Le vacanze, Suzuki e la disperazione

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Le vacanze, Suzuki e la disperazione

di Andrea Borelli

Mi sono sempre rapportato malissimo alla morte.

Fin da piccolo non l’ho mai accettata: l’addio definitivo senza
possibilità di ritorno mi ha sempre creato sgomento e rifiuto.

Questa resistenza mi accompagna da anni.

A volte, durante l’infanzia, l’adolescenza o in età più matura,
emergeva come un masso che non potevo evitare. E ci andavo a sbattere
contro.

Sono stati gli addii definitivi di amanti amate o la morte di persone
care a farmi andare a sbatterci.

A volte anche solo il pensiero o il ricordo di simili esperienze era
sufficiente a farmi sentire una fitta al cuore o al fegato, a
togliermi il fiato senza avere nessuna certezza di poter respirare
ancora.

L’ho sempre considerata una mia mancanza, un mio punto debole da dover
quasi nascondere.

Disperazione, ecco la parola che descrive questi momenti. Una enorme,
inconsolabile disperazione verso l’ineluttabile, che mi provocava un
senso di ingiustizia e di impotenza.

Le immagini strazianti del momento dell’addio le vivevo dolorosamente.
A essere sinceri, molto più che dolorosamente, sia che fossero state
reali o prodotte da mie fantasie o viste al cinema o lette in qualche
libro.

Mi dicevo: “Gli altri non piangono o si commuovono come me, anche per
scene a volte dozzinali, non si fanno dei ‘viaggi’ così pesanti dentro
la morte e la sofferenza. O sono più insensibili, cosa non per forza
negativa, o hanno una mano più leggera di me, un tocco più lieve e
maturo nell’affrontarle”.

Perfino durante un ritiro in solitudine, è emersa questa paura. Sono
rimasto seduto a guardarla, vedendo gli aspetti fluttuanti del dolore,
capendo quanto concorreva la mente a dargli forma, sentendo che è la
paura del dolore a rendere intollerabile il dolore, che forse
lasciandoci semplicemente soffrire quando è il momento, è l’unica
terapia e via di uscita dal dolore stesso.

Mi trovavo su un’isola tropicale con la mia compagna, durante il
nostro periodo di vacanza e mi ero portato diversi libri.

Cetriolo storto di D. Chadwick, una biografia del maestro zen Shunryu
Suzuki-roshi, era quello che mi attraeva di più e fu il primo che
lessi.

Durante le ferie si ha la possibilità di usare il grande spazio-tempo
a disposizione per andare più in profondità e per interrompere gli
automatismi delle nostre vite. Qui il non-fare può diventare una
possibilità e una realtà, anche se a volte non si ha la forza di stare
davanti a questa vastità, per cui ci riempiamo la giornata di tanti
piccoli “fare”. Ma accolsi volentieri la sfida.

Quando finii il libro il mondo non era più lo stesso per me.

Non che ci avessi trovato dentro ‘La Dottrina’. Anzi, era proprio
perché era totalmente umano e anti-dottrinario che mi aveva colpito.

Non so perché, ma aveva dribblato i giudizi della mente ed era
arrivato dritto al cuore.

In fondo era solo una biografia, per giunta non edulcorata, poiché
metteva in luce anche aspetti discordanti della sua esistenza. Ma
l’immagine e l’insegnamento di questo piccolo grande uomo mi aveva
toccato profondamente.

Alcuni insegnamenti sono entrati più in profondità. Non che non li
conoscessi o non li avessi mai sentiti prima, ma era come viverli con
una freschezza nuova, da un’angolazione diversa.

Ho capito che si può essere totalmente umani, con le nostre piccole e
grandi contraddizioni ed essere al contempo dei Buddha illuminati. Che
non c’è distinzione fra le due cose. Che anche nelle nostre bassezze e
incongruenze c’è spazio per la buddhità. Che non dobbiamo arrivare
alla perfezione per sentirci dei Buddha. Che in fondo siamo già dei
piccoli Buddha che lavorano, praticano, sbagliano, cadono, piangono,
si rialzano, ripraticano, amano, odiano.

Proprio in mezzo a questa dualità, il Buddha in noi si siede e lavora
con la pratica: scintille di nirvana in mezzo al samsara.

L’amicizia con i nostri aspetti duali ci porta più vicini alla Verità
che non la ricerca della perfezione, dell’illuminazione.

Ho bevuto come un nettare l’insegnamento essenziale del libro e ne fui
profondamente grato, ma l’onda lunga non l’avevo prevista.

È arrivata dopo qualche giorno, dopo un colpo di sole.

Ero con la testa sotto al rubinetto dell’acqua fresca, con la febbre a
39°per una insolazione, mentre la mia compagna cercava di aiutarmi ad
abbassare la temperatura tenendomi la testa sotto l’acqua e
massaggiandomi i capelli.

A un tratto mi risuonò come un dolore sordo il ricordo degli ultimi
istanti di vita di Suzuki, quando egli con le sue ultime forze tese il
braccio verso il suo discepolo prediletto, mentre questi gli strinse
la mano e appoggiò la sua fronte sopra quella del maestro. In questo
modo Suzuki roshi se ne andò definitivamente da questo mondo, con
leggerezza, quasi in punta di piedi.

Con una serie di flash-back incontrollati, rivissi gli ultimi istanti
di vita di mia madre e la sofferenza per lo strappo della morte invase
il mio spirito, devastandolo. Cominciai a singhiozzare, tra l’acqua
fresca sul capo e la testa bollente e le mani caritatevoli della mia
compagna e la mia condizione di vulnerabilità e la vulnerabilità di
tutti gli esseri ed il dolore dell’abbandono causato dalla morte, la
sua ineluttabilità e definitività. Era di nuovo lì davanti a me: la
disperazione.

Non ho mai avuto rapporti amichevoli con essa. Nonostante cercassi di
farlo non ci ero mai riuscito veramente. Quando potevo la evitavo e
quando non potevo ne soggiacevo.

Consideravo il provare disperazione davanti all’ultimo addio una mia
debolezza e forse la pratica avrebbe fatto sì che io non la provassi
più. Era come se la considerassi un ospite sgradito di cui liberarmi e
la pratica della meditazione fosse il rimedio, la medicina per questo.

In questo crogiuolo di emozioni, di febbre, di debolezza, di acque che
scorrevano, nacque qualcosa.

Ero incerto su cosa fosse ma lentamente si delineava sempre più: era
una nascita, un dono. Era la comprensione che la disperazione andava
bene così com’era. Non c’era un modo di soffrire ‘giusto’ ed uno
‘sbagliato’. Non c’era un limite oltre il quale la sofferenza non era
più giusta, più gestibile. Se c’era disperazione-non-gestibile, ok,
andava bene così. Non ero io inadeguato se non riuscivo a sopportare
quel dolore, perché non c’era un modo ‘giusto’ per affrontarlo.

E di nuovo l’insegnamento di Suzuki: “L’unico modo per sopportare il
dolore è lasciare che sia doloroso”.

“Accidenti, va bene, ma non così, non questo dolore, non così forte,
non quando è disperazione!”.

Mentre invece una voce morbida diceva: “Va bene anche così, va bene
anche quando ci sembra insopportabile”.

Di colpo la disperazione cessava di essermi ostile, mi tendeva la
mano, o ero io che le tendevo la mano tra le lacrime. Non importava,
amicizia era fatta.

La possibilità di amicizia con la disperazione, come un seme, si era
piantata nel mio cuore

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