NEUROSCIENZE. IL CERVELLO HA UNA CAPACITA’ STRAORDINARIA: SI CHIAMA «IMAGERY»

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NEUROSCIENZE. IL CERVELLO HA UNA CAPACITA’ STRAORDINARIA: SI CHIAMA «IMAGERY»

“Ho scoperto che i ciechi congeniti sanno costruirsi immagini mentali”

da quantumedicine.com

TOMASO VECCHI

UNIVERSITÀ DI PAVIA

Immaginare una scena è un po’ come assistervi davvero. Questa affermazione richiama la straordinaria
capacità del nostro cervello di creare rappresentazioni mentali in grado di riprodurre
sostanzialmente la sensazione di vedere qualcosa con gli occhi. Possiamo guardare un film alla tv o
seguire un «filmato» che appare solo nel nostro cervello.

Il termine inglese che denota questa capacità – che utilizziamo tutti i giorni, benché il più delle
volte inconsapevolmente – è «imagery», che significa, appunto, rappresentare la realtà attraverso le
immagini mentali. Sfortunatamente il vocabolo italiano «immaginazione» non è altrettanto preciso,
richiamando piuttosto una gamma di significati legati al fantasticare o al desiderare che un evento
accada (ed avvicinandosi così più al vocabolo inglese «imagination»).

L’imagery

La ricerca scientifica su questa funzione del cervello – di cui ci serviamo comunemente per
orientarci, per guidare un’auto o anche (è il caso degli individui particolarmente «visualizzatori»)
per risolvere un problema – si è sviluppata solo recentemente, focalizzandosi su una questione
fondamentale, ovvero quanto l’«imagery» dipenda da meccanismi di percezione visiva (si è detto che
immaginare è come vedere: ma per il cervello è davvero la stessa cosa?) o piuttosto vada considerata
come una funzione «autonoma», assimilabile a un processo di memoria, di ricostruzione interna.

Indicazioni significative sono state fornite da una serie di ricerche che hanno studiato le capacità
rappresentazionali («imagery») in persone cieche dalla nascita. La logica sottostante alla ricerca è
che, se un cieco congenito è in grado di rappresentarsi mentalmente la realtà, allora la vista non è
una condizione necessaria per esperire immagini mentali. Ovvero, vedere con gli occhi e vedere con
la mente, benché siano esperienze apparentemente simili, si basano in realtà su meccanismi cerebrali
diversi. In effetti questo è ciò che è stato trovato: i ciechi si creano immagini mentali come tutte
le altre persone e, per quanto possa apparire sorprendente, le rappresentano «a colori». E fanno
fotografie, selezionando, come tutti, la prospettiva più adeguata per scattare l’istantanea: si
rappresentano, cioè, la scena che vogliono fotografare come se la vedessero, ma con gli occhi della
mente.

Memoria e pensiero

Un cieco dalla nascita è in grado di generare delle immagini mentali e di utilizzarle per far fronte
alle attività quotidiane. I processi di «imagery» – di rappresentazione mentale – non sono pertanto
mere derivazioni di fenomeni percettivi, ma coinvolgono funzioni cognitive complesse, come la
memoria o il pensiero. Ma è davvero possibile escludere qualsiasi ruolo della percezione visiva
nello sviluppo delle capacità di «imagery»? Ciechi e vedenti si comportano nello stesso modo quando
devono rappresentarsi mentalmente la realtà?

Le manipolazioni

Stando ad alcune ricerche recenti, le cose non stanno proprio così. La cecità, infatti, determina
alcune specifiche limitazioni nella capacità di rappresentarsi mentalmente il mondo. Tra i fattori
critici sembrano rientrare la complessità della scena da visualizzare e la necessità di compiere
delle manipolazioni o trasformazioni sull’immagine generata, compiti che comporterebbero nei non
vedenti tempi di esecuzione più lunghi e una minor precisione nelle risposte. Secondo alcuni
ricercatori, questi limiti sarebbero imputabili alla mancanza di strategie appropriate dovute,
appunto, alla cecità.

Strategie cognitive

Ciò non significa che un individuo non vedente sia totalmente privo di strategie cognitive, quanto
che debba appoggiarsi a strategie meno efficaci. Per esempio, un vedente è in grado di costruirsi
una rappresentazione allocentrica di una scena esterna (ovvero una rappresentazione indipendente
dalla posizione dell’osservatore). Di contro, un non vedente tenderà a costruirsi una
rappresentazione ancorata alla propria posizione, basata su coordinate egocentriche. Questo per via
della diversa modalità esplorativa con cui vedenti e non vedenti entrano in contatto con la realtà:
prevalentemente tattile per un cieco congenito, principalmente visiva per i vedenti.

Va sottolineato come queste differenze nelle strategie cognitive siano modulate dall’età in cui è
insorto il deficit visivo. Nel caso di uno congenito il sistema cognitivo si abitua da subito a
funzionare in mancanza della percezione visiva: ciò si riflette nell’organizzazione cerebrale dove,
grazie alla plasticità corticale, aree deputate all’elaborazione di stimoli visivi vengono reclutate
da stimoli tattili o acustici. Nel caso di un’insorgenza più tardiva del deficit, invece, questi
meccanismi di riorganizzazione cerebrale appaiono meno sviluppati. A seconda del compito, i ciechi
congeniti possono ottenere migliori prestazioni rispetto ai ciechi tardivi o viceversa.

Queste ipotesi sono state vagliate attraverso l’analisi dello sviluppo del sistema cognitivo in
presenza o assenza di percezione visiva da una rete di ricerca presso le Università di Pavia, Padova
e Pisa. Ne è emerso che – se da un lato vedere non sembra essere un prerequisito per la capacità di
utilizzare immagini mentali – è però plausibile che la percezione visiva incida molto sullo sviluppo
di un sistema cognitivo interno che si abitua a creare immagini simili a quelle ottenute con la
vista.

I ciechi si rappresentano immagini mentali ascoltando un racconto o una descrizione, leggendo un
testo in braille o sulla base di rumori e suoni, annusando o toccando. In nessuno di questi casi,
però, la complessità della stimolazione è paragonabile a quella che accompagna la percezione visiva.
Il sistema cognitivo dei ciechi si adegua infatti ad una stimolazione più ridotta e – soprattutto –
si struttura sulla base di un’esperienza percettiva sequenziale, qual è quella veicolata da udito e
tatto. Di contro, solo la vista – il «colpo d’occhio» – consente di catturare simultaneamente molte
informazioni. Un ulteriore supporto all’ipotesi che la vista non sia una condizione indispensabile
per lo sviluppo di efficienti capacità rappresentazionali viene dalla neuroimmagine funzionale.

I dati mostrano che ciechi e vedenti utilizzano le stesse strutture cerebrali, quando sono impegnati
a generare ed elaborare delle immagini mentali e, nello specifico, quando devono visualizzare la
posizione precedentemente memorizzata di una serie di oggetti o seguire mentalmente un percorso.
Ovvero, le stesse aree cerebrali sottendono – nei ciechi e nei vedenti – la capacità di ricordare
per esempio dove si sono appoggiate le chiavi.

Quali sono i fattori cruciali per lo sviluppo del sistema cognitivo deputato alle immagini mentali?
E’ la visione in sé o vanno identificati alcuni aspetti dell’esperienza visiva? Una serie di
esperimenti su individui affetti da patologie congenite offre indicazioni preziose. Si sono
confrontate le capacità di «imagery» in persone con visione monoculare e in individui affetti da
un’ipovisione marcata. I risultati hanno mostrato che non è la visione come esperienza fenomenica a
essere rilevante per la capacità di generare immagini mentali, quanto il carattere binoculare
dell’esperienza visiva, che veicola simultaneamente stimoli distinti, influenzando anche i
meccanismi di rappresentazione interna.

E’ un dato sorprendente, se si considera che gli individui con visione monoculare mostrano gli
stessi limiti dei ciechi nei processi di rappresentazione interna, mentre l’ipovisione grave
permette lo sviluppo di meccanismi cognitivi di rappresentazione mentale simili a quelli dei
vedenti.

Questi dati sono fondamentali nell’identificare i contributi della percezione visiva nei processi di
rappresentazione mentale… ma ne dobbiamo essere sorpresi? Omero non ha forse raccontato che
Polifemo non riuscì a immaginare la posizione di Ulisse e dei compagni, consentendo loro di fuggire
dalla sua caverna? Sempre saggi gli antichi, che già intuirono come la monocularità non produca
buone immagini!

CHI E’
Vecchi, Psicologo
RUOLO: E’ professore di Psicologia Sperimentale all’Università di Pavia
LA RICERCA: Ha coordinato lo studio che viene qui pubblicato con Zaira Cattaneo. Hanno partecipato
anche le università di Padova e di Pisa insieme con il Cnr

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