delle erbe. Spesso queste erbe vengono utilizzate in forma integra, di norma macerate nell’acqua, e sovente utilizzate insieme a molti altri ingredienti.

La “regina” di queste erbe cinesi, la più prescritta e consumata è il ginseng. Carlo Linneo, padre della moderna classificazione scientifica di animali e vegetali, denominò il ginseng “Panax”, proprio perché era a conoscenza dei suoi molteplici usi nella medicina tradizionale cinese.

Vi ricordate di Daniel Boone, il famoso pioniere americano? Sapete cosa faceva nel selvaggio West col suo cappello alla Davy Crockett e il fucile? Andava a caccia e metteva trappole, vero? Certo, Boone fece la sua parte, quanto a far razzia di carne animale. Ma quando si trovò sull’orlo della rovina finanziaria per il fallimento di alcuni affari immobiliari negli anni Ottanta del Settecento, puntò dritto a dov’erano i soldi: ginseng americano (nome scientifico Panax quinquefolius). Boone pagò i nativi americani perché raccogliessero le radici, che inviò in Cina ricavandone una fortuna.

Non fu l’unico ad arricchirsi grazie a quella pianta medicinale: sappiamo che John Jacob Astor incassò cinquantacinquemila dollari per il primo carico di ginseng inviato in Cina, una cifra che oggi corrisponde a più di un milione di dollari.

Il motivo per cui i cinesi erano disposti a pagare tanto per il ginseng, e i nativi americani sapevano esattamente dove raccoglierlo, è che questa pianta fa bene alla salute in tanti modi diversi.

I Cherokee la usavano per alleviare le coliche, le convulsioni, la dissenteria e il mal di testa. Altre tribù native americane ritenevano che questa radice fosse utile a trattare l’indigestione, l’inappetenza, l’affaticamento, la laringite difterica, i dolori mestruali e lo shock. E se questa non è ampiezza!

La dieta vegetale e integrale riguarda così tanti disturbi e malattie che ci si comincia a chiedere se non ci sia un’unica causa patogena – l’alimentazione inadeguata – che si manifesti con migliaia di sintomi diversi.

Invece che concentrare l’attenzione sulla causa a monte, la medicina occidentale ha deciso di interessarsi esclusivamente dei sintomi individuali, e di dare a ciascuno di essi il nome di una malattia. Del resto è molto più redditizio identificare migliaia di diverse patologie, poi produrre e vendere le relative terapie, piuttosto che considerare il quadro generale e prescrivere un solo semplice rimedio che le cura tutte.

Ma questa non è considerata buona medicina.

Se siete colpiti dal gran numero di effetti positivi del solo ginseng, rimarrete senza parole quando saprete dell’ampiezza dei risultati della dieta vegetale e integrale.

Se è vero che il ginseng allevia un’ampia varietà di sintomi, un’alimentazione adeguata tratta le cause primarie della malattia, comprese quelle più disparate come il cancro, le malattie cardiovascolari (per esempio arresto cardiaco, ictus e aterosclerosi), l’obesità, i disturbi neurologici, il diabete, un’ampia gamma di malattie autoimmuni, e le malattie delle ossa. Dalla pubblicazione di The China Study ho avuto notizie da lettori che riferivano di altre patologie, quasi sempre non letali, alleviate o risolte dalla dieta vegetale e integrale: tra queste varie tipologie di mal di testa (incluse le emicranie), sofferenza intestinale, disturbi dell’occhio e dell’orecchio, disturbi da stress, raffreddore e influenza, acne, disfunzione erettile e dolore cronico.

Si tratta di una vastissima gamma di patologie controllate a livello nutrizionale, anche se per ciascuna di queste malattie (o gruppi di malattie), sarebbe utile effettuare ricerche più professionali per documentare i meccanismi di questi effetti.

Le mie impressioni sull’impatto della dieta su alcune di queste patologie (per esempio raffreddore e influenza, mal di testa, dolori di vario tipo e condizioni di dolore cronico) si basano più su prove aneddotiche che non su evidenze empiriche, verificate da esperti e pubblicate. Tuttavia, la frequenza con cui ho sentito pazienti e medici affermare che adottare la dieta vegetale e integrale risolve simultaneamente tutti questi problemi di salute inizia a convincermi che il sistema funziona per la stragrande maggioranza delle persone, nella quasi totalità dei casi.

In passato soffrivo io stesso di emicrania e di dolori di tipo artritico, ma questi disturbi sono scomparsi quando ho adottato pienamente la dieta vegetale e integrale.

Proviamo a fare un esperimento mentale. Qualcuno a cui tenete vi dice di avere una malattia cronica (prendetene una a scelta dalla lista precedente) e che il medico gli ha prospettato due possibili terapie.

La terapia numero uno ridurrebbe leggermente la gravità di un singolo sintomo ma non migliorerebbe le possibilità di essere curati della malattia (né di vivere più a lungo) e prospetterebbe un’ampia gamma di dannosi effetti collaterali (ovviamente il medico curante prescriverebbe altri medicinali per contrastare gli effetti indesiderati, e poi altri ancora per neutralizzare gli effetti collaterali di tutte le relative interazioni, e così via).

La terapia numero due risolverebbe con relativa rapidità la causa originaria della malattia, ponendo così fine a tutti i sintomi e aumentando l’aspettativa e la qualità della vita della persona a voi cara. Gli effetti collaterali comprenderebbero il raggiungimento del peso ideale, l’aumento di energia, un aspetto migliore, un maggior benessere e contribuirebbero anche a preservare l’ambiente e a rallentare il riscaldamento globale.

Quale terapia consigliereste a chi vi è caro?

Per l’establishment medico questo esperimento mentale è totalmente assurdo.

La quasi totalità della ricerca in campo medico prende in considerazione soltanto gli effetti strettamente specifici di un singolo fattore (che si tratti di un farmaco, una vitamina, un minerale o una procedura come un intervento chirurgico) su un singolo sintomo o sistema. Qualunque altra cosa – come considerare macrodifferenze quali lo stile di vita e la dieta – è ritenuta troppo complessa e caotica per essere affidabile.

Profondità

Dunque, finora abbiamo considerato il tempo necessario perché l’alimentazione incida sulle funzioni dell’organismo (rapidità) e il numero di sistemi su cui si ripercuote (ampiezza).

C’è un ultimo fattore cruciale per valutare l’efficacia di un intervento nel campo della salute: la portata, ossia il peso dell’effetto. Un’altra parola per questo criterio è profondità.

A parità di condizioni, preferireste sottoporvi a una terapia che producesse un miglioramento lieve o enorme del vostro benessere?

L’alimentazione a base vegetale tende a generare effetti di portata straordinaria. Ebbi occasione di verificarlo la prima volta in una serie di esperimenti condotti in India di cui lessi un resoconto e che in seguito riprodussi alla Cornell University con i miei studenti dei corsi post-laurea.

I ricercatori esponevano gli animali da laboratorio (ratti) a una potente sostanza cancerogena, e poi somministravano a un gruppo di cavie una dieta costituita per il 20% da proteine animali, mentre la dieta dell’altro gruppo ne conteneva soltanto in percentuale del 5%. Ogni singolo animale del gruppo al 20% aveva poi sviluppato un cancro o lesioni precancerose, mentre non una cavia del gruppo al 5% aveva riportato conseguenze: il 100% contro lo 0%.

Questo tipo di risultato è davvero raro negli studi biologici che presentano un gran numero di variabili disorientanti, eppure questo era stato il nostro risultato finale. Ripetemmo l’esperimento con diverse modalità perché in un primo momento ci fu difficile crederci, ma l’esito fu sempre lo stesso, esperimento dopo esperimento. Impossibile una maggiore profondità.

Forse starete pensando: “Un momento. Solo perché la dieta ha questo tipo di effetto sul cancro nei ratti, ciò non significa che possa migliorare nella stessa misura la salute umana”. Gli studi animali sono una cosa a parte. E cosa ne dite di uno studio condotto su individui gravemente malati cui viene cambiata drasticamente la dieta? Un intervento nutrizionale può produrre effetti così profondi?

Negli anni Quaranta e Cinquanta (quasi settant’anni fa!), due cardiologi, Lester Morrison e John Gofman, intrapresero una ricerca per stabilire gli effetti della dieta sulle cardiopatie in soggetti che avevano già subito un infarto. I due medici fecero seguire a questi pazienti una dieta a minor contenuto di grassi, colesterolo e cibi di origine animale, un’alimentazione che ridusse in modo eclatante le recidive delle cardiopatie.

Nathan Pritikin fece lo stesso negli anni Sessanta e Settanta.

Poi, negli anni Ottanta e Novanta, i due medici Esselstyn e Dean Ornish si proposero di scoprire qualcosa di più. Lavorando separatamente, entrambi dimostrarono che una dieta a base vegetale e ad alto contenuto di carboidrati era in grado di tenere sotto controllo e persino di far regredire le cardiopatie avanzate.

Abbiamo accennato allo straordinario lavoro di Esselstyn nel capitolo dedicato alla rapidità, e potrete trovare maggiori informazioni sulle sue ricerche e su quelle degli altri scienziati in The China Study. Ora però soffermiamoci ancora sulle scoperte di Esselstyn in termini di profondità.

LO STUDIO DI ESSELSTYN SULLA REGRESSIONE DELLE CARDIOPATIE

Nel 1985, Esselstyn reclutò pazienti affetti da cardiopatie avanzate ma non a rischio immediato di morte per un esperimento clinico che intendeva scoprire se fosse possibile far regredire le malattie cardiache con la dieta.

Tramite angiogrammi verificò la gravità delle patologie alle coronarie, così da accertare che la progressione della malattia fosse in stadio avanzato. L’unico altro requisito per essere ammessi a partecipare all’esperimento era la disponibilità ad attuare i cambiamenti dietetici proposti: sostanzialmente, una dieta vegetale e integrale.

Il dottor Esselstyn riferì formalmente i risultati dello studio a distanza di cinque e dodici anni.

Negli otto anni precedenti all’esperimento, i suoi diciotto soggetti avevano subito quarantanove eventi coronarici (per esempio infarti, angioplastiche, interventi di bypass), ma durante i dodici anni successivi all’adozione della dieta si registrò un solo evento riguardante un paziente che non si era attenuto alla dieta.

Dopo questo periodo, Esselstyn continuò a seguire i pazienti in modo informale, e ora, ventisei anni dopo, solo cinque di loro non sono più in vita. I cinque pazienti deceduti non morirono per insufficienza cardiaca ma per altre cause (nel 1985 l’età media dei soggetti corrispondeva a 56 anni, ovvero 83 nel 2012, perciò si tratta di un risultato davvero imprevisto), mentre tutti gli altri ancora in vita non presentano sintomi di disturbi cardiaci.

Nei novantasei mesi precedenti all’intervento nutrizionale i soggetti avevano subito quarantanove eventi cardiovascolari, e zero eventi nei circa trecentododici mesi successivi. Si tratta di un risultato di vitale importanza che ha portata maggiore di qualsiasi beneficio sanitario di cui sia mai venuto a conoscenza: in medicina non c’è nient’altro che si avvicini a questo effetto.

Confrontate questi dati con quelli relativi al farmaco Ranexa, di cui abbiamo parlato all’inizio di questo capitolo, in termini di riduzione del numero di decessi per cardiopatia o altre cause. Un vastissimo studio di monitoraggio su seimilacinquecento pazienti che assumevano il Ranexa ha riscontrato miglioramenti di poco conto in alcuni parametri, ma il verdetto totale, riportato nel «JAMA» afferma: «Non si è riscontrata alcuna differenza nella mortalità totale fra i pazienti curati con la ranolazina e quelli cui si è somministrato un placebo».

RILEVANZA STATISTICA CONTRO RILEVANZA EFFETTIVA

La profondità di un effetto non è importante solo per la persona che ne fa esperienza: la profondità che prevediamo di verificare in uno studio sperimentale determina il numero di soggetti necessari alla ricerca, così da valutare con ogni grado di sicurezza se i risultati siano reali, o se rappresentino un fatterello senza importanza.

In altre parole: minore è la differenza fra due condizioni (per esempio gruppo sottoposto a esperimento e gruppo di controllo, oppure terapia A e terapia B), maggiore è il numero di soggetti necessari per dimostrare che quella differenza è reale, e non dovuta a casualità. In un caso come quello del farmaco Ranexa, in cui gli episodi di angina sono passati da 4,5 a 3,5 a settimana, sono necessarie parecchie centinaia di partecipanti allo studio per dimostrare che il risultato non può essere dovuto al caso, ovvero che è “statisticamente rilevante”, come si dice in gergo scientifico.

Probabilmente vi starete interrogando sulla portata dello studio di Esselstyn, dal momento che il gruppo sottoposto all’esperimento era così ristretto. Diciotto soggetti sono un campione sufficiente a garantire rilevanza statistica?

Per rispondere a questa domanda, immaginiamo un esito differente per l’esperimento di cui sopra. Supponiamo che il gruppo B, ossia il gruppo di controllo, mediamente subisca ancora da quattro a cinque eventi cardiaci a settimana. Il gruppo A, ossia quello che si avvale della nuova terapia, non registra più alcun evento: nessuno, zero assoluto. Quando l’effetto è così grande non sono necessarie centinaia di dati. La probabilità che risultati così coerenti e profondi siano dovuti al caso è praticamente pari a zero.

Se dedicate del tempo ad analizzare le ricerche scientifiche, incontrerete spesso il concetto di rilevanza statistica. Si tratta di un criterio molto utile, perché impedisce di trarre conclusioni sulla base di dati insufficienti.

Se per esempio lanciamo una volta una monetina e otteniamo testa, non potremo affermare che quella particolare moneta cade sempre mostrando quel lato. Non si può distinguere un modello costante nella confusa casualità propria di un gesto come lanciare una monetina sulla base di un singolo lancio, e nemmeno sulla base di cinque o sei.

Il problema è che molti ricercatori mettono la rilevanza statistica al di sopra di un criterio altrettanto importante, ovvero la rilevanza effettiva, quella che risponde alle domande: «Per chi è importante? Perché questo risultato conta?».

Siamo davvero così entusiasti di poter ridurre gli attacchi di angina da 4,5 a 3,5 a settimana? Non per minimizzare le sofferenze dei pazienti cardiopatici, ma non dovremmo investire il nostro tempo e il nostro denaro alla ricerca di terapie che migliorano davvero la vita delle persone, invece che limitarsi a mantenere e gestire il loro stato patologico?

VERSO UNA MIGLIORE SOLUZIONE PER LA SALUTE

Sulla base dell’evidenza scientifica che ho finora esposto in questo capitolo, probabilmente penserete che le migliori facoltà di medicina del Paese si apprestino a fare dell’alimentazione a base vegetale la principale scienza “medica” del futuro.

Gran parte della formazione medico-scientifica e dei finanziamenti degli NIH dovrebbe essere dedicata alla formazione e alla ricerca nutrizionale, così da scoprire come meglio consigliare i pazienti in fatto di alimentazione e creare ambienti in cui mangiar sano sia più facile che seguire una dieta sbagliata.

Invece non sta capitando niente di tutto questo.

Certo, a livello puramente verbale l’establishment medico è favorevole a una sana alimentazione (termine intenzionalmente vago che non significa niente nel dibattito pubblico), ma in realtà non prende sul serio la dieta come primo e principale strumento per combattere e prevenire la malattia.

L’importanza di una dieta a base di alimenti vegetali naturali (specialmente quelli ad alto contenuto di antiossidanti e di fibre) è stata pienamente accettata soltanto dalla medicina alternativa e preventiva, mentre all’interno dell’establishment l’idea che la nutrizione possa incidere su malattie gravi come il cancro è ritenuta del tutto strampalata, malgrado il fatto che quasi nessuno dei professionisti che negano sistematicamente il potenziale della nutrizione disponga di una formazione specifica in questo campo.

La ricerca indica che questo tipo di alimentazione è davvero il modo migliore di affrontare la malattia. Meglio dei farmaci da prescrizione e della chirurgia, e meglio di qualsiasi cosa la medicina ufficiale abbia in arsenale nelle varie “guerre” contro il cancro, l’ictus, le cardiopatie, la sclerosi multipla e così via.

Forse è il momento di smettere di dichiarare guerra a noi stessi con farmaci tossici e interventi chirurgici a rischio, e di trattarci bene consumando tutti quei cibi che permettono di crescere e mantenere sane e vitali le persone e le culture di cui fanno parte.

Ciò di cui abbiamo bisogno è un nuovo modo di considerare parole come salute e medicina.

La salute è qualcosa di più di un paio di formule superficiali come «segui una dieta sana», o «usa l’alcol con moderazione», oppure «usa le scale, non l’ascensore ». Ovviamente c’è del merito in ognuna di queste affermazioni, ma nella sostanza escludono la possibilità di un vero cambiamento: si tratta di asserzioni politicamente corrette ma prive di specifica consistenza.

Invece di proferire ottimistiche banalità che non portano a niente, dobbiamo fare della nutrizione l’elemento centrale del nostro sistema sanitario. Inoltre, dobbiamo allontanarci dalla mentalità della “dieta” che promuove sprazzi eroici e insostenibili di alimentazione sana: invece che “metterci a dieta” occorre cambiare stile di vita e includere un’alimentazione che promuove la salute. Chi adotta la dieta vegetale e integrale scopre che la maggior parte dei suoi problemi di salute era causata o pesantemente aggravata dal precedente modo di mangiare e che si risolve in modo rapido e naturale non appena l’organismo comincia a ricevere il carburante adatto.

È come qualcuno che si percuota tre volte al giorno la testa con un martello e dichiari di non riuscire a trovare niente contro il mal di testa: forse la cosa da fare è posare il martello!

Ingenuamente credevo che, una volta visionati i dati in mio possesso, l’intera comunità scientifica e medica sarebbe stata in grado di cogliere l’evidente sensatezza di questo approccio.

Ma quando cominciai a sostenere che la nutrizione dev’essere il centro del sistema sanitario, mi accorsi di quanto sbagliavo. Uno dei fenomeni più illuminanti è stata la ferocia con la quale sono stato attaccato per aver divulgato i risultati della mia ricerca e le relative implicazioni: a volte anche da parte di colleghi professionisti e ricercatori.

Per quanto oggi mi possa apparire sciocco, quando ho intrapreso questo percorso non immaginavo che le idee contenute in questo capitolo mi avrebbero marchiato come eretico compromettendo il finanziamento delle mie ricerche e la mia carriera.

Fortunatamente per me, questi effetti si sono rivelati largamente inefficaci.

Ma prima di passare alle grandi questioni che stanno dietro a quegli attacchi, vorrei condividere con voi il mio percorso eretico. Dopo tutto, su alcune di queste idee ho avuto un vantaggio iniziale di cinquant’anni. Vi metterò al corrente, prima di gettarci nella mischia.

Il Trionfo del Riduzionismo – Estratto da “Whole – Vegetale e Integrale”

«Noi non vediamo le cose come sono,
le vediamo come siamo».
Talmud

Una vecchia storia: sei ciechi devono descrivere un elefante. Ognuno tocca una parte diversa del corpo: zampa, zanna, proboscide, coda, orecchio e pancia.

Come è facile prevedere, ognuno fornisce un giudizio completamente diverso: pilastro, tubo, ramo, fune, ventaglio e muro. Litigano furiosamente e ognuno è sicuro che la propria esperienza sia quella giusta.

Non conosco una metafora migliore per evidenziare il grosso problema dell’attuale ricerca scientifica, salvo che invece dei sei ciechi, la scienza moderna incarica sessantamila ricercatori di esaminare l’elefante, ognuno attraverso una lente diversa.

Ovviamente questo modo di procedere di per sé non ha niente di sbagliato. Si potrebbe sostenere che i sei uomini, ognuno concentrato su una singola parte, insieme producono una descrizione più ricca e dettagliata di quella che una sola persona potrebbe fornire limitandosi a girare intorno all’animale nella sua interezza e a osservarlo. Analogamente, pensate al livello di conoscenze dettagliate che sessantamila scienziati possono ricavare se possono dedicarsi allo studio di componenti così infinitesimali.

Il problema si presenta solo quando, come nella parabola, i punti di vista individuali vengono erroneamente presentati come se si descrivesse la verità nella sua interezza. Quando il fuoco del fascio laser viene preso per una panoramica globale. Quando i sei uomini o i sessantamila ricercatori non si parlano né riconoscono che l’obiettivo generale dell’esplorazione è percepire e comprendere l’intero elefante. Quando partono dal presupposto che qualunque punto di vista che metta in dubbio il proprio sia sbagliato e basta.

In questo capitolo prenderemo in esame i due paradigmi opposti nel campo della scienza e della medicina: il riduzionismo e l’olismo.

Vedremo che il trionfo del primo sul secondo negli ultimi secoli della nostra storia – quando gli strumenti riduzionisti avrebbero dovuto essere messi al servizio della conoscenza olistica – ha invece seriamente pregiudicato la nostra capacità di comprendere il mondo.

I LIMITI DEI PARADIGMI

Nel 2005, in un discorso di conferimento delle lauree, lo scomparso scrittore David Foster Wallace raccontò una storia che coglie in modo perfetto la funzione dei paradigmi:

«Ci sono due giovani pesci che nuotano uno vicino all’altro e incontrano un pesce più anziano che, nuotando in direzione opposta, fa loro un cenno di saluto e poi dice: “Buongiorno ragazzi. Com’è l’acqua?”. I due giovani pesci continuano a nuotare per un po’ e poi uno dei due guarda l’altro e gli chiede: “Ma cosa diavolo è l’acqua?”»

Nel Capitolo 3 abbiamo parlato dei paradigmi per provare a spiegare il modo in cui molti dei miei colleghi hanno reagito ai nostri risultati scientifici sulle proteine animali e sui benefici per la salute di una dieta vegetale e integrale.

Ho paragonato la mia esperienza a quella del pesce che esce dall’acqua e incontra per la prima volta l’aria: poiché mi sono trovato al di fuori del paradigma scientifico dominante, sono riuscito a comprendere meglio dove erano i suoi limiti.

Ciò che in quel capitolo non abbiamo considerato era lo scopo dei paradigmi, i loro vantaggi e punti deboli. Inizialmente un paradigma è un modo utile per elaborare le conoscenze e mettere alla prova le teorie. Infatti penso di poter affermare che non ci sarebbe possibile vivere senza paradigmi, e sicuramente non potremmo progredire nella conoscenza dell’universo.

Nel suo senso più ampio, un paradigma è un filtro mentale che delimita ciò che siamo in grado di vedere in ogni momento.

I filtri mentali sono essenziali: senza il sistema di attivazione reticolare, che ha sede nel cervello, saremmo sopraffatti dagli stimoli e incapaci di rispondere a quelli importanti. Senza la capacità di concentrare l’attenzione su una sola cosa ed escludere le distrazioni, nessuno di noi sarebbe in grado di concludere granché. E nella scienza, senza i veri e propri filtri dei microscopi e dei telescopi sapremmo assai poco dello spazio all’interno e all’esterno del nostro corpo.

I filtri – che si tratti di quelli mentali o di quelli reali – diventano problematici solo quando ci si dimentica di loro e si pensa che ciò che vediamo sia tutta la realtà, invece di una sua porzione molto sottile.

I paradigmi diventano prigioni solo quando smettiamo di riconoscerli come ciò che sono: quando pensiamo che non esista altro che l’acqua, al punto di non attribuirle neppure un nome. In un mondo improntato dal paradigma dell’acqua, chiunque suggerisca l’esistenza della “non acqua” è automaticamente un eretico, un folle o un pagliaccio.

Perciò immergiamoci nelle tumultuose acque della filosofia e cerchiamo di inquadrare i due opposti paradigmi che ho introdotto qualche pagina fa: il riduzionismo e l’olismo.

RIDUZIONISMO CONTRO OLISMO

Se siete riduzionisti, siete convinti che ogni cosa al mondo possa essere compresa quando se ne comprendono tutte le componenti. Un olista, invece, crede che l’intero possa essere più grande della somma delle sue parti: ecco dunque l’intero dibattito ridotto ai minimi termini.

E tuttavia questa discussione infuria fra filosofi, teologi e scienziati sin dall’antichità.

Si tratta solo di filosofia accademica, come discutere il sesso degli angeli? Non esattamente. Come vedremo, scegliere un paradigma invece di un altro porta a un approccio radicalmente diverso nei confronti della scienza, della medicina, del commercio, della politica e della vita stessa.

Nel Capitolo 5 mostrerò l’influsso dei diversi approcci sul nostro concetto di alimentazione. Per il momento consideriamo la battaglia fra olismo e riduzionismo in una prospettiva più ampia, ed esploriamo come il secondo abbia preso il sopravvento sul primo.

Comincerò col dire che si tratta di una battaglia che in realtà non ha ragione di esistere: non c’è conflitto intrinseco fra le tecniche riduzioniste della scienza e una prospettiva olistica globale.

Di per sé il riduzionismo non è niente di negativo. Al contrario, la ricerca riduzionista è stata portatrice di alcuni dei più importanti progressi degli ultimi secoli. Dall’anatomia alla fisica, dall’astronomia alla biologia e alla geologia, grazie alle conquiste scientifiche dovute alla sperimentazione rigorosa e mirata del riduzionismo abbiamo raggiunto una comprensione più profonda dell’universo, e una maggior capacità di interagire positivamente con esso.

L’olismo non si oppone al riduzionismo, semmai lo comprende, proprio come ogni intero comprende le sue parti.

Non penso sia necessario annullare due millenni di progresso scientifico e tornare ai tempi in cui gli esseri umani adoravano la natura senza desiderare di comprenderne i meccanismi. Penso che sia meraviglioso avere sei ciechi che studiano il problema dell’elefante, ma vorrei anche che ci fosse qualcuno per dargli qualche dritta sull’intero animale.

Sarete perplessi per il mio uso del termine wholism [da whole, intero, integro, che è anche il titolo originale di questo libro; N.d.T.] invece del più frequente holism senza l’iniziale “w”, ma quest’ultima grafia rimanda al termine holy [santo, sacro; N.d.T.], e di qui forse il problema, vista la sua valenza religiosa.

Molti scienziati sono infatti ostili alla religione così come i fondamentalisti religiosi lo sono alla scienza. Quando incontrano la parola holistic pensano a un sistema di credenze approssimativo e campato in aria che non ha collocazione in una rigorosa esplorazione del “mondo reale”.

Paradossalmente questo rifiuto dell’olismo da parte degli scienziati è il massimo del dogmatismo, un atteggiamento fondamentalista che nega la possibilità di qualunque verità diversa da quella consentita dal riduzionismo. Mi sembra già di vedere i miei colleghi scienziati rabbrividire all’idea di essere fra i più truci fondamentalisti senza saperlo!

RIDUZIONISMO: UNA PANORAMICA STORICA

Sin dagli inizi dell’esistenza, gli esseri umani sono sempre stati mossi da un desiderio insaziabile di sapere di più sul mondo e su se stessi.

Da dove veniamo?

Che cosa sono le emozioni che proviamo
e come possiamo affrontarle?

Dove siamo diretti?

Qual è il significato della vita?

Nell’antica Grecia – culla di buona parte del pensiero occidentale – la scienza e la teologia erano strettamente interconnesse e occupavano un terreno in larga misura comune. Entrambe si interessavano delle grandi questioni di tutti i tempi che riguardavano il significato dell’esistenza umana e il mistero dei segreti della natura. Lavoravano mano nella mano, con la scienza che forniva la materia prima – le osservazioni – e la teologia che le elaborava formulando teorie globali o grandiose narrazioni sull’universo.

Entrambe le discipline sono lenti attraverso le quali interpretare la realtà e interagire con essa, in modo molto simile a un microscopio e a un binocolo: entrambi ci rivelano più cose sul mondo di quelle che riusciamo a vedere a occhio nudo, ma le informazioni che ricaviamo da ciascuno dei due possono divergere notevolmente.

Teologi/scienziati greci come Pitagora, Socrate, Aristotele o Platone non avrebbero gradito l’idea di scegliere uno strumento e abbandonare l’altro. Questi filosofi (letteralmente “coloro che amano la sapienza”) scrivevano e parlavano di cibo e salute, giustizia, diritti delle donne, letteratura e teologia con la stessa naturalezza e la stessa passione e convinzione con cui argomentavano di geologia, fisica e matematica.

In un certo momento della storia – non sono uno storico, perciò lascerò i dettagli a chi ne ha competenza – la scienza e la teologia hanno intrapreso percorsi divergenti, con conseguente impoverimento di entrambe.

Gli esponenti del clero attribuirono a determinate interpretazioni dell’universo il valore di rigidi dogmi, con il risultato che qualsiasi dubbio nei confronti di queste concezioni costituiva eresia. La scienza si ritirò in Occidente, mentre quelle che erano state affermazioni scientifiche perfettamente logiche e basate su fatti osservabili (come sostenere che la Terra fosse il centro dell’universo nell’astronomia tolemaica) vennero trasformate e distorte in princìpi di fede immutabili.

Da quel momento in poi l’osservazione diretta della realtà venne non a torto considerata un’attività pericolosa: che fare infatti, se si osservava qualcosa che contraddiceva la teologia dominante?

Solo intorno alla seconda metà del XIV secolo la scienza cominciò a riemergere definendo l’avvento di una nuova era, il Rinascimento, che condusse a uno scontro fra il punto di vista della fede e quello della ragione.

Gli studiosi riscoprirono i classici greci e si sentirono ispirati a perseguirne i metodi di osservazione, invece di rimanere aggrappati a conclusioni fideistiche. Copernico (1473-1543) sfidò il dogma teologico affermando che il Sole, e non la Terra, occupava il centro dell’universo conosciuto. Galileo (1564-1642) inventò il telescopio e dimostrò che Copernico aveva ragione.

Nei trecento anni che seguirono (1600-1900) molti studiosi e scienziati eminenti e coraggiosi raccolsero osservazioni che posero le basi per una supremazia dei fatti scientifici sulla fede religiosa, almeno nella mente di molti. Ci fu un fiorire del pensiero e dell’osservazione razionale da una prospettiva umana, con conseguenze utili non meno che illuminanti.

Ma questo nuovo umanesimo, che si era conquistato a fatica una rispettabilità contro la dogmaticità della Chiesa, divenne ben più intollerante nei confronti della teologia dei suoi antenati della Grecia classica.

Invece di cercare una collaborazione con i teologi, gli scienziati cercarono di interporre una distanza sempre maggiore fra i propri princìpi e i propri intenti e le “superstizioni” non fondate su fatti osservabili. Queste non comprendevano solo la religione, ma qualsiasi idea che non aderisse alla visione scientifica, la cui verità era perseguibile solo scomponendo il mondo osservabile nel maggior numero possibile di minuscole parti.

In breve: riduzionismo.

Benché ciò che noi esseri umani possiamo osservare sia cambiato e aumentato nel corso del tempo, quella convinzione di fondo sulla verità è rimasta la stessa. Ogni nuovo progresso tecnologico ci permette solo di frazionare il mondo in porzioni sempre più piccole.

La storia degli ultimi duecento anni ha assistito all’inesorabile marcia del riduzionismo in tutti gli aspetti della vita, dalla scienza alla nutrizione, alla formazione (pensate a tutte le “materie” di studio che vengono insegnate a compartimenti stagni), all’economia (si pensi alla microeconomia in opposizione alla macroeconomia) e perfino alla psiche umana (ridotta a una rete di nervi e circuiti cerebrali).

CIÒ CHE IL RIDUZIONISMO NON PUÒ SPIEGARE

Prendendo in esame il nostro attuale approccio alla conoscenza, si direbbe che il riduzionismo, sotto la maschera della scienza, abbia vinto, ma a caro prezzo per la nostra comprensione del mondo.

Rifiutando il controllo religioso della scienza, rinunciamo anche alle utili prospettive offerte dalla teologia: un modo di guardare al mondo come a un tutto fondamentalmente connesso. Una disponibilità ad accettare che ci siano cose che forse non potremo mai comprendere fino in fondo, e che possiamo solo limitarci a osservare.

I semplici fatti “scientifici” non possono spiegare pienamente se non una minuscola parte delle profonde e complesse emozioni che proviamo in alcuni momenti speciali della vita, o quando ci troviamo di fronte alle straordinarie meraviglie del mondo.

I fatti potrebbero mai spiegare appieno l’ispirazione e il senso di riverenza che proviamo quando ascoltiamo un bel brano musicale, oppure quando ci interroghiamo sul principio e sulla fine dell’universo, o ancora quando ammiriamo negli altri il talento e la forza delle emozioni? Descrivere l’attività di un enzima, la trasmissione degli impulsi nervosi o un picco nel rilascio ormonale riesce davvero a cogliere l’esperienza di quell’ammirazione e di quelle emozioni?

Si tratta di cose incredibilmente complesse, che sono al di là degli strumenti dell’indagine oggettiva materiale.

Con il suo teorema di incompletezza (pubblicato nel 1931), il matematico austriaco Kurt Gödel dimostrò la futilità dell’utilizzo di tecniche riduzioniste per ricostruire un sistema complesso. Provò infatti matematicamente che nessun sistema complesso può essere conosciuto nella sua interezza e che qualsiasi sistema che sia conoscibile nella sua interezza è soltanto un sottoinsieme di un sistema più grande.

In altre parole, la scienza non potrà mai descrivere completamente l’universo.

Indipendentemente dalla potenza della lente o del computer che utilizziamo, non saremo mai in grado di ricostruire con accuratezza assoluta le reazioni chimiche che si verificano quando facciamo una cosa semplice e quotidiana come osservare un tramonto.

Non è solo questione di migliori strumenti tecnici e maggior potenza informatica: è come se la realtà stessa si opponesse ad ogni tentativo.

Nello stesso periodo in cui Gödel scopriva i limiti della matematica nel descrivere la realtà numerica, i fisici delle particelle comprendevano che anche i loro avanzati strumenti di percezione erano inadeguati a definire con esattezza la realtà fisica. La luce poteva essere una particella o un’onda, a seconda di come la si osservava. La fisica quantistica si sottraeva completamente all’oggettività, nella sua descrizione delle particelle subatomiche in termini di probabilità anziché di realtà. Werner Heisenberg dimostrò che in un dato momento è possibile osservare solo la posizione o la velocità di un elettrone, ma mai entrambe.

Il riduzionismo – ossia proprio la ricerca di questo tipo di rivelazione totale – è straordinariamente utile, ma più conoscenze accumuliamo, e più ci risulta chiaro che questo approccio è inadeguato al compito di comprendere l’universo.

IL “MODELLO LEONARDO”

Il nostro modo di praticare la scienza è dunque il risultato di un rifiuto post-rinascimentale nei confronti di una visione del mondo più olistica e condivisa con la religione. Tuttavia, nemmeno ritornare alla precedente divisione del lavoro fra scienziati e teologi non è la risposta giusta.

Per trovare un modello utile nella realtà odierna – il modello di uno scienziato che ricorre a metodi riduzionisti all’interno di un quadro di riferimento olistico – dobbiamo tornare al Rinascimento stesso.

Forse non c’è alcuno nella storia che incarni meglio l’integrazione fra scienza e olismo del massimo rappresentante del Rinascimento, Leonardo da Vinci (1452-1519).

La sua importanza e la sua fama non si devono solo al suo enorme talento artistico, ma anche alle sue eccezionali doti di scienziato. I suoi interessi in campo scientifico erano sorprendentemente vasti, e spaziavano dal dato biologico (anatomia, zoologia e botanica) a quello geofisico (geologia, ottica, aerodinamica e idrodinamica). I traguardi raggiunti da Leonardo sono straordinari anche per i parametri attuali, senza dimenticare che le sue opere risalgono a più di cinquecento anni fa!

Lo studioso provava un profondo interesse per la realtà e i prodigi della natura che considerava un tutto ampio e dinamico.

I soggetti della sua arte ispirata sono quasi più mirabili della realtà, e riflettono, almeno ai miei occhi, la sua idea di umanità, anch’essa vista come un tutto vasto e dinamico. Da Vinci nutriva anche una profonda curiosità per i piccoli dettagli in grado di spiegare i prodigi accessibili alla percezione umana che erano oggetto dei suoi dipinti.

Questo è facilmente riscontrabile sia nei suoi disegni di strutture anatomiche nel mondo della biologia, sia nelle raffinate rappresentazioni delle strutture meccaniche appartenenti alla fisica. Realizzò disegni sorprendentemente dettagliati di anatomia umana – in cui, con le parole di un suo biografo, prestava «attenzione alle forme di organi anche molto piccoli, capillari e ogni parte nascosta dello scheletro».

Di lui si dice addirittura che sia stato il primo nel mondo moderno a introdurre l’idea di una sperimentazione controllata – il concetto alla base dell’indagine scientifica – e per questo molti lo considerano il Padre della scienza. Probabilmente assai più di qualsiasi luminare accademico del tempo, Leonardo riconosceva la relazione fra l’intero e le sue parti.

Di lui si può certamente dire che fosse un eclettico, vista la portata eccezionale del suo talento artistico, umanistico e scientifico. Ma più rilevante dei suoi specifici traguardi, ai fini di questo libro, è il suo sapere, che promosse e sostenne un nuovo modo di pensare: una sintesi del tutto e delle sue parti. Leonardo abbracciava l’ampiezza e la profondità del pensiero, e dirigeva lo sguardo sia al singolo dato fornito dalla scienza, sia all’estasi umana che si prova quando tutte le parti, quelle note come quelle ancora ignote, agiscono in sinfonia per diventare l’intero.

Il contributo di Leonardo alla conoscenza dell’universo è profondo e durevole proprio grazie a questa integrazione.

Egli aveva compreso che, per progredire, l’olismo aveva bisogno del riduzionismo, e che quest’ultimo a sua volta non poteva fare a meno dell’olismo per non perdere rilevanza: sapeva che quando si estrapola un elemento da un contesto per studiarlo in modo più approfondito o misurarlo con maggiore esattezza, si rischia di perdere più di quanto si guadagni.

L’“INTERO” NELL’OLISMO

Il filosofo e statista sudafricano Jan Smuts, cui si attribuisce la creazione del termine olismo (holism senza “w”), scrisse che la realtà consiste in un «grande intero» costituito da «piccoli centri naturali di interezza».

Nel mio lavoro, l’organismo è il grande intero, e il processo mediante il quale il corpo digerisce il cibo è un centro minore di interezza al suo interno (l’alimentazione è solo una delle prospettive possibili sull’interezza del corpo).

Questo concetto è applicabile anche all’essere umano, cui ci si può riferire come a un piccolo centro di interezza all’interno del grande intero della biosfera del pianeta Terra, oppure a una singola cellula umana, intesa come un grande intero all’interno del quale i mitocondri, il DNA e altri corpuscoli che forse avrete studiato a scuola nell’ora di biologia sono piccoli centri naturali che rappresentano a loro volta un intero a sé. Si può proseguire in entrambe le direzioni fino a dove l’osservazione e poi l’immaginazione ci possono condurre. Dall’universo macrocosmico fino a quelli microcosmici, in termini filosofici c’è una gerarchia di interi, in cui ognuno contiene parti che a loro volta sono interi a sé.

In questo libro tratterò solo alcuni temi selezionati di biologia: l’espressione genetica, il metabolismo intracellulare e la nutrizione.

Ognuno di essi è, in sé e per sé, un sistema incomprensibilmente complesso.
E tuttavia, personalmente ho qualche remora a dividere la biologia in sistemi perché ciò implica confini che in realtà sono vaghi e arbitrari.

Se è vero che un organo è fisicamente delimitato all’interno del corpo, è altrettanto vero che esso comunica con gli altri organi mediante la trasmissione nervosa, la comunicazione ormonale, e in altri modi ancora. Ogni entità all’interno dell’organismo, fisica o metabolica che sia, è al tempo stesso un intero e una parte.

Dobbiamo dividere gli interi nelle parti che li compongono per poterli descrivere in modo efficace, ma anche così facendo non dobbiamo dimenticare che queste divisioni sono in un certo senso arbitrarie.

Di fatto, pensare che il nostro sistema di classificazione rappresenti una mappatura perfetta della realtà è un atteggiamento limitativo e potenzialmente pericoloso.

La medicina occidentale, per esempio, considera il corpo in chiave geografica: cura il fegato, il rene, il cuore, la rotula sinistra e così via. La medicina cinese, invece, vede nel corpo una rete energetica. A un paziente cui la medicina occidentale ha apposto l’etichetta di «cancro al fegato», la medicina cinese potrebbe ad esempio diagnosticare «un eccesso di yang nel meridiano triplice riscaldatore», una descrizione di uno squilibrio energetico che si ripercuote sulle cosiddette zone calde del corpo, che si collocano intorno alla testa, al torace e al bacino.

Quando i medici occidentali vennero per la prima volta in contatto con questo sistema, la maggior parte di loro liquidò tutto quel parlare di energia Chi e di meridiani come una superstizione opposta alla “realtà oggettiva” di organi, ossa, fluidi e muscoli. Ma l’efficacia documentata dell’agopuntura, che muove l’energia lungo i meridiani per curare molti disturbi, attesta l’utilità del paradigma cinese.

Forse qualcuno potrebbe obiettare che le nostre limitate conoscenze in campo biologico siano dovute alle carenze della tecnologia, non del paradigma: sicuramente il sistema biologico è al di là della nostra capacità di comprensione ora, ma prima o poi avremo una lente riduzionista sufficientemente potente da comprenderne anche la complessità.

Per tornare alla nostra metafora dell’elefante, forse potremmo aumentare il numero dei ciechi fino ad averne a disposizione milioni, affidare a ciascuno di loro la comprensione di una parte microscopica dell’elefante, e poi impiegare avanzati metodi computazionali e un supercomputer gigante per mettere insieme tutti i dati.

Questa è di fatto la tesi del celebre futurologo Ray Kurzweil, direttore degli studi ingegneristici di Google, che immagina che un giorno saremo in grado di creare dal nulla un corpo umano, una volta che ne avremo conosciuta ogni parte e avremo progettato supercomputer sufficientemente potenti da consentircelo.

Personalmente, però, ritengo che questa prospettiva pecchi di ingenuità, almeno per sistemi biologici come un corpo intero.

Consideriamo per esempio un enzima, una proteina fondamentale in varie reazioni chimiche indispensabili al buon funzionamento dell’organismo umano, come la digestione e la costruzione delle cellule. Con la sperimentazione e l’osservazione possiamo discernere la composizione chimica, le dimensioni, la forma e alcune delle funzioni dell’enzima. Ma la somma di tutto questo equivale all’enzima stesso?

Secondo la scienza moderna la risposta è sì: essa infatti considera l’enzima come un’entità distinta e caratterizzata da limiti distinguibili, e il suo obiettivo è l’individuazione di tali limiti.

Se il mondo fosse davvero un accumulo di parti, ognuna definita da limiti discernibili, forse in un futuro i tecnologi potrebbero comprendere l’organismo umano osservandolo attraverso una lente riduzionista azionata da supercomputer, da complessi modelli computazionali e altre tecnologie.

Ma il mondo in realtà è molto più complesso.

L’enzima non è un’unità distinta e a sé stante: è una parte integrante di un sistema più grande. Esiste in funzione del sistema, come ogni altro elemento del sistema stesso: se mai un elemento cessa di agire in funzione del sistema di cui fa parte, come nel caso della crescita incontrollata del cancro, il sistema collassa, e può addirittura smettere di funzionare.

Ogni parte infatti è un elemento integrante dello stesso sistema, e tutte le parti sono interconnesse: nessuna è indipendente. E questo significa che ogni parte influenza l’altra e ne è a sua volta influenzata. Asportare o modificare una parte modifica l’insieme, allo stesso modo in cui modificare l’insieme, come vedremo più avanti, esercita un impatto sulle parti. In altre parole: quando una parte viene alterata, tutte le altre parti sono costrette ad adattarsi per cercare di mantenere il sistema funzionante.

In questo scenario, i distinti confini che attribuiamo alle singole parti svaniscono.

In termini semplici: all’interno del corpo umano non ci sono “margini” fissi che separano una regione da un’altra qualsiasi. Ci sono invece infinite connessioni e cambiamenti continui, ed è questo ininterrotto flusso di cause ed effetti a rendere inutili i modelli di previsione riduzionisti.

Questa mancanza di confini è importante perché significa che ogni “parte” del corpo coinvolge ben più di quanto possiamo vedere quando la esaminiamo, come nel riduzionismo, in forma isolata rispetto al sistema più grande di cui fa parte.

Ciò che costituisce l’enzima, il modo in cui si presenta, i suoi effetti e il motivo di quegli effetti: tutto questo rappresenta una funzione di quel sistema più grande che è il corpo umano. Una tecnologia più avanzata e potente non può cambiare questa realtà fondamentale.

Qualunque sia il numero di ciechi incaricati di osservare le varie parti dell’elefante, e per avanzata che sia la tecnologia a loro disposizione, non ci sarà mai possibile generare le conoscenze necessarie a vedere l’animale intero.

Quando deploro l’idea di estrapolare una parte dal contesto dell’intero – che si tratti di una sostanza nutritiva, di un meccanismo biologico o di qualcosa di diverso – ciò che non approvo è che studiando singole componenti fuori contesto, ci accechiamo fino a non vedere le interpretazioni olistiche e le vere soluzioni per la salute umana che queste interpretazioni potrebbero offrire.

IL PREZZO INTELLETTUALE DELLA VITTORIA RIDUZIONISTA

Spero di aver chiarito che non è mia intenzione propugnare un ritorno a un’accettazione dogmatica e fideistica di visioni del reale emanate da qualsiasi autorità.

Al contrario, ciò che asserisco è che nella comunità scientifica c’è bisogno di meno dogmi e più apertura mentale, quando si tratta di osservare e descrivere il mondo in cui viviamo.

Uno dei princìpi fondamentali della scienza – l’elemento chiave che la distingue da ogni altro modo di considerare il mondo – è l’idea della falsificabilità. Fondamentalmente, se una teoria è falsificabile, significa che è possibile produrre prove per confutarla. L’atteggiamento opposto, il dogma, è per definizione qualsiasi cosa sia ritenuta infalsificabile.

Supponiamo che voi crediate che l’autobus da New York City a Ithaca arrivi sempre puntuale. Se un giorno l’autobus dovesse arrivare in stazione con venti minuti di ritardo, presumo che converrete che questo fatto verrebbe a smentire la vostra teoria. A questo punto potrete rettificarla affermando che il pullman arriva puntuale “il 95% delle volte”, oppure che arriva sempre “entro mezz’ora dal tempo previsto”, e poi potremmo concordare su osservazioni ed esperimenti a sostegno o a discredito di queste nuove teorie.

Ma il punto è che voi accettate a priori che una configurazione di fatti osservabili possa parzialmente o completamente invalidare la vostra teoria.

Prendiamo invece in esame la convinzione che esista una vita dopo la morte in cui i buoni sono ricompensati e i cattivi puniti. Se chiediamo a chi crede in questo tipo di aldilà quale prova li indurrebbe a mettere in dubbio questa convinzione, è molto probabile che ci vedremo rivolgere sguardi confusi.

Una fede di questo tipo non è aperta alla contraddizione dei fatti.
Anche se non crediamo in una vita dopo la morte, riusciamo a immaginare un fatto concreto che potrebbe inficiare questa fede?

Non sto affermando che una tale convinzione sia giusta o sbagliata, ma solo che non si tratta di scienza perché non può essere dimostrata errata o smentita mediante l’osservazione o la sperimentazione.

Il paradigma riduzionista è un dogma, un articolo di fede: rifiuta a priori l’idea di non essere sempre l’unico e il miglior modo di comprendere e misurare la realtà.

E la scienza moderna (in particolare le scienze biologiche e sanitarie) ha abbracciato il dogma del riduzionismo fino a negare il buon senso e la correttezza.

Gli individui più rispettati e colti della nostra società sono addestrati a operare esclusivamente all’interno dei confini di questo dogma. Per tornare alla nostra metafora: questi individui passano il tempo a studiare e a descrivere ogni minimo dettaglio dell’elefante senza che uno solo di loro sia consapevole che esiste un animale che porta quel nome.

La tragedia è che questo è il sistema cui abbiamo affidato la ricerca della verità e le cui scoperte determinano le nostre politiche pubbliche e influenzano le nostre scelte private.

Indice

Introduzione

I Parte – SCHIAVI DEL SISTEMA

Capitolo 1 – Il moderno mito della sanità
Capitolo 2 – Tutta la verità
Capitolo 3 – Il mio percorso eretico

II Parte – IL PARADIGMA COME PRIGIONE

Capitolo 4 – Il trionfo del riduzionismo
Capitolo 5 – Il riduzionismo invade la nutrizione
Capitolo 6 – La ricerca riduzionista
Capitolo 7 – La biologia riduzionista
Capitolo 8 – Genetica contro nutrizione – Prima Parte
Capitolo 9 – Genetica contro nutrizione – Seconda Parte
Capitolo 10 – La medicina riduzionista
Capitolo 11 – Riduzionismo e integratori
Capitolo 12 – La politica sociale riduzionista

III Parte – IL POTERE SOTTILE E I SUOI DETENTORI

Capitolo 13 – Comprendere il sistema
Capitolo 14 – Sfruttamento e controllo industriale
Capitolo 15 – Ricerca e profitto
Capitolo 16 – Questioni di media
Capitolo 17 – Disinformazione governativa
Capitolo 18 – Accecati dai portatori di luce

IV Parte – PENSIERI FINALI

Capitolo 19 – Verso una nuova integrità

Note
Indice analitico
Gli Autori
Ringraziamenti

T. Colin Campbell
Whole – Vegetale e Integrale – Libro >> http://goo.gl/evrvoi Ripensare la scienza della nutrizione
Editore: Macro Edizioni
Data pubblicazione: Settembre 2014
Formato: Libro – Pag 320 – 17×24 cm
http://www.macrolibrarsi.it/libri/__whole-vegetale-e-integrale-libro.php?pn=1567

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