Lo strumento che canta

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Lo strumento che canta

Il teorico persiano Al-Farabi, vissuto a cavallo tra il IX ed il X secolo sostiene che fra tutti gli strumenti musicali il flauto ed il rabab sono quelli che più si avvicinano alla voce umana. Ora, se in questa asserzione è implicito un giudizio di valore, viene da chiedersi se sia o meno pregevole, per uno strumento musicale, l’avvicinarsi più o meno alla timbrica vocale. Il problema non è tra quelli di facile soluzione, comunque secoli di storia musicale attestano il predominio estetico, e non solo, del canto sullo strumento, considerato imitativo e palliativo, come a dire ultima ratio per quanti, non abilitati al canto da madre natura, provassero l’impulso di ordinare espressivamente eventi sonori secondando stimoli di natura personale o sociale. Per lungo tempo sono solo coloro che usano musicalmente la voce a potersi fregiare del titolo di cantores, unico anello pratico di quella catena che vede nel musicus il suo estremo, fatto questo che, a dispetto dei teorici, li vede acquistare un prestigioso status sociale in ragione della loro eccezionalità. Se la musica in Agostino è “… la scienza della giusta modulazione (ars bene modulandi) conforme al suono ed al canto, asserzione che a prima vista sembrerebbe permettere qualche spazio di manovra allo strumentista, nel X secolo Hucbald de Saint Amand nel suo (attribuito) Musica Enchiriadis, scritto in forma dialogica, alla fatidica domanda del Discepolo:

Che cos’è la musica? fa rispondere al Maestro: La scienza per cantare in modo giusto (ars bene canendi), la strada più facile per la perfezione del canto, ed è solo da un punto di vista pedagogico che alla domanda del discepolo: In che modo? si sente di poter menzionare uno strumento, in questo caso solo a scopo didattico: Così come il maestro dapprima mostra le lettere su una tavola, così il musicista pone tutti i suoni di una melodia sul monocordo. Allo strumentista non resta, quindi, che la speranza di poter imitare le doti espressive naturali ed acquisite del cantore attraverso palliativi, protesi meccaniche che però difficilmente riusciranno a ricompensarlo della fatica e dello sforzo applicato con risultati imitativi apprezzabili. Proviamo quindi ora a dare per scontato che, per uno strumento musicale, essere “vicino alla voce” è sicuramente un pregio che lo eleva al disopra degli altri.

Il rabab, al quale fa riferimento Al-Farabi, è uno strumento ad arco, cioè uno strumento in cui la produzione del suono avviene mediante la vibrazione di alcune corde tese (di minugia o di seta) ottenuta mediante l’accarezzamento con un arco di crine (per lo più). Il contenuto simbolico dell’azione di accarezzare finalizzata all’ottenimento di un premio sonoro simile, il più possibile, a quello dell’aria sulle corde vocali, non deve sfuggire. La sua “superiorità qualitativa” rispetto a modalità che ricorrano alla percussione o al pizzico risulta evidente, rendendolo più affine a quel concetto di “dolcezza” che permea l’estetica medievale. Ma non è solo nella modalità di produzione del suono che il rabab trova la sua elezione a strumento “pi— simile alla voce”: il suo stesso nome richiama etimologicamente il verbo arabo rabba, cioè legare, quasi ad indicare che lo strumento accarezzato dai crini è, come la voce, in grado di legare i suoni, di rendere quel senso di notevole continuità che strumenti pizzicati o percossi non saranno mai in grado di esprimere, ed è questa la sua prima qualità vocale.

Ora, pur prendendo atto della sua inferiorità rispetto alla voce alla quale si subordina in quanto imitatore, lo strumento ad arco acquisisce uno status artistico che lo distingue. In Europa non si hanno testimonianze di strumenti ad arco prima del X secolo, ma da qui in poi vengono soppiantando, nella pratica e nell’iconografia, strumenti più antichi ed illustri, legati ad immagini sacre o mitiche, a funzioni sociali e religiose. Nel XIII secolo Gerolamo di Moravia in appendice al suo Tractatus de Musica, attesta che gli strumenti ad arco in uso in Europa erano due: la ribeca (derivata dal rabab) e la viella (sviluppata autonomamente). La posizione del rabab è sul ginocchio, la viella e la ribeca invece raggiungono ben presto la posizione a spalla, quasi alla ricerca di un avvicinamento e di una identificazione spaziale con il luogo naturale di emissione sonora, avvicinandosi così anche fisicamente al luogo fisico da cui proviene il canto, divenendo anche, nell’immagine, strumento vicino alla voce. Ma il solo accarezzamento delle corde libere non basterebbe da solo a fare della viella lo strumento più importante del medioevo: limitando la sua gamma diastematica a solo cinque note, tante sono le corde che generalmente monta, risulterebbe essere uno strumento dal suono interessante ma estremamente limitato.

Risulta necessario quindi un allargamento della gamma ricorrendo, ad imitazione dei liuti e delle citole, alla tastatura delle corde, cioè al progressivo e preciso raccorciamento della loro parte vibrante ad opera delle dita, al fine di ottenere una gamma di suoni abbastanza ampia da poter sostenere interamente l’estensione melodica delle composizioni trobadoriche di cui diventa da subito elemento integrante, come d’altronde si può constatare nella ricca iconografia dell’epoca. Dapprima la tastatura avviene lateralmente con le unghie, nel modo ancor oggi utilizzato nel mondo arabo, successivamente dall’alto mediante i polpastrelli, forse sotto la spinta di rendere pi— agevole la tastatura contemporanea di pi— corde. A rendere pi— interessante lo strumento è la possibilità di far suonare più corde assieme trovando un solo esecutore elementi polifonici impossibili al singolo cantore medievale: la tecnica cioè del bordone, cioè della corda di accompagnamento della melodia. Di questa tecnica si trova menzione nel succitato trattato di Girolamo di Moravia: “… Si usa, ed è meglio, rispondere ad ogni nota desiderata della melodia con i bordoni alle consonanze principali (VIII, V, ecc.) … il che si ottiene facilmente con mano pratica dell’arco, bench‚ solo da parte di interpreti esperti…”. Il prodotto finale risulta ancor più apprezzabile quando il “viellatore” Š anche cantore: tutto il suono pare provenire da un’unica fonte, situata nella parte alta del corpo. Tale immagine dovette avere un forte potere suggestivo a giudicare dalla quantità di raffigurazioni che riportano come elemento centrale o di contorno la figura del cantore alla viella.

Nell’arco dello svolgersi del basso medioevo la viella viene progressivamente ad occupare un posto di primaria importanza tra gli strumenti musicali paragonabile a quello occupato nel XVI secolo dal liuto e nel XIX dal pianoforte. Nella Parigi del ‘300 Johannes de Grocheo definisce la viella “strumento in grado di sonare ogni immaginabile forma e stile musicale”. Affermazione che può anche venire letta come testimonianza di un processo di perfezionamento che viene via via modificando lo strumento originario rendendolo progressivamente adeguato alle bisogna di una evoluzione musicale che non conosce sosta. E questo per giunta in un tempo storico nel quale i concetti di “perfezionamento” applicato agli utensili è sempre sottoposto a tempi di svolgimento lunghissimi. La sua ipotizzata, ed attestata, versatilità (se con questo termine possiamo sintetizzare la caratteristica di adattamento che permette alla viella di suonare ogni immaginabile forma e stile musicale) non può che essere il frutto di progressive modificazioni tecniche attuate, forse, sotto la spinta di una necessità che invece di portare a rivolgere attenzione ad altri strumenti impone l’adeguamento ed il perfezionamento di questo in particolare. Qualche cosa di impalpabile, forse legato al complesso universo simbolico che permea la cultura medievale, ed in ogni caso certamente legato anche ad un concetto estetico, fa’ della viella oggetto di particolari attenzioni. Gerolamo di Moravia nel suo Tractatus de Musica (XIII sec.), trova modo di sanare l’annoso confronto tra musica teorica e musica pratica portandolo sul rapporto tra sensi e ragione ove la musica si delinea sì come una scienza, ma una scienza dei suoni percepibili dai sensi e non più la scienza dei suoni inudibili prodotti dal moto degli astri: il regno della rappresentazione simbolica dell’armonia diviene ora sensibile ed è in questa nuova prospettiva teorica che Gerolamo ritiene utile, se non necessario, dedicare l’ultimo capitolo del Tractatus alla iniziazione dei suoi Confratelli alla pratica del canto ed a quella della viella.

Non limitandosi ad indicazioni di tipo generale, Girolamo entra in particolari tecnici fin’ ora disdegnati da illustri predecessori dando informazioni di carattere eminentemente pratico fino alla definizione di rudimenti di tecnica esecutiva e annotazione delle accordature in uso nella Parigi del suo tempo. Da questo punto di vista, cioè a riguardo delle accordature, le informazioni lasciateci da Gerolamo sono uniche nel loro genere ma non per questo da essere considerate vincolanti e quindi valide per ogni repertorio, stile e regione culturale (ma di questo parleremo più avanti). Le prime due accordature annotate paiono essere utili per l’esecuzione di bordoni (nell’accompagnamento del canto o della recitazione) o tutt’al più alla esecuzione di semplici linee melodiche accompagnate. La terza accordatura menzionata (re-SOL-sol-re’-sol’) e che prevede la posizione di tutte le corde sul manico ci viene indicata come necessaria per l’esecuzione di canzoni profane o di brani che comunque richiedano un’ampia estensione. L’implicazione è esplicita e porta direttamente ad uno dei problemi tecnici di più importante risoluzione. Al tempo di Gerolamo di Moravia alla viella, ed al viellatore, viene richiesta la capacità di seguire per intero una melodia costruita nella gamma di estensione della voce umana. Questo sarà possibile solo laddove venga data la possibilità di accesso a suoni singoli ed isolabili, cioè dove sia possibile suonare una sola corda alla volta, il che sarà a sua volta possibile solo attraverso l’adozione di un ponticello curvo.

L’avvento del ponticello curvo è progressivamente testimoniato, da un punto di vista iconografico, dal definirsi e dall’accentuarsi dei fianchi rientranti nella parte centrale del corpo dello strumento che pare ora subire un’evoluzione simbolica che da forma ovale (embrionale) diviene complessa, quasi umana (non può essere considerata casuale la successiva definizione di “fianchi” per le parti laterali dello strumento. Questa direzione interpretativa simbolica potrebbe portare subito ad un annoso problema tecnico: l’acquisizione dell’anima da parte della viella, cosa questa che se fondamentale da un punto di vista tecnico risulta essere estremamente problematica e densa significativamente da un punto di vista simbolico, tanto da indurre ad accennarne solamente.

Il ponticello curvo e l’assottigliarsi dei fianchi dello strumento agevola il movimento basculante dell’archetto che rende possibile il raggiungimento delle singole corde e, quindi, dei singoli suoni di una melodia, separatamente, uno per volta. Questo movimento basculante (vorrei ora notare in margine) renderebbe plausibile una delle etimologie proposte per il termine viella (o viuola) che lo vuol far derivare dal latino volgare vitulari, cioè saltare come un vitello. A citare tale etimologia è Curt Sachs che la definisce insensata se legata alla supposizione che il movimento di andirivieni dell’arco somigli al saltare di un vitello. Meno insensata appare però se riferita al movimento di un arco (e di una mano, e di un braccio) che non si limita ad andare e venire ma anche si impenna e si abbatte apparentemente senza regolarità, e questo viene reso ancora più evidente nell’esecuzione di un brano veloce (ad esempio una danza). Chi come lo scrivente, ha avuto la fortuna, nella sua non ancor remota giovinezza, di veder saltare liberamente dei vitelli non mancherà di ravvisare la popolaresca sensatezza del paragone e quindi della proposta etimologica.

Ciò su cui ora vorrei portare l’attenzione è l’attestazione di adeguatezza della viella ad ogni immaginabile forma e stile musicale. Gerolamo ci è testimone di un uso dello strumento fra le mura monastiche, ma già ben possiamo ipotizzare che non questo fosse il luogo privilegiato in cui il suono delle corde accarezzate dai crini vibrasse più frequentemente, da solo, all’unisono, o in contrappunto con il vibrare di voci cantanti o recitanti. Possiamo però sottolineare, a questo punto, un altro dato utile per attestare la nobiltà dello strumento: mai un appartenente all’ordine di S. Domenico avrebbe fatto uso di ciaramelli o cornamuse, e questo è certo, mentre la viella ci viene indicata, da Gerolamo, assieme al canto come adatta al raggiungimento sensibile di quella sintesi tra senso e ragione che conduce alla scienza della musica “… che è superiore come conoscenza razionale alle opere pratiche nella misura in cui la mente supera il corpo…”.

Vorrei adesso citare una fonte profana. Francesco da Barberino, agli inizi del Trecento distingue, fra gli strumenti di sua conoscenza, quelli adatti o meno per essere usati dai gentiluomini. Tra le varie famiglie strumentali solo quella delle corde risulta essere adeguata ed in particolare adeguati sono la viella, il salterio e l’arpa, mentre citola e ribeca sono invece specifici dei musici di professione. La viella è poi il primo tra gli strumenti appropriati per le giovani dame di ceto elevato. Va da sé che la viella si propone come strumento appropriato per ogni repertorio coltivato dalle classi elevate. Ma il fatto che la viella venisse utilizzata dalle classi elevate non implica certamente che venisse utilizzata “solamente” dal classi elevate, anzi tuttaltro. L’uso di questo strumento era generalizzato e riscontrabile in ogni livello sociale e musicale, dai notabili come dal popolo, dai musici come dai cantimpanca. Non si può dire che altri strumenti godessero nel basso medioevo di altrettanta universalità. Ed è proprio lo strumento più vicino alla voce a godere del privilegio di elevarsi al disopra delle classi, preferito dai potenti anche se amato dal volgo.

Onnipresente e capace di confrontarsi con ogni immaginabile repertorio, proprio in virtù di quella stessa importanza che induce ad apportargli quelle continue modifiche tecniche che lo rendono sempre adeguato al mutare delle necessità musicali. Seguendone di stretta misura le innovazioni, modificandosi contemporaneamente al loro insorgere o, forse per magia, anticipandole o forse, chissà, addirittura provocandole.

Giuseppe Paolo Cecere

@ L’Unicorno, Accademia Jaufré Rudel di studi medievali, 1990 – 1991

da www.accademiajr.it/unicorno/articoli/uni003.htm

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