Lo scopo della tua vita

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LO SCOPO DELLA VITA

di Hazrat Inayat Khan

La domanda che ciascuno si pone, non appena l’intelligenza si sviluppa, è
questa: “Perché sono qui?” “Qual è lo scopo della mia vita?”

Ciascun essere ha un’idea diversa riguardo a quale sia lo scopo della vita.
Alcuni credono che lo scopo della vita consista nell’essere virtuosi, e,
tramite la pratica della virtù, essere felici. Ma la virtù, cos’è? Ci sono
cose che a noi sembrano molto virtuose, ma che ad altri non sembrano
virtuose affatto. Ciò che può essere virtù in una circostanza può essere
peccato in un’altra. E quel che sembra molto virtuoso visto dall’esterno,
potrebbe essere molto diverso se lo vedessimo dall’interno.

Di un uomo con un rosario in mano, seduto sulle scale del santuario, il
mondo dirà: “Costui è molto virtuoso”. Ma anche se fosse interiormente molto
virtuoso, il mondo non darà mai del virtuoso a un uomo che passeggia nei
bassifondi o siede nei bar; questo per il semplice fatto che egli siede nei
bar e passeggia nei bassifondi.

Ci sono gli amanti di Dio e ci sono i venditori di Dio. Se in un tempio
siede un uomo con la barba lunga e il rosario fra le mani, tutti andranno da
lui, il santone! Costui fa della sua devozione uno spettacolo, un commercio.
Poi ci sono gli amanti di Dio. Costoro non professano nessuno amore per Dio.
Sta scritto: “Sii un amico al tuo interno; quel che appare non ha alcuna
importanza”. Questo comportamento è raro nel mondo.

Vediamo come gli innamorati, agli inizi, nascondano il loro amore. Lei non
pronuncia il nome di lui davanti ad altri. Lui non pronuncia il nome di lei
davanti ad altri. Quanto più nasconderà ad altri il suo amore colui che
inizia ad amare Dio! Egli non nomina il nome di Dio.

C’è chi ritiene sia il potere, lo scopo della vita. Vediamo però che mentre
alcuni desiderano il potere, ad altri non interessa affatto. È impossibile
che lo scopo di Dio, della Vita, sia qualcosa che non tutti desiderano. E se
il potere fosse lo scopo della vita, il più potente dovrebbe essere
perennemente felice. Gli animali più potenti sono la tigre e il leone. Se
andiamo dove sono le tigri, nella giungla, vediamo come la tigre sia sempre
irrequieta, si muova su e giù in continuazione. Il suo potere è tanto grande
da non darle requie. Ma se andiamo fra gli agnelli, che sono deboli,
innocenti, indifesi, vediamo che gli agnelli giocano. Un agnello non vuol
mai averla vinta su un altro agnello. Se lo spaventi, china la testa e va a
nascondersi. Se lo nutri si avvicina, mangia, e ti dà fiducia. Quando dorme,
dorme tranquillamente.

Ma nella giungla, dove sono la tigre e il leone, si sente ruggire tutta la
notte. E una tigre non permette ad un’altra tigre di avvicinarsi a lei. Se
giunge una seconda tigre, le due combatteranno finché una sia morta, e ne
rimanga una sola. Se ti avvicini a loro durante il giorno, noterai come il
loro respiro sia affannoso. Quello stesso respiro che rende altri calmi e
tranquilli, non le dà pace. Lei non ha pace, non ha calma, non ha riposo.
Andate davanti alla gabbia delle tigri, e vedrete.

Se il potere fosse lo scopo della vita, la nazione più felice dovrebbe
essere la più potente. Ma è così? C’è chi ritiene sia il piacere, lo scopo
della vita: mangiare, bere e divertirsi, ché domani moriremo. Questo è ciò
che tutti pensano al termine degli studi: “Divertiamoci e stiamo allegri,
ché domani potremmo essere morti”. Ma non riescono mai a soddisfarsi. Se
oggi andiamo all’osteria, domani vorremo un ristorante più lussuoso. Se oggi
viaggiamo in autobus, domani vorremo un’automobile nostra. Vogliamo, per
potercela spassare, tutti i teatri e tutti i ristoranti. E chi ha la salute,
o le tasche sempre piene, per tutto questo divertimento? Neanche i ricchi
possono, neanche i re. Quanto poco dura un piacere. Una cosa così breve,
così imperfetta, non può essere lo scopo di Dio.

Volgiamoci ora alla tradizione, e troveremo nel Corano: “Conosci te stesso e
conosci Dio” . Un’altra sura recita: “Conosci Dio nella natura”. Ma nella
natura non troviamo nulla di perfetto, nulla che possiamo chiamare Dio,
nessun uomo perfetto, nessuna donna perfetta. Chi è molto colto, non è
coraggioso. Chi è molto coraggioso, non conosce nulla. Chi ha una grande
immaginazione, ignora quanti pence sono contenuti in uno scellino, ed è
manchevole sotto questo aspetto. Se lei è bellissima, allora manca di
intelligenza e di cultura. Se ha cultura, non ha bellezza. Se ha una
personalità forte, non ha intelligenza. Se è molto intelligente allora manca
di fascino e non ha personalità.

In quale aspetto della natura possiamo dunque vedere Dio?

Puoi vederlo nella tua natura, nell’ego, nel sé.

Come possiamo vedere Dio nell’ego? Abbandoniamo la tradizione e guardiamo la
cosa dal punto di vista scientifico: vedremo che il sé consiste prima di
tutto in carne, sangue, ossa, pelle e nel respiro che tiene insieme il
tutto. Il respiro è la vita. Quando il respiro è uscito dal corpo, la vita è
andata via. È il respiro che ha dato forma al corpo. E cos’è il respiro? Il
respiro è il suono. Quando è pesante, è un suono che le nostre orecchie
possono sentire. Quando è leggero, è un suono sottile che le nostre orecchie
non possono sentire. Quando una persona dorme profondamente ne sentiamo il
russare, il respiro. Se andate vicino a un cavallo o a una mucca, e
ascoltate attentamente, dopo poco udrete un suono sottile, il respiro. Ciò
dimostra che il respiro è il suono, ed è tramite il suono che tutto divenne.
Ecco perché gli indù lo chiamano Wada Brahma, il Dio-suono. Nel Corano è
scritto “Kun faya Kun”, “Sii, e divenne”.

Respiro a parte, se guardiamo in noi stessi, vedremo che c’è qualcos’altro.
C’è qualcosa che testimonia il respiro. Si tratta della coscienza che, nel
suo aspetto individuale, chiamiamo anima. Quindi una persona, tramite il suo
intelletto, sa di essere un essere invisibile. Allora dice alla sua anima:
“Sei rimasta tanto a lungo delusa da questo corpo. Hai creduto di essere il
corpo, ma non lo sei. Tu sei uno spirito”.

Poi, però, si pensa: “Forse non sono uno spirito. Forse si tratta di
immaginazione. Se fossi uno spirito potrei andare in Russia, potrei andare a
New York. Ma non posso recarmi in Russia o a New York se non con il vapore e
con il treno. E se voglio avere notizie, devo spedire un telegramma”.

Questa è la perfezione di cui parla il Vangelo. “Siate perfetti come è
perfetto il vostro Padre Celeste” significa questo: che lo spirito è conscio
del corpo, e il corpo è conscio dello spirito. Quando è così, l’uomo è
perfetto. L’anima gli dà la vita eterna, il corpo diviene per lui un mezzo
di esperienza. Ma gli uomini sono consci solo del corpo, oppure, se consci
dello spirito, sono consci solo di quello.

Come divenire consci dello spirito?

Zeb-un-Nissa, la nostra grande poetessa Sufi, così si esprime: “Tu sei una
goccia nell’oceano. Ma se mantieni il pensiero sull’oceano, anche tu sarai
l’oceano”.

Se abbiamo coscienza solo del nostro sé saremo come animali, cercando di
avere tutto per noi, prendendo tutto per noi. Taluni poi sono consci del
loro piccolo gruppo, o della loro famiglia. La loro famiglia, il loro
piccolo gruppo, li adorano. Taluni sono consci della loro nazione: la loro
nazione li adora. La prosperità della nazione è la loro prosperità, il
tracollo della nazione, il loro tracollo. I Maestri invece hanno sempre
l’umanità intera davanti agli occhi. È dell’intera umanità che sono
coscienti. Essi pensano: “Se io non ho mangiato, ma il mio fratello ha
mangiato, va tutto bene. Se io non ho avuto nulla, ma il mio fratello ha
avuto, tutto è a posto”. Tramite la coscienza del tutto, l’anima acquista la
sua libertà. Non è costretta in alcun luogo, non è costretta da alcuna
condizione. Più ci apriamo, più realizziamo lo scopo della vita.

Ho conosciuto personalmente un giudice, a Hyderabad, che sedeva tutto il
giorno in tribunale, e durante il pranzo udì un ragazzo cantare in strada.
In India ai ragazzi piace molto cantare in strada. Il ragazzo cantava una
canzone molto volgare. Il giudice mandò a chiamare il ragazzo e gli fece
cantare la canzone. Gliela fece cantare una seconda volta, poi una terza, e
poi ancora, tantissime volte. Era una canzone molto comune. Le parole non
erano composte da un poeta, né la musica era composta da un musicista. Era
un innamorato che cantava alla sua ragazza: “Mi guardi come se volessi
mangiarmelo”: un’espressione molto volgare. Il giudice vedeva ogni giorno
come nel mondo ciascuno cerchi di divorare l’altro, di prendergli il meglio,
e la canzone lo commosse a tal punto che da quel giorno si ritirò a vita
privata. Diede via tutto e divenne un derviscio.

Questa fu l’interpretazione del giudice, che il mondo -la ragazza-lo
guardava come se volesse mangiarlo. Ciò significa che le attrazioni e le
tentazioni del mondo sono tali da consumare la vita di una persona prima che
questa possa svegliarsi e realizzare la verità della sua vita. Ma questo non
è il vero scopo della vita. Il vero scopo della vita è l’illuminazione. È la
sola cosa che abbia valore. Il tempo della vita, tutto lo sforzo dovrebbe
essere dedicato a questo. A realizzare, a riconoscere Dio, Colui che è
all’interno.

Hali, un poeta indù, così si esprime: “O occhi che desiderate vedere Dio,
guardate all’interno, il Dio che voi adorate intorno, è dentro”.

Significa che gli occhi dovrebbero essere rivolti all’interno, per vedere
Dio dentro noi stessi. Scopo dell’uomo dovrebbe essere riconoscere quel Dio,
e, realizzandolo, divenire libero. Per realizzare la sua vita, indipendente
ed immortale, libero dalla morte e dal marciume, libero dalle angosce, dalle
preoccupazioni e dai dispiaceri del mondo.

LO SCOPO DELLA VITA (2)

È la vita stessa a dirigere l’uomo verso il suo scopo, ed è colpa dell’uomo
se non riesce a realizzare lo scopo della vita. È una confusione che sorge
nel vedere la varietà del mondo, quando l’anima si risveglia, dopo la
nascita su questa terra. L’uomo si fa perplesso e non riesce a decidere con
certezza quali debbano essere la direzione e il sentiero più appropriati per
il suo viaggio. Perciò, molto spesso, dalla giovinezza all’età adulta,
l’uomo resta in questa perplessità. Egli crede talora che il suo sentiero
sia quello spirituale, talora che sia quello commerciale, talora la via
politica, talora questo, talora quello. Ma allo stesso tempo non è colpa
della vita, né di quello spirito guida che dirige costantemente. In realtà,
nella culla e da bambino il sentiero della vita inizia a mostrarsi all’uomo;
la via viene mostrata nell’infanzia. La confusione sorge quando l’uomo
cresce, dal suo essere attratto da più cose, e dal non sapere cosa è cosa,
cosa è giusto, cosa è sbagliato.

Non v’è dubbio che la prima impressione che si riceve del mondo sia
un’impressione di falsità. Il bambino apre gli occhi nella sincerità, e la
prima impressione è di falsità. Ciò lo confonde, ed egli prende l’abitudine
di negare anche ciò che è giusto, e va contro ogni verità religiosa. Non è
una sola persona che si rivolta, ma migliaia, milioni di persone. Il bambino
nega, perché la prima impressione è di falsità. Cresce nella falsità, senza
sapere ciò che è giusto e ciò che è sbagliato, e a volte questa confusione
dura fino alla fine della vita.

A questo riguardo, del distinguere quale sia l’oggetto della vita di una
persona, Sa’adi offre un verso molto istruttivo: “Ogni anima che viene sulla
terra, viene con una luce già accesa in lui, per il suo lavoro sulla terra”,
e se non la conosce, la colpa è del mondo che lo circonda, non dello spirito
o della natura.

Se indagate tra le maggiori e peggiori tragedie della vita, troverete che
nessuna è più grande di questa. Tutta la felicità, tutta la ricchezza, tutto
quel che il mondo ha da offrire, tutto equivale a niente. Il potere, i
possedimenti, tutto questo ci dà l’illusione che il suo proprietario sia
fortunato. Ma nulla di ciò che il mondo ha da offrire è sufficiente. La sola
cosa davvero sufficiente è la benedizione del Cielo, quella luce tramite cui
l’uomo inizia a vedere il suo sentiero nella vita.

Prima di giudicare l’atteggiamento di un’altra persona dobbiamo fermarci e
pensare che diritto abbiamo di giudicare se quella stia andando in una
direzione giusta o sbagliata. Possiamo soltanto giudicare noi stessi, se noi
stiamo andando in una direzione giusta o sbagliata, quando possiamo vedere
la nostra strada davanti a noi. Come ha detto Gesù Cristo “Non giudicare”.
Secondo gli indù l’uomo d’abitudine si sente attratto verso quattro oggetti
apparenti, e percepisce che una di queste è la sua via: il Dharma, l’Ardh,
il Karma, il Moksha.

1) Il Dharma, il dovere. Talvolta una persona dedica l’intera vita e tutto
ciò che possiede a qualcuno che ama: un fratello, una sorella, la madre, il
padre, il figlio o la figlia, un profeta, un insegnante, una musa, qualcuno
verso cui ritiene di avere un dovere. Può essere che la stessa via sia un
sentiero giusto, desiderabile, buono e virtuoso per uno, e che per un altro
sia una strada sbagliata. Ma chi mai ha il diritto di chiamare sbagliato il
sentiero di un altro? Ha un uomo, per quanto evoluto possa essere, il
diritto di giudicare la via di un altro? Questo diritto non può averlo, dal
momento che a ciascuno compete di risolvere il proprio enigma.

2) L’Ardh, la terra. Tutto ciò che la terra può offrire, ricchezza,
possedimenti, posizione o potere, tutto ciò che il mondo può dare; una
persona lavora per questo, desidera questo. Egli pensa: “Questa è la via
larga, la via pratica; è l’altro a non conoscere la via saggia, la via
giusta!” e se riusciamo a vedere il rovescio della medaglia, le maggiori
beneficenze vengono da coloro che hanno lavorato in questo modo, e dato.
Come si può giudicare e dire che questa non è la via giusta? Forse la via
tramite la quale uno è asceso a quella posizione o ricchezza da dove
comanda, non può, per la maggior parte dell’umanità, definirsi sbagliata.

3) La via della felicità, del comfort, del piacere. La persona che persegue
la felicità, il piacere, il comfort, molto spesso pensa agli altri, o
perlomeno ne comprende i desideri. Colui che dorme in una foresta di pietre
ignora ciò che il mondo vuole, ma colui che cerca la felicità divide questa
felicità con gli altri. Colui che tortura sé stesso non può dividere la
felicità con gli altri, dal momento che sta torturando sé stesso. Quando
riusciremo a vedere le cose da questo punto di vista, la tolleranza e
l’indulgenza sorgeranno in noi nei confronti di tutti.

4) Moksha, la via lungo la quale avanzano tutte le persone religiose e pie.
Essi cercano di conseguire una ricompensa, una felicità, in una vita futura.
Essi pensano: “Se la vita in questo mondo è scoraggiante, se la nostra
devozione, se il nostro servizio qui sono inutili, avremo una ricompensa
nell’aldilà”. A qualunque religione, a qualunque fede essi appartengano,
fintanto che rimangono sul loro sentiero senz’altro realizzeranno qualcosa,
forse più di chi si aspetta una ricompensa per domani mattina. Pensate alla
pazienza che hanno ed alle buone azioni che compiono. E mentre una persona
che fa del bene e spera in una ricompensa immediata rischia di abbandonare
la buona strada, colui che attende una ricompensa nell’al di là, al
contrario, rimane sul buon cammino.

Le parole di Cristo, “Non giudicare” vengono in nostro aiuto nel dimostrare
la profondità del problema. Maggiore sarà la nostra comprensione e meglio
vedremo come i sentieri siano accordati ai temperamenti. Uno va per un
sentiero, uno per un altro, ma tutti vanno verso un obiettivo. L’obiettivo
non è diverso, è solo il sentiero ad essere diverso. E tutte queste
controversie e lotte tra persone di diverse religioni, ciascuna delle quali
dice: “Il mio sentiero è giusto”, come può essere giusto, come può essere
questa l’idea di Cristo? Appena giudichiamo una persona spezziamo non solo
l’insegnamento ma anche la vita di Cristo. Egli non ha solo insegnato, ha
anche vissuto ciò che insegnava. A lui venivano portate persone con ogni
tipo di difetti, e verso tutte mostrava tolleranza e indulgenza. Cristo
disse: “Non chiamatemi buono”.

La più grande responsabilità che abbiamo nella vita è quella di trovare il
nostro proprio sentiero, l’oggetto della nostra vita, non di perdere tempo
con gli altri. Immaginate che qualcuno abbia un miglior scopo di vita, e che
sia nostro amico, non dobbiamo tirarlo indietro. Se una persona ha uno scopo
di vita che sembra essere peggiore, lasciamo che ce l’abbia, non dobbiamo
tirarlo verso di noi. Non importa se al momento ci sembra un pessimo scopo,
chissà che egli non abbia una lezione da imparare anche dal pessimo scopo.
Nella vita impariamo molte cose dai nostri sbagli ed errori. Se una persona
cade, impara dalla caduta. Se una persona ha creduto erroneamente ad un
oggetto, seguendolo sinceramente arriverà infine al traguardo verso cui
l’anima guida ogni individuo.

C’è una cosa che deve essere compresa. Di regola l’uomo mostra di avere,
nella sua natura, un certo infantilismo. Questo infantilismo è la
dipendenza. Ciò che vuole è qualcun altro che gli indichi lo scopo della
vita, che gli dica cosa è buono. In primo luogo, nessuno ha il diritto di
dirglielo. Anche se, per caso, l’altro è suo padre, sua madre, il suo
insegnante, il loro primo dovere consiste nel risvegliare in lui lo spirito
atto a realizzare lo scopo della sua vita, non dirgli: “Questo è lo scopo
della tua vita”, perché l’anima è libera.

Jelal-ud-Din Rumi dice “L’anima è imprigionata nel corpo mortale, ed è suo
obiettivo costante di essere libera e di sperimentare quella libertà che è
la sua vera natura”. E finché una persona nella posizione di padre, o madre,
o insegnante, o guardiano, non ha compreso questo principio, che ogni anima
deve essere libera di scegliere, non è davvero in grado di aiutare un altro.

Nella natura umana c’è anche un altro difetto oltre all’infantilismo. Senza
dubbio sembra un difetto naturale. L’uomo in genere non sa qual è il suo
problema. Chiedete a un medico, e vi dirà che su cento pazienti, a malapena
uno è in grado di dirgli cos’ha che non vada. Lasciano al medico il compito
di scoprirlo, compito impossibile. Nessuno può conoscere l’altrui voglia,
pena, ambizione, desiderio, l’altrui continua nostalgia. Il lavoro di colui
che aiuta, consiglia, guida un altro deve consistere nel rendere quella
persona capace di conoscersi. Un bravo medico renderà quella persona capace
di esprimere, percepire, realizzare cosa veramente non va in lui. Fin quando
una persona non ha compreso pienamente il suo problema, non può essere
aiutata.

E per finire, cosa ci insegna questo soggetto? Cosa ci suggerisce? Che
dobbiamo coltivare in noi stessi quel senso atto a comprendere i nostri
bisogni, afflizioni, il nostro lavoro, il nostro scopo. Senza dubbio gli
obiettivi, buoni o cattivi che sembrino, sono passeggeri. Il vero obiettivo
e scopo di tutte le anime, buone o malvagie che appaiano, sagge o stolte che
sembrino, è quella nostalgia interiore e quell’impulso verso l’ obiettivo
solo ed unico, la realizzazione dell’ideale spirituale. Un poeta indù dice
“Non c’è nulla nel mondo che possa soddisfarti perfettamente, sebbene ci
siano cose che possono soddisfarti momentaneamente”. Quindi la soddisfazione
perfetta rimane comunque dipendente dall’ideale spirituale. E che importa il
nome con cui viene chiamata, sia esso Dio o Bhagwan?

Egli è lo spirito unico, nel Quale ed in Quale viviamo e ci muoviamo.

E se prendiamo l’ideale spirituale come nostro obiettivo riconosciuto,
questo ideale ci aiuterà in tutti i nostri desideri e necessità ed in tutte
le afflizioni, ed allo stesso tempo sarà questo ideale a sollevarci dalla
densità che talora ci tiene legati. Non importa per quale via l’anima
progredisca, sia essa la devozione,la religione, o un’altra via, fintanto
che quell’ideale spirituale rimanga davanti a noi, fintanto che abbiamo
davanti a noi quel porto verso cui convergono tutte le anime; quella pace;
quella gioia costante; quell’Amico mai partito; quel Padre, sempre Padre,
qui e là; quella Madre, la Madre di tutta l’umanità; quell’Ideale di
perfetta bellezza.

E mantenere quell’ideale davanti a noi, così che venga riflesso nel nostro
cuore, è davvero il modo migliore per realizzare il vero scopo della vita
umana.

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