L’Induismo: testi sacri e visione della vita

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Induismo

Significato – I testi sacri e la visione della vita

Gli dei e il culto – Cenni storici

Religione tradizionale dell’India, praticata da oltre 700 milioni di fedeli.
Il termine italiano “induismo”, connesso con il nome dell’India, trova il
suo antecedente etimologico nel persiano hindu, utilizzato inizialmente nel
senso di “fiume”, successivamente per indicare il fiume noto anche in
Occidente come Indo.

Già dal V secolo a.C. il termine indicava per estensione gli abitanti della
terra dell’Indo, e quindi dell’intero subcontinente indiano, mentre per
l’Islam la parola acquisì una connotazione religiosa, in riferimento agli
abitanti non musulmani di quelle terre; in questo senso l’italiano definisce
“indù” i seguaci della religione più antica dell’India, presentati invece
dalla tradizione locale come “coloro che credono nei Veda” o come “coloro
che seguono la legge (dharma), accettano la divisione della società in
classi (varna, ovvero le caste) e vivono le quattro fasi (asrama) della vita
umana”.

Con il termine “induismo” si indica convenzionalmente l’intera esperienza
religiosa degli indiani nel suo svolgimento storico, fin dalle origini,
fissate approssimativamente intorno al 1500 a.C.; l’accezione scientifica
del termine, tuttavia, denota come “induismo” soltanto la religione che,
praticata dal VI secolo a.C., costituisce l’evoluzione di due fasi anteriori
dette rispettivamente “vedismo” (dalle origini all’800 ca. a.C.), dal nome
dei libri sacri, i Veda, e “brahmanesimo”, dal nome degli appartenenti alla
casta sacerdotale, i brahmani. inizio

– I testi sacri e la visione della vita –

In termini estremamente sintetici l’induismo è definibile come una religione
politeistica, supportata da una considerazione filosofica della realtà
cosmica e dell’esistenza umana, oltre che da una precisa concezione della
società e dei compiti dei singoli individui. La definizione del sistema
sociale costituisce quell’elemento di continuità e di unità che l’induismo
non possiede nella sua dimensione propriamente teologica, caratterizzata non
solo dalla molteplicità delle figure divine, ma anche dalla pluralità degli
atteggiamenti devozionali – i fedeli si distinguono per la loro devozione
particolare al dio Shiva, piuttosto che a Vishnu o alla dea madre, la Devi –
e dall’assenza di un indirizzo dottrinale uniforme paragonabile a un “credo”
convenzionale.

Questa visione teologica eterogenea è posta comunque dalla tradizione in
continuità con i contenuti degli antichi libri sacri, i Veda, redatti nella
forma più arcaica della lingua sanscrita. Fra il 1300 e il 1000 a.C. si
colloca la composizione del Rig-Veda, costituito da 1028 inni in onore delle
diverse divinità, mentre lo Yajur Veda è il formulario liturgico ufficiale
per il rito del sacrificio; il Sama Veda fornisce invece un’ulteriore
collezione di inni, mentre l’Atharva Veda, redatto intorno al 900 a.C.,
contiene una raccolta di formule magiche.

Alla letteratura vedica appartengono anche i Brahmana, ponderose esposizioni
dei rituali e dei miti a essi sottesi, oltre alle Upanishad, testi di
carattere filosofico redatti dal 600 a.C. come documento delle più antiche
speculazioni circa il significato dell’esistenza e la natura dell’universo.

Queste opere canoniche, pur venerate da una tradizione che impone di
custodirne scrupolosamente l’integrità testuale, sono state soppiantate
nella loro funzione didattica da un’altra collezione di antichi scritti
detta Smrti, “ciò che è ricordato”; rientrano in questo canone più popolare
i grandi poemi epici: il Mahabharata, narrazione che in oltre 200.000 versi
compendia la lotta dei Pandava, guidati da Krishna, contro i Kaurava, e il
Ramayana, racconto, in oltre 50.000 versi, del viaggio intrapreso da Rama
alla ricerca della moglie Sita rapita dal demone Ravana, oltre ai Purana,
esposizioni, anch’esse ponderose, di temi mitologici e cosmologici, e alle
codificazioni – “Dharmashastra” e “Dharmasutra” – della legge sacra, fra cui
le cosiddette Leggi di Manu.

Questa ricca letteratura, per la quale è difficile fissare date di
composizione – i due poemi epici risalirebbero a un periodo compreso fra il
300 a.C. e il 300 d.C. – contiene inoltre numerose narrazioni relative alla
cosmologia, il motivo ispiratore fondamentale della filosofia dell’induismo,
fondata sulla concezione dell’universo come un grande uovo cosmico con
cieli, mondi infernali, oceani e continenti disposti concentricamente
intorno all’India; questo universo sconfinato è destinato a una esistenza
eterna, ma ciclica, segnata da una degenerazione costante e inesorabile da
una sorta di Età dell’Oro della durata di 1.728.000 anni, detta Krta Yuga,
fino all’epoca più triste e precaria – il Kali Yuga, di 432.000 anni – al
culmine della quale il cosmo viene interamente divorato dalle fiamme e dai
flutti come in un rito di purificazione generale capace di rigenerare l’età
dell’oro e l’inizio di un nuovo ciclo.

Allo stesso modo l’esistenza umana è coinvolta nel ciclo inarrestabile delle
rinascite, reso possibile dalla trasmigrazione delle anime, che alla morte
dell’individuo si reincarnano nel corpo di un altro essere vivente, in un
processo eterno conosciuto come samsara. Ogni uomo è destinato a
reincarnarsi in un essere di qualità superiore o inferiore secondo i meriti
accumulati nell’esistenza attraverso l’insieme delle sue azioni, il karma,
realtà tendenzialmente negativa, ma indirizzabile verso un fine positivo per
mezzo di pratiche di devozione e di espiazione che trovano il loro vertice
nelle forme di ascetismo volte a ottenere la “liberazione” – moksha –
dall’attaccamento alla realtà materiale.

Nei concetti essenziali di samsara, karma e moksha, la tradizione indiana
sintetizza i contenuti essenziali di una visione sostanzialmente
pessimistica circa il valore della realtà cosmica e materiale, il cui
incombere inesorabile deve essere assolutamente esorcizzato attraverso un
cammino di liberazione e di rinuncia al mondo, secondo l’ideale delle
numerose correnti ascetiche presenti in India fin dall’antichità. La
considerazione del carattere inesorabile della dimensione materiale
dell’esistenza giustifica l’altro aspetto prescrittivo essenziale
dell’induismo. Questa prescrizione, solo apparentemente contraddittoria
rispetto alle tendenze ascetiche, impone a ogni fedele di assumere un ruolo
preciso nella società, per portare a compimento la missione assegnatagli dal
destino al momento della nascita, contribuendo a perpetuare il ciclo della
storia attraverso la procreazione e a procurare il benessere materiale a sé
e ai suoi simili, nella speranza di ottenere il premio delle proprie azioni
nell’esistenza futura con la trasmigrazione della propria anima nel corpo di
un essere di livello sociale superiore o in quello di un asceta.

Questo atteggiamento fornisce la giustificazione filosofica per la dottrina
più nota e controversa dell’induismo, ovvero la rigida divisione della
società in classi, – varna – note in Occidente con il termine, di origine
portoghese, di “caste”, alle quali si appartiene per nascita senza alcuna
possibilità di sfuggire alle severe norme di una concezione gerarchica.

Un ruolo di assoluta preminenza è attribuito infatti ai membri delle tre
classi superiori, quelle dei sacerdoti (brahmani), dei guerrieri (ksatriya)
e dei lavoratori qualificati (vaisya), che riservano una condizione di
totale sottomissione a chi appartiene alle caste inferiori, da quelle
considerate servili (sudra) fino a quelle, disprezzate come impure, degli
“intoccabili” , i “paria” della tradizione occidentale, definiti in India
come candala, termine riferito propriamente a chi si trovi nella condizione
di “fuori casta” perché nato dall’unione illecita fra una donna di casta
brahmanica e un uomo di casta servile.

Il matrimonio fra coniugi appartenenti alla stessa classe costituisce per
l’appunto una delle regole fondamentali dell’organizzazione castale, le cui
origini storiche risalirebbero all’epoca dell’insediamento in India delle
tribù indoeuropee, portatrici, secondo la tesi suggestiva ma controversa
dello studioso francese Georges Dumézil, di una “ideologia tripartita”, con
le figure del sacerdote, del guerriero e dell’agricoltore poste a garanzia
della buona organizzazione della società: riservando dunque a se stessi
queste tre funzioni e tramandandole ereditariamente nelle caste superiori,
gli invasori indoeuropei avrebbero inquadrato nelle caste inferiori gli
abitanti indigeni dell’India.

Formalmente abolito dalla costituzione dell’India moderna, il sistema delle
caste continua comunque a rappresentare per la tradizione indù l’ambito
privilegiato per la realizzazione dell’ordine sociale, riflesso dell’ordine
cosmico – dharma – che ogni fedele contribuisce a determinare conformandosi
ai doveri previsti dallo svadharma, il dharma del singolo individuo, e
impegnandosi a realizzare con successo, anche in termini meramente
materiali, il fine – artha – assegnato alla sua esistenza. Contemplando tra
i fini essenziali dell’essere umano anche il soddisfacimento del desiderio
amoroso – kama – il pensiero indù non scorge, in questa tendenza a
codificare ogni aspetto della vita sociale e materiale, alcuna
contraddizione con l’aspirazione alla moksha, la liberazione che gli asceti
cercano in modo radicale mirando a cogliere l’identità fra l’atman, l’anima
individuale, e il brahman, la grande anima dell’universo.

La volontà di armonizzare in modo sempre più efficace questi due aspetti
portò alla definizione di concetti come quello di “dharma universale”,
sanatana dharma, una sorta di codice etico ideale che, sovrapponendo ai
doveri sociali alcuni atteggiamenti più specificamente ascetici, aspira a
superare, considerandole come necessità relativa, le prescrizioni del dharma
tradizionale, come avviene nel caso della definizione della “non violenza” –
ahimsa – concepita come assenza del desiderio della violenza da parte del
fedele pur disposto ad utilizzarla qualora il proprio ruolo nella società e
le condizioni contingenti lo richiedano.

Si delinea così quella dottrina essenziale dell’induismo che invita il
fedele a rispettare le regole del vivere sociale assumendo tuttavia un
atteggiamento di totale distacco da questa dimensione e soprattutto dai
frutti prodotti dalle azioni; secondo l’insegnamento della Bhagavad-gita, il
testo di riferimento per la devozione indù, il saggio accetta tutte le
incombenze assegnategli dal destino, imponendosi tuttavia di non godere in
alcun modo del frutto delle proprie azioni e di non considerarle come
l’orizzonte principale della propria esistenza.

Gli obblighi sociali costituiscono soltanto, insieme ai riti, il contributo
del singolo fedele alla necessità del karma, superabile comunque attraverso
la conoscenza – jnana – della dimensione trascendente, quella del brahman
universale, accessibile per mezzo della meditazione. Sintesi efficace, anche
a livello di pratica popolare, di queste due tappe fondamentali
dell’espressione religiosa, è il concetto di bhakti, la devozione
entusiastica alle divinità: interpretando infatti i singoli esseri divini
come emanazioni dello spirito universale, il brahman, la tradizione indù
consente al devoto di soddisfare, con la pratica della bhakti, le esigenze
del karma, imponendogli di riservare agli dei tutti gli atti di culto
previsti dal rituale, che costituisce però soltanto la prima tappa del
percorso devozionale e il preludio al momento della comprensione –
attraverso la conoscenza – della divinità come parte della realtà ultima,
infinitamente superiore alla sua manifestazione materiale, fonte di
illusione (maya) per quanti si limitino a essa spinti dall’ignoranza.

– Gli dei e il culto –

In questa prospettiva i fedeli rivolgono la loro devozione preferibilmente a
una delle divinità principali del pantheon indiano – a Shiva, a Vishnu o
alla Devi –, considerando ciascuno di essi come manifestazione dell’assoluto
universale, personificato inoltre anche nella divinità creatrice, Brahma, il
regolatore della legge del karma.

Contemplando l’estasi erotica della sua seconda sposa, Sarasvati, talvolta
indicata anche come sua figlia, Brahma si sarebbe ritrovato con cinque
teste, prima che il figlio Shiva gliene mozzasse una per punirlo del
rapporto incestuoso con la figlia: i devoti di una delle tante correnti
shivaite usano ancora come proprio ornamento un teschio, come Shiva fu
costretto a fare dopo il suo gesto cruento, fino al giorno in cui si sarebbe
purificato dal sangue del padre immergendosi nelle acque del Gange nel luogo
dove oggi sorge Benares.

Shiva assume così a livello cosmologico il ruolo di distruttore e, nello
stesso tempo, rigeneratore del mondo, colui che dispensa la morte, ma anche
la vita; nei templi a lui dedicati, la sua forza creatrice viene
rappresentata sotto forma di fallo – linga –, il principio maschile che,
unendosi al principio femminile – yoni – determina la creazione primordiale
concepita come annullamento di ogni dualismo nelle forme dell’assoluto
universale. Secondo la leggenda, Shiva fu condannato ad assumere un aspetto
fallico per non avere interrotto, pur trovandosi al cospetto del saggio
Bhrgu, la sua unione sessuale con Parvati, uno degli aspetti con i quali si
manifesta la dea madre; questa natura così esplicitamente sensuale del dio
non impedisce comunque che egli eserciti la funzione di divinità principale
degli asceti, che lo raffigurano come un saggio dedito alla pratica dello
yoga.

Una delle pratiche più tipiche proposte dalla tradizione indiana come via
per armonizzare le esigenze della vita attiva con l’ideale della rinuncia è
la prescrizione delle quattro fasi – asrama – della vita, alle quali
dovrebbe conformarsi il brahmano devoto, osservando un regime di castità
assoluta durante il periodo di formazione giovanile, prima di compiere i
suoi doveri di padre di famiglia fino alle soglie della vecchiaia, quando si
ritirerà nella foresta alla ricerca della liberazione, per raggiungere,
nell’ultima tappa del cammino, una condizione simile a quella dei sannyasin,
gli asceti della rinuncia assoluta.

Al dio Vishnu viene invece attribuito il ruolo di conservatore del mondo,
che egli esercita manifestandosi in determinati momenti della storia del
cosmo attraverso un’incarnazione – avatara – per riportare l’ordine fra gli
uomini, minacciati da una condizione di instabilità. Settimo avatara di
Vishnu è così l’eroe Rama, la figura dell’uomo perfetto celebrata dai versi
del Ramayana, mentre nel 3102 a.C., all’inizio del ciclo cosmico attuale, il
Kali Yuga segnato dalla decadenza, si sarebbe conclusa l’esistenza
dell’ultimo degli avatara, l’eroe supremo Krishna, che nella Bhagavad-gita
appare sotto le sembianze di un divino cocchiere per rivelare la dottrina
dell’assenza del desiderio e del distacco dal frutto dell’azione come via
efficace per ottenere la salvezza, garantendo contemporaneamente la
sopravvivenza dell’universo.

Al termine di questa era cosmica Vishnu tornerà a manifestarsi agli uomini
come figura escatologica che riporterà nel cosmo l’epoca della felicità e
del trionfo del dharma. Lakshmi è il nome che la dea madre assume come
consorte di Vishnu e dea della buona sorte – Shri – della ricchezza e della
bellezza, oltre che madre di Kama, il dio dell’amore; a lei è consacrata la
vacca, animale considerato sacro e meritevole di venerazione.

Alla divinità femminile si indirizzano principalmente le pratiche delle
correnti devozionali che riconoscono in lei il principio assoluto in
considerazione del suo ruolo di detentrice della shakti, l’energia creativa
scatenata dagli esseri divini come condizione indispensabile per rendere
manifesta la loro natura trascendente: in questa prospettiva la presenza
della dea come sposa delle divinità maschili appare lo strumento
fondamentale per conciliare il carattere di trascendenza dell’essere divino
con le sue funzioni immanenti e terrene.

Anche come sposa di Shiva la Devi tende ad assumere il carattere di divinità
principale nei suoi aspetti benevoli di garante della fertilità e simbolo
della fedeltà coniugale (la Sati), ovvero “moglie virtuosa”, che, gettandosi
fra le fiamme per difendere di fronte al padre l’onore calpestato del
marito, diverrà il personaggio ispiratore del costume, oggi ufficialmente
abbandonato, di immolare le vedove sul rogo funebre del marito.

Nelle sue manifestazioni più inquietanti, la dea è temuta e venerata con
l’epiteto di Kali, “nera”, essere mostruoso dalle otto braccia, energia
distruttiva e signora del tempo, custode della legge inesorabile del karma,
che divora tutto ciò che è vivo per gettare il seme della nuova esistenza,
danzando freneticamente sui corpi dei nemici uccisi, fiera della sua collana
di teschi.

A Kali è consacrata, fin nel nome, la città di Calcutta, dove sorge il più
grande dei numerosissimi templi a lei dedicati, il Kalighat, sede del rito
del sacrificio animale, che prevede di norma l’immolazione di capre. Il
culto della dea rappresenta in effetti l’unico ambito in cui l’induismo
tradizionale mantenga la pratica antica del sacrificio cruento come forma di
offerta votiva – puja – alla divinità, il più importante fra i rituali della
devozione indù, celebrato ormai da tempo sotto forma di offerta simbolica di
cibo – orzo, riso, latte, burro fuso – all’immagine degli dei nelle migliaia
di templi grandi e piccoli dedicati in tutta l’India a Vishnu, a Shiva, e
agli altri esseri divini.

Particolarmente venerati, fra i luoghi sacri, sono i grandi edifici di
culto, come quelli di Mahabalipuram, mentre a Rishikesh – sull’Himalaya – e
nella città sacra di Benares, sul Gange, convergono pellegrini da tutta
l’India.

Oltre che nei pellegrinaggi, la devozione dei fedeli si esprime nei numerosi
rituali previsti nelle festività solenni, da quella in onore di Durga (un
altro aspetto della dea madre Devi), che si celebra ogni anno nel Bengala
con la venerazione, per dieci giorni, delle immagini della dea, poi gettate
nel Gange durante una suggestiva cerimonia notturna, ai Mela, momento di
incontro fra i devoti e gli asceti, venerati come santi.

Se la festività più solenne è certamente il Maha Kumbha Mela, la “festa
della brocca” – la brocca simboleggia la funzione generativa della dea
madre – celebrata ogni dodici anni ad Allahabad nel punto di confluenza fra
il Gange e lo Yamuna, la ricorrenza primaverile – Holi – costituisce una
sorta di carnevale indiano, caratterizzato significativamente dalla rottura
temporanea dei legami sociali con l’incontro di membri delle diverse caste
che, liberi da ogni condizionamento, manifestano la loro felicità
inondandosi reciprocamente con cascate di liquidi multicolori.

– nni storici –

Per quanto la tradizione indù, fedele alla sua concezione ciclica del tempo,
si dimostri poco incline a cogliere l’evoluzione storica delle sue dottrine,
è possibile individuare, anche volendosi limitare ai contenuti principali,
le fasi salienti di un processo che ha condotto alla nascita di questa
visione religiosa definibile, proprio a motivo del carattere eterogeneo
delle sue pratiche, come sintesi di esperienze di diversa origine.

Già nel periodo compreso approssimativamente fra il 2000 e il 1500 a.C.
l’India fu interessata dalla sovrapposizione fra i tratti culturali della
tradizione indigena, quale appare, per esempio, nelle manifestazioni della
cosiddetta civiltà della valle dell’Indo, nota grazie ai siti archeologici
di Harappa e Mohenjo-Daro, e i caratteri importati dagli invasori
indoeuropei: se i contenuti fondamentali della religione dei Veda, fondata
sull’adorazione di un pantheon di divinità maschili e sulla pratica del
sacrificio, sono di chiara matrice indoeuropea, al sostrato etnico indigeno
sarebbero da attribuire, oltre al culto della dea madre, buona parte degli
atteggiamenti mistici che andranno a costituire la tradizione ascetica
dell’induismo classico e dello yoga in particolare.

Questa tendenza al sincretismo non sarebbe venuta meno neppure con il
consolidarsi, già entro il 900 a.C., del dominio indoeuropeo nell’intero
subcontinente indiano e con il delinearsi della visione sociale e religiosa
imposta dai brahmani che, collocando al cento del loro sistema
l’organizzazione castale e la rigida visione ritualistica della religione,
provocheranno fra l’altro, nel VI secolo a.C., la reazione delle correnti
filosofiche (in particolare del buddhismo e del giainismo) animate da una
più profonda concezione della salvezza individuale.

Lo sviluppo dei motivi filosofici e cosmologici caratterizza del resto,
insieme all’emergere delle principali figure divine, destinate a sostituire
o a ridimensionare le divinità del pantheon vedico, i secoli che procedono
dal 200 a.C. al 500 d.C. e soprattutto l’epoca dell’impero Gupta (320-480
d.C.), durante la quale l’induismo definito come “classico” trova la sua
espressione più compiuta come religione politeistica praticata nell’ambito
del sistema brahmanico con la tendenza a produrre comunque diverse
prospettive devozionali e speculative sulla base di dati reperibili nei
grandi testi epici e mitologici. Con lo sviluppo della bhakti come forma
privilegiata dell’espressione religiosa diviene sempre più marcata la
tendenza alla molteplicità degli indirizzi teologici e rituali, tanto che la
nascita di correnti e di sette vicine all’uno o all’altro orientamento
costituisce il tratto più evidente della storia dell’induismo dall’800 fino
al 1800; sorte in seguito alla predicazione di maestri autorevoli – i guru –
le correnti devozionali sono assimilabili, nella loro struttura
organizzativa, ai movimenti più spiccatamente filosofici, come quelli che si
svilupparono intorno alle figure di Shankara, il teorico del monismo più
puro, e di Ramanuja, animato invece dal desiderio di conciliare la fede nel
brahman assoluto e senza attributi con la devozione a una divinità dotata di
attributi peculiari.

Questi due orientamenti si inquadrano nell’ambito del Vedanta, uno dei sei
sistemi fondamentali della filosofia indiana, che rielaborarono
dialetticamente le dottrine dell’induismo rivestendole di contenuti di alto
livello speculativo, a differenza di quanto accadde negli ambienti del
tantrismo, movimento anch’esso eterogeneo ma unito dalla spiccata tendenza a
sublimare la dimensione materiale dell’esistenza nelle forme di un
ritualismo estetizzante ed esoterico, attraverso l’esaltazione della
componente più propriamente erotica dell’unione fra il principio divino
maschile e quello femminile.

Questi caratteri, chiaramente visibili, ad esempio, nelle pratiche della
setta che, fondata nel XVI secolo da Chaitanya, celebrava l’unione di
Krishna con la sua sposa Radha, tema poi sviluppato dai suoi discepoli sotto
forma di dramma rituale dagli intensi contenuti estetici rappresentato nel
villaggio di Vrindaban, appaiono anche nell’opera dei più celebrati poeti
mistici indiani.

Alcuni di essi, come Kabir, vennero influenzati anche dall’Islam e
soprattutto dalla tensione mistica propria del sufismo. I numerosi
movimenti, come quelli dell’Arya Samaj e del Brahmo Samaj, sorti a partire
dal XIX secolo e classificati convenzionalmente come manifestazioni del
cosiddetto “neoinduismo” sono accomunati dalla volontà di restituire vigore
ai contenuti della tradizione indù come strumento di identità nazionale di
fronte al diffondersi in India della cultura europea, mentre l’attività
politica di Mohandas Gandhi, che si ispira al concetto di ahimsa, la
non-violenza, riproposta nelle forme della “resistenza passiva” come
strumento privilegiato per liberare l’India dal dominio britannico,
costituisce certamente il più noto fra i tentativi di riutilizzare in
prospettiva sociale i dati della religione antica.

Rientrano in questa prospettiva anche gli ideali riformistici di quanti
scorgono in una ridefinizione più o meno radicale del sistema delle caste
una necessità assolutamente prioritaria per garantire, di fronte
all’avanzata inarrestabile del progresso e della secolarizzazione, la
sopravvivenza dei valori spirituali di una fede millenaria, alla quale si
ispirano alcuni movimenti, come quello degli Hare Krishna, veicolo di
diffusione della spiritualità indiana in Occidente.

“Tratto dalla mailing list Sadhana

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