Liberi dal dubbio (parte seconda e fine)

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Liberi dal dubbio (parte seconda e fine)

< Liberi dal dubbio >

(del venerabile Ajahn Chah)

– parte seconda e fine –

© Ass. Santacittarama, 2006. Tutti i diritti sono riservati.
SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Dal libro “Everything Is Teaching Us”
Traduzione di Chandra Livia Candiani

Il fattore successivo è la beatitudine (sukha). Lasciamo cadere il pensiero iniziale e discorsivo,
mentre la tranquillità si approfondisce. Perché? Lo stato mentale diventa più raffinato e sottile.
Vitakka e vicara sono relativamente grossolani e svaniscono. Resta solo il rapimento accompagnato da
beatitudine e dalla unificazione della mente. Quando raggiunge la sua pienezza, non c’è più niente,
la mente è vuota. Questa è la concentrazione di assorbimento.

Non abbiamo bisogno di fissarci o di dimorare in nessuna di queste esperienze. Progrediranno
naturalmente da una alla successiva. All’inizio, c’è il pensiero iniziale e discorsivo, il
rapimento, la beatitudine e l’unificazione. Poi ci si libera del pensiero iniziale e discorsivo che
lasciano il posto al rapimento, alla beatitudine, all’unificazione. Poi viene abbandonato il
rapimento, successivamente la beatitudine, e infine restano solo l’unificazione e l’equanimità.
Questo significa che la mente diviene sempre più tranquilla e i suoi oggetti costantemente
diminuiscono finché non resta altro che unificazione ed equanimità.

Quando la mente è tranquilla e concentrata, può accadere. E’ il potere della mente, lo stato della
mente che ha raggiunto la tranquillità. Quand’è così, non c’è alcuna sonnolenza. Non può penetrare
nella mente; scompare. Per quanto riguarda gli altri impedimenti, come il desiderio sensuale,
l’avversione, il dubbio, irrequietezza e agitazione, semplicemente non saranno presenti. Anche se
possono continuare a essere latenti nella mente del meditante, in questo stadio non sorgeranno.

Domanda: Dovremmo chiudere gli occhi in modo da escludere l’ambiente esterno o dovremmo invece
considerarlo quando lo vediamo? E’ importante tenere gli occhi aperti o chiusi?

Ajahn Chah: Quando siamo all’inizio del nostro addestramento, è importante evitare troppi input
sensoriali, dunque è meglio chiudere gli occhi. Non vedendo oggetti che possono distrarci e
influenzarci, costruiamo la forza della mente. Una volta che la mente è forte, possiamo aprire gli
occhi e qualsiasi cosa vediamo non ci suggestionerà. Non avrà importanza avere gli occhi aperti o
chiusi.

Quando riposi, normalmente chiudi gli occhi. Sedere in meditazione con gli occhi chiusi è la dimora
di un praticante. Proviamo gioia e ci rilassiamo. E’ una base importante per noi. Ma quando non
siamo seduti in meditazione, saremo capaci di avere a che fare con le cose? Sediamo con gli occhi
chiusi e questo ci avvantaggia. Quando apriamo gli occhi e lasciamo la meditazione formale, possiamo
entrare in contatto con qualsiasi cosa ci capiti. Le cose non ci sfuggiranno di mano. Non ci
succederà di non sapere cosa fare. Semplicemente ci occuperemo delle cose. E’ quando ritorniamo a
sederci che sviluppiamo una maggiore saggezza.

In questo modo, sviluppiamo la pratica. Quando raggiunge la sua pienezza, avere gli occhi aperti o
chiusi, fa lo stesso, non è importante. La mente non cambierà, non devierà. In ogni momento del
giorno, mattina, pomeriggio, o notte, lo stato della mente sarà lo stesso. Stiamo fermi. Niente può
scuotere la mente. Quando sorge la felicità, riconosciamo: “non è certa”, e passa. Sorge
l’infelicità e noi riconosciamo: “non è certa”, ed è così. Vi viene l’idea di volervi smonacare. Non
è certo. Ma pensate che lo sia. Prima, volevate essere ordinati monaci, e ne eravate così sicuri.
Ora, siete sicuri di volervi smonacare. E’ tutto incerto, ma non lo vedete a causa dell’oscurità
della mente. La mente vi dice delle bugie: “Stando qui, perdo solo il mio tempo.” Se vi smonacate e
tornate nel mondo, lì non sprecherete il tempo? Non ci pensate. Smonacarsi per andare a lavorare nei
campi e nei giardini, per coltivare fagioli o allevare maiali e capre, non è una perdita di tempo?

C’era una volta, un grande stagno pieno di pesci. Col passare del tempo, la piovosità diminuì e lo
stagno si abbassò. Un giorno, un uccello si posò in riva allo stagno. Disse ai pesci: “Mi dispiace
veramente per voi pesci. Qui avete acqua a sufficienza solo per bagnarvi la schiena. Sapete, che non
lontano da qui c’è un grande lago, profondo parecchi metri, dove i pesci nuotano felici?”

I pesci, nelle acque basse dello stagno, sentendo questa notizia, si entusiasmarono. Dissero
all’uccello: “Sembra magnifico, ma come facciamo ad arrivare fin là?”
L’uccello rispose: “Nessun problema. Posso trasportarvi nel becco, uno alla volta.”

I pesci discussero tra di loro. “Qui, non è più un granché. L’acqua non arriva nemmeno a ricoprirci
la testa. Dobbiamo andarcene.” Dunque, si misero in fila, per essere presi dall’uccello.

L’uccello sollevò un pesce. Appena fuori di vista, atterrò e si mangiò il pesce. Poi, tornò allo
stagno e disse agli altri: “Il vostro amico in questo momento sta nuotando felice nel lago e chiede
quando lo raggiungerete.”

Ai pesci sembrava un’idea fantastica. Non vedevano l’ora di andare, quindi iniziarono a spingersi
per arrivare in cima alla fila.

L’uccello fece così fuori tutti i pesci. Poi, tornò allo stagno per vedere se ne trovava qualche
altro. C’era solo un granchio. L’uccello iniziò con la sua pubblicità del lago.

Il granchio era scettico. Chiese all’uccello come fare per arrivarci. L’uccello rispose che
l’avrebbe trasportato nel becco. Ma quel granchio aveva una certa saggezza. Disse all’uccello:
“Facciamo così. Mi siederò sulla tua schiena con le zampe introno al tuo collo. Se mi giocherai un
tiro, ti soffocherò con le mie chele.”
L’uccello si sentì frustrato, ma volle provarci lo stesso, pensando che magari sarebbe riuscito in
qualche modo a mangiarsi il granchio. Così, il granchio salì sulla sua schiena e presero il volo.

L’uccello volò intorno, cercando un buon posto su cui atterrare. Ma non appena cercò di scendere, il
granchio cominciò a stringergli la gola con le chele. L’uccello non riusciva nemmeno a gridare.
Emise solo un suono secco e gracchiante. Così, alla fine, dovette rinunciare e riportare il granchio
allo stagno.
Spero che tu abbia la saggezza del granchio! Se sei come i pesci, darai ascolto alle voci che ti
dicono che meraviglia sarà far ritorno nel mondo. Questo è un ostacolo che chi ha ricevuto
l’ordinazione incontra. Sii accorto.

Domanda: Perché è difficile osservare con chiarezza gli stati mentali spiacevoli, mentre quelli
piacevoli è facile osservarli? Quando provo felicità o piacere, riesco a vedere che è qualcosa di
impermanente, ma quando sono triste, è più difficile vederlo.

Ajahn Chah: Tu cerchi di risolvere la cosa pensando in termini di attrazione e avversione, ma in
realtà è l’illusione la radice predominante. Senti che l’infelicità è difficile da osservare, mentre
la felicità è più facile. Questo è solo il modo in cui funzionano le tue afflizioni. L’avversione è
difficile da lasciar andare, vero? E’ una sensazione forte. Tu dici che la felicità è facile da
lasciar andare. Non è in realtà facile; è solo che non è così schiacciante. Piacere e felicità sono
cose che alle persone piacciono e con cui si sentono a loro agio. Non sono facili da lasciar andare.
L’avversione è dolorosa, ma le persone non sanno come lasciarla andare. La verità è che sono uguali.
Se contempli pienamente e arrivi a un certo punto, riconoscerai ben presto che sono uguali. Se
avessi una bilancia per pesarli, vedresti che sono pari. Ma noi tendiamo verso il piacevole.

Dici che puoi lasciar andare facilmente la felicità, mentre è difficile lasciar andare l’infelicità?
Pensi che sia facile rinunciare alle cose che ci piacciono, ma ti chiedi perché è difficile
rinunciare a quel che non ci piace. Ma se non sono positive, perché è difficile rinunciarci? Non è
così. Ripensaci. Sono identiche. E’ solo che la nostra tendenza verso di esse non è uguale. Quando
c’è infelicità, ci sentiamo infastiditi, vogliamo che se ne vada in fretta e così ci sembra che sia
difficile liberarcene. Di solito, la felicità non ci infastidisce, dunque ci sentiamo ben disposti e
pensiamo di poterla lasciar andare con facilità. Non è così; è solo che non ci opprime e non ci
serra il cuore, ecco tutto. L’infelicità ci opprime. Noi pensiamo che una abbia più valore o più
peso dell’altra, ma in verità sono pari. E’ come il caldo e il freddo. Il fuoco può bruciarci vivi.
Possiamo anche restare congelati dal freddo e morire ugualmente. Uno non è meglio dell’altro. Lo
stesso vale per la felicità e la sofferenza, ma col pensiero noi gli diamo un valore diverso.

O considera la lode e la critica. Pensi che la lode sia facile da lasciar andare e la critica no?
Sono identiche. Ma quando veniamo lodati, non ci sentiamo turbati; ci fa piacere, ma non è una
sensazione chiara. La critica è dolorosa, perciò ci sembra difficile da lasciar andare. E’ difficile
anche lasciar andare la lode, ma siamo parziali nei suoi confronti e non abbiamo lo stesso desiderio
di liberarcene velocemente. Il piacere che proviamo nell’essere lodati e la frecciata che sentiamo
quando veniamo criticati sono uguali. Sono la stessa cosa. Ma quando la mente incontra queste due
situazioni, abbiamo nei loro confronti reazioni diverse. Non ci accorgiamo di chiuderci ad alcune.

Cerca di comprendere. Nella nostra meditazione, incontreremo ogni tipo di afflizioni mentali. La
prospettiva corretta è di essere pronti a lasciar andare qualsiasi cosa, sia piacevole che dolorosa.
Anche se desideriamo la felicità e non desideriamo la sofferenza, riconosciamo che hanno lo stesso
valore. Sono cose di cui faremo esperienza.

Nel mondo, le persone aspirano alla felicità. Non desiderano la sofferenza. Il Nibbana è al di là
del desiderarlo o non desiderarlo. Capisci? Non c’è desiderio coinvolto nel Nibbana. Non c’è il
desiderio di felicità, il desiderio di essere liberi dalla sofferenza, il desiderio di trascendere
felicità e sofferenza, non c’è nessuna di queste cose. E’ pace.

Io penso che non si realizzi la verità facendo assegnamento sugli altri. Dovresti comprendere che
saranno i tuoi sforzi, la pratica continua, energica, a sciogliere tutti i tuoi dubbi. Non saremo
liberi dal dubbio chiedendo agli altri. Porremo fine al dubbio solo grazie ai nostri inflessibili
sforzi.

Ricordalo! E’ un principio importante nella pratica. E’ quel che fai che ti istruirà. Arriverai a
conoscere quel che è giusto e quel che è sbagliato. “Il bramino raggiungerà la fine del dubbio
attraverso la pratica incessante.” Non importa dove si vada, tutto può essere risolto attraverso i
nostri incessanti sforzi. Ma non riusciamo a perseverare. Non tolleriamo le difficoltà; ci è
difficile affrontare la nostra sofferenza e non scappare. Se la affrontiamo e la sosteniamo,
acquisiamo conoscenza e automaticamente la pratica ci istruisce, insegnandoci cosa è giusto e cosa
sbagliato e il modo in cui le cose veramente sono. La nostra pratica ci mostrerà gli errori e i
risultati negativi del pensiero errato. Succede veramente così. Ma è difficile trovare persone che
lo capiscano. Tutti vogliono il risveglio istantaneo. Correndo di qua e di là seguendo i propri
impulsi, si finisce in una situazione ancora peggiore. Stai attento.

Ho insegnato spesso che la tranquillità è stabilità; il flusso è saggezza. Pratichiamo la
meditazione per calmare la mente e renderla stabile; allora può fluire.
All’inizio, impariamo com’è l’acqua ferma e com’è l’acqua che scorre. Dopo aver praticato per un
po’, vediamo come si sostengano a vicenda. Dobbiamo calmare la mente, renderla come l’acqua ferma.
Poi essa scorre. Sta ferma e anche scorre: non è facile da contemplare.

Riusciamo a capire che l’acqua ferma non scorre. Capiamo che l’acqua che scorre non è ferma. Ma
quando pratichiamo, afferriamo entrambe. La mente di un vero praticante è come acqua ferma che
scorre o acqua corrente ferma. Qualsiasi cosa accada nella mente di un praticante del Dhamma è come
lo scorrere di acqua ferma. Dire solo che scorre non è corretto. Che è solo ferma nemmeno. Di
solito, l’acqua ferma è ferma e l’acqua corrente scorre. Ma quando abbiamo esperienza di pratica, la
nostra mente sarà in questa condizione di acqua ferma che scorre.

E’ una cosa che non abbiamo mai visto. Quando vediamo acqua che scorre, semplicemente scorre via.
Quando vediamo acqua ferma, non scorre. Ma all’interno della mente, è realmente così: acqua ferma
che scorre. Nella pratica del Dhamma, ci sono il samadhi, o tranquillità, e la saggezza mescolate
insieme. Abbiamo la moralità, la meditazione e la saggezza. Allora, ovunque sediamo, la mente è
ferma e fluisce. Acqua ferma che scorre. Lo stesso vale per la stabilità meditativa e la saggezza,
la tranquillità e la visione profonda. Il Dhamma è così. Se hai raggiunto il Dhamma, farai di
continuo quest’esperienza. Essere tranquilli e avere saggezza: fluire, ma fermi. Fermi, ma fluire.

Quando questo accade nella mente di chi pratica, è qualcosa di diverso e di strano; è diverso dalla
mente ordinaria che abbiamo sempre conosciuto. Prima, quando scorreva, scorreva. Quand’era ferma,
non fluiva, era solo ferma, la mente è in questo senso paragonabile all’acqua. Ora, è entrata in una
condizione che è simile ad acqua ferma che scorre. Che si sia in piedi, si cammini, si sia seduti o
sdraiati, è come acqua che scorre ma è ferma. Rendendo così la mente, c’è sia tranquillità che
saggezza.

Qual è lo scopo della tranquillità? A che scopo la saggezza? Hanno l’unico scopo di liberarci dalla
sofferenza, nient’altro. Al presente, soffriamo, viviamo con dukkha, senza comprenderlo e perciò
attaccandoci a esso. Ma se la mente è come l’ho descritta, allora ci saranno molte forme di
conoscenza. Si conoscerà la sofferenza, la causa della sofferenza, la cessazione della sofferenza, e
il cammino di pratica per raggiungere la fine della sofferenza. Sono le Nobili Verità. Si
riveleranno da sole quando la mente è acqua ferma che fluisce.

Quando è così, non importa cosa facciamo, non ci sarà disattenzione; l’abitudine alla negligenza
diminuirà fino a scomparire. Qualunque cosa sperimenteremo, non cadremo nella disattenzione, perché
la mente aderirà fermamente e naturalmente alla pratica. Avrà timore di perdere la pratica.
Continuando a praticare e a imparare dall’esperienza, berremo sempre di più il Dhamma, e la nostra
fede continuerà a crescere.

Succede così a chi pratica. Non dovremmo essere quel genere di persone che non fanno che seguire gli
altri: se i nostri amici non praticano, anche noi non la facciamo, perché se no ci sentiremmo
imbarazzati. Se loro smettono, smettiamo. Se fanno la pratica, la facciamo anche noi. Se
l’insegnante ci dice di fare qualcosa, lo facciamo. Se smette, smettiamo. Non è una via molto veloce
verso la realizzazione.
Qual è il senso del nostro addestramento qui? E’ che quando restiamo da soli, siamo in grado di
portare avanti la pratica. Quindi, ora, mentre viviamo qui insieme, quando al mattino e alla sera ci
si riunisce per praticare, veniamo e pratichiamo con gli altri. Costruiamo l’abitudine, cosicché il
modo di praticare venga interiorizzato nel cuore, e poi saremo capaci di vivere ovunque e continuare
a praticare nello stesso modo.

° ° °

AJAHN CHAH nasce il 17 giugno 1918 da una famiglia agiata e numerosa in un villaggio rurale della
Thailandia nordorientale, è deceduto dopo una lunga malatia il 16 gennaio 1992. E’ stato uno dei
massimi esponenti della tradizione buddhista theravada della foresta. Ha intrapreso gli studi
religiosi giovanissimo, e a vent’anni ha preso gli ordini monastici iniziando la pratica della
meditazione sotto la guida dei grandi maestri della foresta. Per molti anni ha vissuto come asceta,
dormendo in foreste e caverne e nei luoghi di cremazione, e infine si è stabilito in un boschetto
accanto al villaggio natale, raccogliendo presto intorno a sé numerosissimi discepoli. Grande
maestro e meditante, fu l’ispiratore di un vitale comunità monastica che si è diffusa dalla
Thailandia in Inghilterra, America, Australia, Nuova Zelanda, Svizzera e Italia.

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