Lettera dell’India di Tiziano Terzani

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Lettera dall’India

“Io, senza nome a scuola dal guru”

di Tiziano Terzani

ANAIKATTI HILLS (Tamil Nadu), giugno 1999 –

Scrivo queste righe da uno strano posto. Strano, almeno per chi, come
me, abituato da una vita a stare in mezzo alla gente e a scorrazzare
per il mondo a raccontarne le storie e i mil le problemi,
improvvisamente si ritrova isolato da tutto, senza radio, senza
televisione, senza giornali e con un unico problema su cui riflettere,
ora per ora, giorno per giorno, settimana dopo settimana: «Chi sono
io?».

Da più di due mesi vivo, d a «sisha» (colui che merita di studiare),
in un «gurukulam» (famiglia del guru) nel Sud dell’India. Ho una mia
spartanissima cameretta, mangio assieme a un centinaio di altri
«sisha» seduto per terra, con le mani, da un piatto di metallo in cui,
da d ei gran calderoni, mi viene messo del cibo esclusivamente
vegetariano – per cui mai uova o formaggio -, studio Vedanta, la parte
finale dei Veda, i testi sacri indiani in traduzione inglese, e prendo
lezioni di sanscrito, la lingua originale in cui q uesti testi sono
stati tramandati, prima oralmente e poi per iscritto da tre, quattro
millenni; forse da più. Le ragioni che portano una persona in un posto
come questo, un «ashram» (eremitaggio), sono le più svariate.

Fra i miei compagni di corso, tutti indiani, ci sono giovani sui
trent’anni di buona famiglia e di ottima educazione che han fatto voto
di celibato, si dicono liberati d’ogni possesso e desiderio materiale
e si apprestano a indossare l’abito arancione dei «sannyasin», i
rinuncia tari, i mendicanti spirituali; ci sono vecchi con alle spalle
vite di successo, venuti qui per familiarizzarsi con l’idea della
morte, convinti come sono che dopo di quella torneranno a vivere in un
altro corpo, non necessariamente uno umano, ognuno con un suo bagaglio
di meriti e demeriti, karma, con cui dovranno fare i conti. Altri,
specie le donne, son qui per dare un senso alla propria esistenza
spesa, in India più che altrove, in un labirinto di riti e doveri
familiari e sociali. Alcuni son qui invece che essere sul divano di
uno psicanalista; altri ancora perché questo splendido isolamento dai
rumori e dalle tensioni del mondo non costa nulla, o al massimo una
piccola, discrezionalissima offerta: i ricchi seguaci del guru, fra
cui alc uni dei grandi industriali del Paese, pagano per tutti.

Fra le mie ragioni – quelle coscienti almeno – del venir qui ce n’è
una semplicissima: dopo essere vissuto per quasi cinque anni in India,
m’era parso di non far più progressi nella comprensione del Paese, e
questo perché non mi e ro mai seriamente impegnato a studiare il fondo
di tutto ciò che è indiano: la religione. Ero come un marziano che
fosse arrivato nella Firenze di Dante e avesse preteso di capirla
visitando ogni tanto qualche chiesa e ignorando i Vangeli. Da qui l a
decisione di affrontare i loro. In India la religione è una componente
fondamentale della storia: la sola vera grande rivoluzione che il
Paese abbia mai conosciuto fu una rivoluzione religiosa, il buddhismo,
cinque secoli prima della nascita di Cri sto. Uno dei grandi valori
religiosi, ahimsa, la non-violenza, ha così determinato il carattere
della gente di qui che per almeno tremila anni gli indiani non hanno
invaso un altro Paese, non sono mai entrati da conquistatori nelle
terre altrui. Hanno esportato sì la loro civiltà, la loro arte, i loro
dei, ma solo mandando architetti, scultori e sacerdoti a costruire
templi come Angkor in Cambogia o Borobudur nel centro di Giava. Quella
non-violenza li ha resi docili a quattro secoli di dominazione
musulmana e a un secolo e mezzo di colonizzazione inglese; ma quella
stessa non-violenza, nelle abilissime mani di Gandhi, è stata poi
anche lo strumento della loro liberazione. Ancora oggi nell’India, pur
modernizzata e in parte occidentalizza ta, il divino è presente nella
quotidianità della gente come in nessun altro Paese.

E’ nel contadino che automaticamente tocca la terra prima di uscire di
casa al mattino, è nel gesto di versare alcune gocce d’acqua sul cibo
prima di mangiarlo; è nel modo stesso con cui la gente qui si saluta.
Noi ci stringiamo la mano dopo averla aperta per mostrare che non ci
nascondiamo delle armi; qui la gente unisce le mani al petto e si dice
reciprocamente, «Namaste», saluto la divinità che è in te. Le t re
guerre che l’India ha combattuto con il Pakistan dal 1947, così come
il conflitto che minaccia continuamente di scatenarsi in Kashmir,
hanno origini religiose, essendo il Pakistan nato dalla spartizione
secondo linee religiose dell’India inglese. La religione è l’unica
vera ragione della esplosiva tensione che ancora separa all’interno
del Paese la popolazione musulmana (120 milioni) da quella hindu.
Ugualmente religiose sono le motivazioni della recente campagna – a
mio parere solo agli inizi – che alcuni gruppi fondamentalisti hindu
stanno conducendo contro la minoranza cristiana.

Religione, religione, religione. Forse la più antica sistematizzata
religione del mondo; quella col più vecchio e più completo capitale di
saggezza dell’uman ità; la religione che ha fornito miti e concetti –
tipico quello del Paradiso – ripresi poi da tutte le successive
religioni, eppure una religione, questa dell’India, senza una sua
struttura istituzionale, senza una Chiesa: una religione in fondo sen
za neppure un nome, visto che quello con cui è conosciuta nel mondo,
Hinduismo, è uno che le venne affibbiato da uno studioso inglese nel
secolo scorso e che gli indiani stessi evitano di usare. Basta
visitare alcuni templi indiani per confondersi ancora di più
sull’essenza di questa fede: in alcuni si venerano parti del corpo
umano, in altri si venerano animali come i topi, nei più la gente si
prostra e prega dinanzi a una varietà di figure metà bestie metà
uomini. Il numero delle divinità og getto di devozione appare
infinito, eppure tutte – ci vien detto – sono espressione di un unico
dio, lui stesso però portatore di… tanti nomi. Tanto valeva che
cercassi di avvicinarmici, e non studiandolo sui libri, non leggendone
le definizioni fo rnite da accademici occidentali, ma alla maniera
tipicamente indiana: andando a cercarmi un guru.

Guru è una bella, antica parola purtroppo avvilita dall’uso che se ne
è fatto in Occidente: gu significa «tenebra», ru vuol dire «cacciare»;
per cui i guru è colui che scaccia la tenebra, colui che porta luce
nel buio dell’ignoranza. Quello che mi sono scelto non è uno dei
tanti, famosi santoni alla moda a cui accorrono frotte di occidentali,
uno di quelli che fanno «miracoli» o li promettono. Il mio guru è un
intellettualissimo studioso, un uomo di notevole cultura, uno che
molti in India considerano già come il successore di Shankara, il
grande commentatore delle scritture sacre dell’VIII secolo d.C.,
perché ha reintrodotto con successo la tradizione classica
d’insegnamento e ha già formato alcune centinaia di nuovi swami,
maestri, che ora ripropongono la versione originaria del Vedanta in
tutto il Paese. Il mio guru è anche uno degli ideologi, uno dei più
moderati, di quel movimento di rinascita nazional-hinduista che ha la
sua espressione politica nel partito del Bjp, oggi al potere.

Si chiama Swami Dyananda Saraswati, ha 70 anni, da giovane fu
giornalista, il suo gurukulam è isolato, nelle colline a nord di
Coimbatore, sulla v ia di una delle ultime foreste tropicali d’Asia,
la Valle Silenziosa. Entrandoci in aprile ho avuto l’impressione
d’approdare finalmente in India, di non essere più un semplice
visitatore. Mi sveglio alle cinque del mattino al suono di un
campanacc io, per un’ora osservo nel tempio il rituale lavaggio degli
idoli e la loro vestizione godendo del magnifico salmodiare dei
mantra, i suoni sacri; per mezz’ora partecipo alla meditazione di
gruppo, poi dopo colazione – di solito a base di ceci lessi – seguo le
lezioni interrotte dal pranzo – riso e ceci lessi – e dalle varie
pause per il tè.

Al tramonto vado al tempio per la cerimonia del fuoco, o da solo su
una delle colline per il glorioso calare del sole. Dopo cena – per lo
più ceci lessi e r iso, questa volta però con l’aggiunta di yogurt! –
c’è una conversazione di gruppo su un tema che ognuno può proporre.
Alle dieci l’intero ashram dorme. Il succo di tutto l’insegnamento è
più o meno questo: l’esperienza che ognuno fa di se stesso e del mondo
è fondata sulla divisione fra soggetto e oggetto, fra chi conosce e
ciò che viene conosciuto. L’Io percepisce l’intero universo come
qualcosa fuori da sé e si sente perciò come una limitata,
insignificante esistenza sulla scala del mondo. Da questa dualità
scaturiscono tutti i problemi: innanzitutto quello della ricerca del
Creatore di questo universo che l’Io si trova dinanzi, di cui si
accorge che è così intelligentemente messo assieme, e di cui sa di non
poter essere l’autore.

Comi ncia così quella ricerca di un Dio esterno all’Io che è di tutte
le religioni. Ecco che entrano di scena le scritture sacre, i Veda, o
meglio la parte finale di questi, il Vedanta. Con una serie di
ragionamenti logici che nascono dall’esperienza che uno fa di sé e del
mondo, le scritture dimostrano, allo stesso modo con cui gli occhi
vedono e gli orecchi sentono, che partendo dall’analisi dell’Io questa
dualità fra conoscitore e conosciuto è falsa, non esiste e che tutto,
tutto è semplicemente c oscienza, che quella coscienza è dovunque, è
fuori dal tempo e dallo spazio, che quella coscienza è atma, è
Brahman, è Ishavara e che la risposta alla domanda «Chi son io?» è
semplicemente: «Tat tuom asi», tu sei questo. Tu sei dio, tu sei il
Creator e dell’intero universo. Da qui l’idea tutta indiana che dio è
in ogni forma, in ogni cosa perché non ci sono vari dei, perché non
c’è un solo dio, ma perché tutto è dio. «Allora come va chiamata
questa religione?», ho chiesto al swami in una dell e nostre
conversazioni in cui ho voluto registrare come un religioso d’Oriente
vede il mondo d’oggi e i suoi problemi. «Vedanta non è una religione,
è una cosa più spirituale… Vedanta è conoscenza, la conoscenza…».
«Ma lei come si definisce?» . «Io? Sono… un barbone spirituale», ha
detto divertito. «Sono un sannyasin. Questi abiti arancioni indicano
che seguo la tradizione vedica, ma questo non mi fa un hindu…
l’hinduismo non esiste. Quel che perseguo è comune a tutti gli uomini,
è universale. Questo è il grande pregio del Vedanta.

Per questo nella nostra visione ognuno è libero di adorare dio come
vuole, di chiamarlo con il nome che preferisce, Gesù, Allah, Jehowa.
Per questo noi rispettiamo tutte le religioni e non abbiamo co nflitti
con nessuno». «Non è vero. Il conflitto c’è già. I cristiani vengono
aggrediti da bande di ultrà hindu, ci sono già stati dei morti; delle
chiese sono state messe a fuoco… e lei stesso non fa mistero della
necessità di bloccare l’espansio ne cristiana in India», rispondo
sapendo che Swami Dyananda è coinvolto con varie iniziative, compresa
l’organizzazione di un convegno e di una grande manifestazione a
Madras a metà luglio, per pubblicizzare un’idea che il swami ha già
presentato rec entemente in un discorso a una commissione delle
Nazioni Unite: il congelamento delle conversioni cristiane in India.
«Il problema delle conversioni è diventato estremamente serio in
questo Paese, specie qui nel Sud.

Le conversioni sono una forma d i violenza. La Chiesa cattolica e le
varie sette protestanti stanno facendo un grande sforzo e investendo
montagne di soldi per convertire la nostra gente. Questo è diventato
inaccettabile perché cambia la nostra cultura, crea conflitti e
tensioni ch e sarebbe invece bene evitare. Non abbiamo niente da
obiettare contro gli ebrei, contro i parsi: quelli sono come noi
hindu, non vanno in giro per il mondo a convertire la gente. Queste,
come la nostra, sono fedi non aggressive. Diverso invece è il c aso
dell’Islam e del cristianesimo. Quelle sono religioni missionarie,
aggressive. E non si possono mettere a confronto queste con quelle
perché una religione come la nostra è subito in svantaggio». «Ma
questa è l’epoca del mercato libero, mercato di beni, mercato di idee,
di religioni. Come si può andare contro questo?», chiedo. «Questo
mercato non è libero perché il debole non è libero dinanzi al forte e
le religioni non aggressive, non combattive non possono competere con
quelle aggressiv e. Per questo debbono essere protette. Noi siamo
vittime di una aggressione. Qualcuno deve intervenire, le Nazioni
Unite eventualmente, ma innanzitutto la Chiesa deve bloccare le sue
conversioni.

Se questo non succede qui si creano le condizioni per una violenta
reazione. I cristiani vogliono un dialogo? Siamo prontissimi, ma
innanzitutto debbono smettere di pestarci i piedi», dice il swami.
Vivekanda, il grande filosofo, propagandista hindu, all’inizio del
secolo predisse che Vedanta sarebbe pr esto diventata la religione del
mondo. Swami Dyananda la pensa allo stesso modo. Dubito che i fatti
daranno loro ragione, ma almeno per quanto riguarda l’India l’attuale
rinascita della tradizione classica del Vedanta è un fenomeno che non
va sottova lutato e, dati i suoi connotati nazionalisti, è un fenomeno
con cui le altre religioni, specie quella cristiana, qui da quasi
duemila anni, dovranno fare i conti. «Già… duemila anni, cosa sono
nella storia dell’India? Comunque nessuno mette in disc ussione il
diritto dei cristiani a essere in India. Ci stiano pure altri duemila
anni! Chiediamo solo che non continuino a distruggere la nostra
cultura come hanno fatto con tante altre antiche culture in America
Latina e in Africa.

Anche questa è un a forma di globalizzazione contro cui dobbiamo
resistere. Lasciamo che il mondo mantenga le sue diversità». Così
parla oggi in uno strano posto nell’India del Sud un influente
«barbone spirituale» che vorrebbe tanto aprire un dialogo con la
Chiesa e convincere magari il Papa in persona a bloccare le
conversioni: un messaggio questo che, visto il mittente, mi pare valga
la pena registrare, mentre io continuo, solo per qualche giorno
ancora, nel mio quotidiano arrovellarmi su… chi sono. P. S. Nel caso
queste righe dovessero cadere sotto gli occhi di un cardinale, mi sia
concessa una postilla: «Eminenza, non le pare che anche la Chiesa
potrebbe fare da noi qualcosa di simile a questi ashram? Non sarebbe
una buona idea prendere qualche v ecchio convento vuoto, qualche
proprietà in disuso e metterla a disposizione di tanti che potrebbero
andare lì a riflettere sulle proprie frustrazioni e sul senso della
vita invece che andare a cercare risposte consumistiche nelle vacanze
al mare… o risposte più spirituali, ma sempre da vacanza, negli
ashram dell’India o nei monasteri tibetani?».

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