OM MANI PADME HUM

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OM MANI PADME HUM

Da varie ricerche in web

OM MANI PADME HUM [Om Mani Pémé Hung]

Il mantra di Avalokiteshvara, il mantra più recitato e conosciuto anche dai non buddhisti. Può
essere recitato per lunghi periodi di tempo, sgranando il mala, il rosario buddhista, durante la
vita comune o la meditazione.

Om Mani Padme Hum viene recitato per ottenere la liberazione, quindi la pace e la libertà dalle
sofferenze, e si dice che sia così potente che anche un animale sentendolo otterrà una rinascita
umana e quindi la possibilità di conoscere il dharma e raggiungere l’illuminazione.

Il mantra non ha un significato letterale come frase compiuta, bensì hanno significato le sei
sillabe che lo compongono.

Om è composta da tre lettere: A, U e M. Queste simbolizzano il corpo, la parola e la mente impuri
del praticante all’inizio del suo sentiero verso la liberazione. Alla fine del sentiero,
simbolizzano il corpo, la parola e la mente puri di un Buddha.

Quindi, al tempo stesso, Om indica la possibilità che vi sia una trasformazione dall’impurità alla
purezza: il sentiero della liberazione.

Mani, due sillabe, significa “gioiello”, simbolizza la bodhicitta, cioè l’intenzione altruista di
raggiungere l’illuminazione per il beneficio di tutti gli esseri senzienti.

Padme, due sillabe, significa “loto”, simbolizza la saggezza, la conoscenza. La comprensione
dell’impermanenza, della vacuità, dell’interdipendenza, la conoscenza che recide ogni illusione e
offuscamento.

Hum chiude il mantra nella perfezione e simbolizza l’indivisibilità di metodo e conoscenza, di
compassione e saggezza.

Le sei sillabe del mantra significano che con la pratica di un sentiero che sia l’unione di metodo e
saggezza è possibile trasformare corpo, parola e mente impuri nel corpo, nella parola e nella mente
puri di un Buddha. La Buddhità, la natura del Buddha, è all’interno di ciascuno di noi così come è
all’interno del mantra Om Mani Padme Hum.

Il mantra può assumere altri significati in contesti diversi. Ad esempio, recitato durante il bardo,
cioè durante la fase successiva alla morte e precedente alla reincarnazione, è lo strumento per
evitare di ricadere nel ciclo di rinascite del samsara: “Om” chiude la porta della rinascita fra gli
dei, “Ma” quella fra le Asura, divinità gelose, “ni” quella fra gli uomini, “Pad” quella fra gli
animali, “me” quello fra i preta, spiriti insaziabili, e “Hum” quella negli inferi.

Si racconta che molti anni fa mille prìncipi fecero voto di diventare Buddha. Uno solo riuscì a
raggiungere l’illuminazione e divenne il Buddha che noi conosciamo come Gautama Siddharta.
Avaloketeshvara tuttavia fece voto di non entrare nel Nirvana fino a quando tutti gli altri prìncipi
non fossero diventati loro stessi dei Buddha. Nella sua infinita compassione fece anche voto di
liberare tutti gli altri esseri senzienti dalla sofferenza dei vari regni del Samsara. Prima di ciò
il Buddha pregò: “Possa aiutare tutti gli esseri ma se mi dovessi stancare di questo enorme lavoro
il mio corpo dovrà essere frantumato in mille pezzi”.

In primo luogo si dice sia disceso nel regno dell’inferno risalendo gradualmente attraverso il mondo
dei fantasmi affamati e più in alto sino al regno degli Dei. Da quel punto gli capitò di guardare in
basso e vide stupefatto che, anche se aveva salvato innumerevoli esseri dall’inferno ancora una
maggior numero vi si stava riversando. Fu un immenso dolore e per un momento perse la fede nel suo
nobile voto ed il suo corpo esplose in mille pezzi. Nella sua disperazione chiamò in aiuto tutti i
Buddha. L’aiuto si manifestò e venne da ogni parte dell’universo, come dice un testo, sotto forma di
leggera tormenta di fiocchi di neve. Con il loro immenso potere i Buddha lo ricomposero nella sua
completezza e da allora Avaloketeshvara ebbe undici teste e mille braccia e sul palmo di ogni mano
vi era un occhio a significare quell’insieme di saggezza e nobiltà che contraddistinguono la vera
compassione. In questa forma era ancora più splendente e più forte per poter aiutare tutti gli
esseri. La sua compassione si sviluppò ancora più intensamente ripetendo questo voto davanti ai
Buddha: ” Non potrò uscire dal Samsara sino a quando tutti gli esseri senzienti non avranno
raggiunto l’illuminazione “.

Si dice che per il dispiacere ed il dolore del Samsara dai suoi occhi sgorgarono due lacrime, con la
benedizione dei Buddha si trasformarono in due Tara. Una Tara nella forma verde che rappresenta la
forza attiva della compassione e l’altra Tara nella forma bianca che rappresenta l’aspetto materno
della compassione. Tara significa “Colei che libera – Colei che ci accompagna attraverso l’oceano
del Samsara”.

Nel Mahayana Sutra vi è scritto che Avaloketeshvara ha donato il suo Mantra al Buddha e Buddha, a
sua volta, gli ha assegnato il suo speciale e nobile incarico di aiutare tutti gli esseri
dell’universo a raggiungere l’illuminazione. In quel momento su di loro discesero fiori, la terra
tremò e nell’aria echeggiò il Mantra “OM MANI PADME HUM”.

Il mantra scritto più volte su strisce di carta è introdotto nelle cavità di “ruote”, o mulini di
preghiera (Manichorkor), che saranno girati a mano o dall’acqua.

Le ruote di preghiera sono usate dai tibetani per purificare se stessi, ed il mondo, dal karma
negativo accumulato, in base alla convinzione che il mettere in movimento il mantra scritto produce
gli stessi benefici effetti del pronunciarlo.

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