Ludovico Einaudi: “La mia musica è come un ologramma”

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Ludovico Einaudi: “La mia musica è come un ologramma”

di ERNESTO ASSANTE

ROMA – Ludovico Einaudi è una star, il pubblico dei teatri e delle sale da concerto di mezzo mondo
lo applaude, il pubblico più giovane si emoziona con la sua musica, quello adulto la ascolta con
attenzione. Lui però, pianista dotato di grande tecnica, ma soprattutto di uno stile personalissimo e di grande creatività, non è certamente un divo.

E questa “normalità”, la capacità che ha di legare a doppio filo la musica e la vita, sono parte
integrante di una musica carica di emozione e invenzione. Una musica che sfugge ad ogni possibile
etichetta. E che Repubblica propone in una collana di cinque cd che bene illustrano la ricca
musicalità del pianista, che ha iniziato la sua avventura alla fine degli anni Settanta e oggi è uno dei musicisti italiani più amati al mondo.

Einaudi, che nome darebbe alla sua musica?
“È davvero difficile, nella mia musica c’è una grande libertà interiore nello scegliere dove
muovermi, come muovermi, e quindi anche nel definirmi. Oggi metto insieme tutte le esperienze
musicali attraverso le quali sono passato, quelle legate a un’educazione classica, le mie passioni
che vanno dalla contemporanea, al rock, al jazz, all’elettronica, le esperienze che ho fatto
lavorando con musicisti di tradizione popolare di altri paesi. È come se cercassi un filo comune che
abbia un significato per me, per poter restituire le cose più belle che mi hanno formato, segnato,
emozionato. A questo punto penso di essere in grado di tirare le fila e di restituire tutto in un linguaggio musicale organico. Se questo abbia un nome, francamente non lo so”.

Non solo musicista, dunque, ma anche appassionato cultore, studioso, curioso…
“Amo tutta la musica e la amo anche per la ricchezza che sa offrire. Basta pensare a quanto sia
difficile un disco come Stg. Pepper dei Beatles, che è pieno di stili e influenze diverse, o il
White Album che va da brani sperimentali come Revolution n°9 a Obladì Obladà. Essendo io in qualche
modo anche figlio di quella cultura, di quella visione della musica, della scrittura degli album,
che sono per me come opere che devono avere un forma organizzata come quella di un libro, in cui
ogni brano è un capitolo di una storia più grande, mi piace disegnare questi affreschi, ci tengo che
vengano considerati come un quadro generale anziché smembrarli in brani separati”.

Eppure, nonostante la sua visione ancora legata all’album, il suo rapporto con le esperienze del passato, la sua musica ha un’intrinseca modernità.
“Diciamo che è un linguaggio che trascende il tempo, ha una sua inafferrabilità e offre la
possibilità di una lettura trasversale. Credo sia come guardare un ologramma, che è reale e
fantasmatico al tempo stesso, come leggere un oracolo che ogni volta ti dà risposte diverse, ha
un’ambiguità che genera la possibilità di essere letta e ascoltata da persone con background musicali diversi e di mettere insieme passato e presente”.

Lei è uno dei pochi musicisti italiani ad essere celebre e amato in tutto il mondo…
“Il cammino è stato sicuramente lento, e questo in qualche modo mi ha aiutato a continuare a fare le
cose a modo mio. Il successo, insomma, non mi ha travolto, è stato graduale, continuo a fare la mia
vita e la mia musica come ho sempre fatto, con la voglia di reinventare ogni volta le cose da capo, come facevo venti anni fa”.

Il pianoforte è tornato di moda ultimamente…
“Sì, e la conseguenza è che troppo spesso ci sono imitazioni annacquate di stili orecchiati. Ma forse questo c’è sempre stato nella storia della musica”.

Lei cosa ama del pianoforte?
“L’ho scelto per tanti motivi, ci sono anche ragioni personali: lo mia madre, sono nato con questo
suono, era come un profumo che aveva la mia casa. È uno strumento completo, che ha da una parte un particolare magnetismo ma dall’altra una suastraordinaria sobrietà”.

È stato tra i protagonisti dell’i-Tunes Festival di Londra, e davanti a lei c’era il pubblico, giovanissimo, della generazione dell’iPod.
“Alla Roundhouse c’era un calore da concerto rock che mi piace tantissimo. E mi piace soprattutto la
dimensione di comunione che si crea in queste situazioni, vivere l’esperienza insieme, chi è sul
palco e chi è sotto, vivere il momento del concerto come un rito collettivo di emozione e comunione,
quasi religiosa, che accomuna tutti. Riuscire a creare questa atmosfera, come è accaduto all’iTunes
Festival, o come probabilmente accadrà il 22 di gennaio all’Hammersmith Apollo di Londra, o in tante
situazioni in Italia, è meraviglioso. Si crea un sentimento che va oltre alla musica”.

Molti artisti iniziano con un pubblico giovane e poi, man mano, crescono assieme a chi ascolta. Lei invece è partito da un pubblico adulto e poi ha conquistato i giovani.
“Si, è accaduto l’inverso, il pubblico più giovane è arrivato poi, e questo è stato fantastico. C’è
una prospettiva, è un modo di sentirsi dentro un mondo vitale, contemporaneo, e questo crea energia. E felicità”.

da repubblica.it

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