Le Upanishad, nel pensiero di Sri Aurobindo

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Le Upanishad, nel pensiero di Sri Aurobindo

di Sri Aurobindo

Le Upanishad sono l’opera suprema del pensiero indiano, e che sia
effettivamente così, che l’altissima espressione della personalità del
proprio genio la loro sublime capacità poetica, la loro enorme capacità
creativa in pensiero e in parola, non siano un capolavoro letterario o
poetico della mente ordinaria, ma un ampio flusso di rivelazione spirituale
per questo carattere profondo e diretto, è un fatto significativo, prova di
una mentalità unica e di non comune inclinazione dello spirito.

Le Upanishad sono nello stesso tempo profonda scrittura religiosa, in quanto
testimonianza delle più assolute esperienze spirituali, documenti di una
filosofia rivelatrice e intuitiva di luce, potere e ampiezza inesauribili e,
sia in prosa che in metrica, poemi spirituali di una assoluta, infallibile
ispirazione costante nel linguaggio, straordinaria per ritmo ed espressione.

E’ la manifestazione di una mente nella quale filosofia e religione e poesia
sono diventate una cosa sola, perché questa religione non termina in un
culto ne è limitata ad un aspirazione di tipo etico-religioso, ma si innalza
verso una scoperta infinita di Dio, del Sé, della nostra più alta e totale
realtà spirituale e di esseri viventi e descrive un’estasi di luminosa
conoscenza e un’estasi di partecipe compiuta esperienza; questa filosofia
non è un’astratta speculazione intellettuale intorno alla Verità o una delle
strutture dell’intelligenza logica, ma una verità vista, esperita, vissuta,
posseduta dalla mente e dall’anima più profonda nella gioia di esprimere una
sicura scoperta di possesso, e questa poesia è opera di una concezione
estetica innalzata oltre l’ambito ordinario per esprimere la meraviglia e la
bellezza della più rara autocoscienza spirituale e della più profonda,
ispirata Verità del Sé e di Dio e dell’Universo.

Qui lo spirito intuitivo e l’intima esperienza psicologica dei veggenti
vedici perviene ad un culmine supremo in cui lo Spirito, come è detto in un
passaggio della Katha Upanishad, svela la sua più vera essenza, rivela la
parola esatta della sua auto espressione e apre alla mente la vibrazione dei
ritmi che, ripetuti all’ascolto spirituale sembrano sostanziare l’anima e
porla, ricolma e compiuta, sulle sommità dell’ autoconoscenza.

Le Upanishad sono state la sorgente riconosciuta di varie e profonde
filosofie e religioni che da esse sono poi scorse in India come i suoi
grandi fiumi dalla culla himalayana rendendo fertili la mente e la vita
degli uomini e hanno mantenuto viva la sua anima lungo il grande procedere
dei secoli ritornando costantemente ad esse per la rivelazione, mai mancando
di dare nuova illuminazione, fontana di inesauribili acque di vita.

Il Buddismo con tutti i suoi sviluppi fu solo una riaffermazione, sebbene da
un nuovo punto di vista e con nuovi termini di definizione di ragionamento
intellettuale, di un aspetto di questa esperienza e la portò così modificata
nella forma, ma appena nella sostanza, attraverso tutta l’Asia e a Occidente
verso l’Europa.

Le idee contenute nelle Upanishad possono essere ritrovate in molto nel
pensiero di Pitagora e Platone e costituiscono la parte più profonda del
Neo-Platonismo e dello Gnosticismo con tutte le loro importanti conseguenze
sul pensiero filosofico occidentale, e il Sufismo le ripete in un altro
linguaggio religioso.

La parte più consistente della metafisica tedesca è in sostanza poco più che
uno sviluppo intellettuale e di grandi realtà meglio spiritualmente comprese
da questo antico sapere, e il pensiero moderno le sta rapidamente assorbendo
con una ricettività sempre più essenziale, viva ed intensa che promette una
rivoluzione tanto nel pensiero, quanto in quello religioso; ora esse
filtrano grazie a varie influenze indirette, ora si esprimono in modi aperti
e diretti.

Quasi non esiste una grande idea filosofica che non possa trovare forza o
una nuova origine o indicazioni in queste antiche scritture, le
speculazioni, secondo un certo punto di vista, di pensatori che non avevano
migliore passato o migliore base culturale al loro pensiero di una rozza
primitiva, naturalistica ed animistica ignoranza.

E persino le più ampie generalizzazioni della scienza si ritrovano
costantemente applicabili alla verità delle formule della natura fisica già
scoperta dai saggi indiani nel loro originale, nel loro più vasto
significato, nella più profonda verità dello spirito.

*

E tuttavia queste opere non sono speculazioni filosofiche di genere
intellettuale, analisi di tipo metafisico che cercano di definire nozioni,
di selezionare idee e di distinguere quante tra di loro sono vere, di
logificare la verità o aiutare altrimenti la mente nelle sue inclinazioni
intellettuali per mezzo del ragionamento dialettico e nel suo concetto di
proporre una soluzione definitiva dell’esistenza nella luce di questa o di
quella idea della ragione e di osservare tutte le cose da quel solo punto di
vista, in quel fuoco e in quella determinata prospettiva.

Le Upanishad non avrebbero potuto avere una vitalità così perenne,
esercitare una influenza così sicura, produrre tali risultati o vedere oggi
le loro asserzioni autonomamente confermate in altri ambiti di ricerca e
attraverso metodi completamente diversi, se fossero state opere del genere.

E’ perché questi veggenti videro la Verità piuttosto che semplicemente
pensarla, la rivestirono anzi di una forte sostanza di intuizione e di
immagine rivelatrice, ma una sostanza di trasparenza ideale attraverso la
quale noi guardiamo verso l’illimitato, e perché esse compresero in
profondità le cose nella luce del Sé e le videro con la visione
dell’infinito, che le loro parole rimangono sempre vive e immortali, di un
significato inesauribile, di una immancabile autenticità, un fine
convincente che è nello stesso tempo infinito inizio della Verità, alle
quali tutte le nostre ricerche quando terminano di nuovo approdano e alle
quali l’umanità costantemente ritorna nelle sue menti e nelle sue epoche di
più profonda visione.

Le Upanishad sono il Vedanta, un libro di conoscenza ad un più alto grado
persino dei Veda, conoscenza nel più profondo senso indiano del termine,
Jnana.
Non un semplice pensare e considerare attraverso l’intelligenza, non il
ricercare e il cogliere una forma mentale della verità con la mente
razionale, ma un vederla nell’anima ed un vivere totale in essa grazie al
potere dell’essere interiore, un possesso spirituale attravesro una sorta di
identificazione con l’oggetto della conoscenza è Jnana.

E poiché è solo attraverso una conoscenza integrale del Sé che questo genere
di conoscenza diretta può essere resa completa, fu questo che i saggi
vedantini cercarono di conoscere, di penetrare e di vivere nell’identità.

E attraverso questo sforzo essi giunsero facilmente a comprendere che il Sé
in noi è una cosa sola con il Sé universale di tutte le cose e ancora che
questo Sé non è che Dio e il Brahman, un Essere o una Esistenza
trascendenti, ed essi videro, sentirono, vissero nella più totale intima
verità di tutte le cose dell’universo e nella più intima verità
dell’esistenza interiore ed esteriore dell’uomo grazie alla luce di questa
sola e unificante visione.

Le Upanishad sono inni della conoscenza del Sé dell’universo e di Dio.

Le grandi formule di verità filosofiche di cui esse abbondano non sono
astratte generalizzazioni intellettuali, realtà che possono rischiarare ed
illuminare la mente ma che non vivono e non spingono l’anima ad ascendere,
ma sono ardori e luci di un illuminazione intuitiva e rivelatrice,
raggiungimento e comprensione della sola Esistenza, della Divinità
trascendente, del divino e universale Sé, scoperta della sua ruvelazione con
le cose e le creature di questa grande manifestazione cosmica.

Canti di un ispirato sapere, essi emanano come tutti gli inni un tono di
aspirazione ed estasi religiose, non del genere scarsamente profondo proprio
a un sentimento religioso minore, ma innalzato al di là del culto e di forme
particolari di devozione, verso l’universale Ananda del Divino che ci
raggiunge attraverso l’avvicinamento e l’identità con l’autocosciente
Spirito universale.

E sebbene principalmente concernenti la visione interiore e non direttamente
l’agire umano esteriore, tutte le più importanti etiche del Buddismo e
dell’Induismo posteriore sono tuttavia ancora della stessa vita e del
significato delle verità alle quali essi danno forma espressiva e forza e
tuttavia esiste qualcosa di più grande di qualunque precetto etico e norma
di virtù mentale, l’ideale supremo di una azione spirituale fondata
sull’identità con Dio e con tutti gli esseri viventi.

Perciò anche quando sono morte le forme del culto vedico, le Upanishad sono
rimaste viventi e creative ed hanno potuto generare le grandi religioni
devozionali e sostenere la duratura concezione indiana del Dharma.

*

Le Upanishad sono la creazione di una mente rivelatrice e intuitiva e della
sua illimitata esperienza; la loro sostanza, la struttura, l’espressione, il
linguaggio figurato e le dinamiche sono determinanti e contrassegnati da
questo carattere originale.

Queste verità supreme e onnipervadenti visioni di unità, del Sé e di un
essere divino universale sono proiettate in frasi concise e monumentali che
le portano immediatamente di fronte alla visione dell’anima e le rendono
presenti e imperative per la sua aspirazione e la sua esperienza e sono
espresse in brani poetici pieni di potere rivelatore e di una concezione
suggestiva che scopre l’intero infinito attraverso un’immagine finita.

L’Uno è la rivelato ma ha anche dischiuso i suoi innumerevoli aspetti, e
ciascuno guadagna pieno significato attraverso l’ampiezza dell’espressione e
trova, come in una spontanea autoscoperta, il suo posto e la sua
coordinazione attraverso l’illuminante esattezza di ogni parola e
dell’intera frase.

Le più vaste verità metafisiche e le più sottili distinzioni dell’esperienza
psicologica sono raccolte all’interno del movimento ispirato e rese
immediatamente chiare per la mente che osserva e colmate di infinite
suggestioni per lo spirito che conosce.

Esistono frasi particolari, singoli distici, brevi passaggi che contengono
in se stessi l’essenza di una vasta filosofia e tuttavia ciascuno di essi
viene pronunciato come un lato, un aspetto, una parte dell’infinita
autoconoscenza.

Tutto è di una concisione raccolta e ricca di idee e tuttavia perfettamente
lucida e luminosa, tutto di una infinita compiutezza.

Un pensiero di questo genere non può seguire il lento, prudente e prolisso
sviluppo dell’intelligenza logica.

Il brano, la frase, il distico, il verso e persino il mezzo verso segue
quello che procede con un significato inespresso, un silenzio che echeggia
tra loro, un pensiero che viene trasmesso in una suggestione totale ed è
implicito alla cadenza stessa ma che la mente è lasciata libera di elaborare
a proprio vantaggio, e questi intervalli di silenzio significante sono ampi,
la cadenza di questo pensiero come i passi di un Titano che cammina tra
rocce distanti su acque infinite.

Si trova una perfetta totalità, una estesa correlazione di parti tra loro
armoniche nella struttura di ogni Upanishad; ma il tutto è trattato al modo
di una mente che vede in uno sguardo messe di verità e si arresta per
estrarre solo la parola necessaria da un silenzio compiuto.

Il ritmo ne verso o la cadenza della prosa scolpiscono l’idea e
l’espressione.

Le forme metriche delle Upanishad sono costituite da quattro semiversi
ciascuno chiaramente definito, versi che sono generalmente completi e dotati
di senso, semiversi che presentano due pensieri o parti distinte di un
pensiero che sono unite o si completano reciprocamente, e la cadenza sonora
segue un principio corrispondente, ciascun passo conciso e marcato della
chiarezza del proprio intervallo, colmo di ritmi echeggianti che permangono
a lungo vibrare nell’ascolto interiore; ciascun passo è come un’onda
dell’infinito che porta in se stessa interi la voce e il suono dell’oceano.

E’ un genere di poesia, parola della visione, ritmo dello spirito, che non è
più stato scritto, ne prima ne dopo.

Il linguaggio figurato delle Upanishad si è in larga parte sviluppato dal
genere di linguaggio figurato dei Veda e sebbene esso solitamente preferisca
la svelata chiarezza di una immagine direttamente illuminante, a volte esso
usa gli stessi simboli in un modo che è profondamente simile allo spirito e
all’aspetto meno tecnico del metodo di quel simbolismo più antico.

E’ in larga misura questo elemento non più afferrabile dal nostro modo di
pensiero che ha sconcertato certi studiosi occidentali e li ha fatti
affermare che queste scritture sono una combinazione delle più alte
speculazioni filosofiche con i primi goffi balbettii della mente bambina
dell’umanità.

Le Upnaishad non rappresentano uno scostamento rivoluzionario dalla mente
vedica, dal suo temperamento e dalle sue idee fondamentali, piuttosto una
continuazione e uno sviluppo e in una certa misura un ampliamento nel senso
di una resa in aperta espressione di tutto ciò che fu tenuto nascosto nel
discorso simbolico dei Veda come un mistero segreto.

Esse iniziano a raccogliere il linguaggio figurato e i simboli rituali dei
Veda e dei Brahmana e a trasformarli in modo da esprimere un senso interiore
e mistico che serve come una sorta di punto di partenza psichico per la
propria filosofia, più evoluta e più puramente spirituale.

Esiste un grande numero di passaggi specialmente nelle Upanishad in prosa
che sono interamente di questo genere ed azione, in un modo recondito,
oscuro e persino incomprensibile per il pensiero moderno, con il senso
psichico di idee allora comuni nella mente religiosa vedica, la distinzione
tra i tre generi di Veda, i tre mondi e altri soggetti simili; ma,
conducendo come fanno nel pensiero delle Upanishad a più profonde verità
spirituali , questi brani non possono essere scartati come infantili
aberrazioni dell’intelligenza privi di senso e di ogni rintracciabile
rapporto con il più alto pensiero nel quale essi culminano. Al contrario
troviamo che essi possiedono un significato sufficientemente profondo quando
riusciamo a penetrare il loro significato simbolico.

Questo significato si mostra in una ascesa psicofisica a una conoscenza
psicospirituale per la quale noi useremmo oggi termini più intellettuali,
meno concreti e immaginativi, ma che è ancora valida per coloro che
praticano lo yoga e riscoprono i segreti del nostro essere psicofisico e
psicospirituale.

Passaggi tipici di questo genere di espressione peculiare di verità psichice
sono la spiegazione di Ajatashatru del sonno e dei sogni o i brani della
Prashna Upanishad sul principio vitale e le sue azioni, o ancora quelli in
cui l’idea vedica della lotta tra dèi e demoni è ripresa e guadagna il suo
significato spirituale e le divinità vediche, più chiaramente che nel Rig o
nel Sama Veda, sono caratterizzate e invocate per la loro funzione interiore
e per il loro potere spirituale.

*

Le Upanishad abbondano di passaggi che sono ad un tempo poesia e filosofia
spirituale, di chiarezza e bellezza assolute, ma nessuna traduzione priva
delle suggestioni e dei solenni e sottili e luminosi echi di senso delle
parole e dei ritmi originali, può dare alcuna idea del loro potere e della
loro perfezione.

In altri le più sottili verità psicologiche e filosofiche sono espresse in
modo completamente sufficiente senza mancare di una perfetta bellezza
nell’espressione poetica e sempre in modo tale da vivere nella mente e
nell’anima e non essere semplicemente offerte alla comprensione
intelligente.

C’è in alcune delle Upanishad in prosa un altro elemento di vivido racconto
e tradizione che ci restituisce, sebbene solo in brevi fugaci, il quadro di
quella animazione e di quel movimento di ricerca spirituale e di passione
verso la più alta conoscenza che hanno reso possibili le Upanishad.

Le scene del mondo antico rivivono davanti a noi in alcune pagine, i saggi
che siedono nei boschi pronti ad ammaestrare chi si presenta, prìncipi e
dotti Bramini e grandi proprietari terrieri alla ricerca della conoscenza,
il figlio del re nel suo carro e il figlio illegittimo della serva,
ricercando ogni uomo che avrebbe potuto portare in se stesso l’idea della
luce e la parola della rivelazione, le tipiche figure simboliche e
personalità, Janaka e la sottile mente di Ajatashatru, Raikwa del carro,
Yoinavalka soldato della verità, calmo ed ironico, che prende con entrambe
le mani senza alcun attaccamento i beni del mondo e le ricchezze spirituali
e lascia alla fine tutti i suoi averi per peregrinare come un asceta senza
casa, Krishna figlio di Devaki che udì una sola parola del Rishi Gora e
conobbe immediatamente l’Eterno, gli Ashram, le corti di re che furono anche
ricercatori e conoscitori spirituali, le grandi assemblee sacrificali dove i
saggi si incontravano e confrontavano la loro conoscenza.

Così noi vediamo come nacque l’anima dell’India e come scorse questo grande
canto delle origini nel quale essa si levò in volo dalla terra verso i
supremi cieli dello spirito.

I Veda e le Upanishad non sono solo la bastevole sorgente della filosofia e
della religione indiana, ma di tutta l’arte e la letteratura indiana.

Fu l’anima, il temperamento, lo spirito ideale in essi formato ed espresso
che costruì in seguito le grandi filosofie, edificò la struttura del Dharma,
testimoniò la sua eroica gioventù nel Mahabharata e nel Ramayana, si
intellettualizzò infaticabilmente nell’epoca classica della sua maturità,
produsse così tante intuizioni originali nella scienza, creò un così ricco
fervore di esperienze estetiche, vitali e sensibili, rinnovò la sua essenza
spirituale e psichica nei Tantra e nei Purana, si gettò nella magnificenza e
nella bellezza delle linee e del colore, scolpì e fuse il suo pensiero e la
sua visione nelle pietre e nel bronzo, si riversò in nuovi canali di
autoespressione nei linguaggi successivi e ora dopo una lunga eclissi
riemerge sempre identico nella diversità e pronto per nuova vita e nuova
creazione.

*

La fissata concezione fondamentale del Vedanta è che là esiste in qualche
luogo – e non potremmo non trovarla – accessibile all’esperienza o
all’autorivelazione anche se negata alla ricerca puramente intellettuale,
una verità sola onnicomprensiva e universale nella luce della quale l’intera
esistenza si trova rivelata e chiarita nella sua natura e nel suo fine.

Questa esistenza universale, con tutta la moltitudine della sua realtà e la
diversità delle sue forze, è una in sostanza ed origine; ed esiste una
quantità non conosciuta, X o Brahman, alla quale essa può venire ridotta,
perché da lui è originata e in lui e attraverso di lui persiste.

Questa quantità non conosciuta è chiamata Brahman.

Ma intanto i veggenti dell’antica India avevano completato, nei loro
esperimenti e sforzi di disciplina spirituale e di conquista del corpo, una
scoperta che nella sua importanza per il futuro della conoscenza umana
oscura le intuizioni di Newton e Galileo; persino la scoperta del metodo
induttivo e sperimentale nella Scienza non è risultato così fondamentale;
perché essi penetrarono sino ai suoi processi ultimi il metodo dello yoga e
attraverso il metodo dello yoga si elevarono al culmine di una triplice
realizzazione.

Essi compresero dapprima come una realtà l’esistenza, aldisotto del flusso e
della molteplicità delle cose, di quella suprema Unità e immutabile
Stabilità che era stata sino ad allora ipotizzata solo come una teoria
necessaria, una inevitabile generalizzazione.

Giunsero a comprendere che Quello è la sola realtà e tutti i fenomeni non
sono che le sue apparenze e le sue sembianze, che Quello è il vero Sé di
tutte le cose e i fenomeni non sono che le sue vesti e i suoi ornamenti.

Essi impararono che Quello è assoluto e trascendente, perciò eterno,
immutabile, indiminuibile e indivisibile.

E guardando allo sviluppo passato del pensiero, compresero che questa era
anche la meta alla quale li avrebbe condotti il puro ragionamento
intellettuale.
Poichè ciò che è nato nel tempo deve nascere e morire; ma l’Unità e la
Stabilità dell’universo sono eterne e devono perciò trascendere il Tempo.

Ciò che è nello Spazio deve crescere e diminuire, possedere parti e
relazioni, ma l’Unità e la Stabilità dell’Universo non sono diminuibili, non
sono aumentabili, sono indipendenti dalla modificazione delle proprie parti
e non toccate dal mutarsi delle loro relazioni, e devono perciò trascendere
lo Spazio; e se trascendono lo Spazio non possono possedere parti; poiché lo
spazio è la condivisione della divisibilità materiale; la divisibilità deve
perciò essere, come la morte, un’apparenza e non una realtà.

Infine ciò che è soggetto alla Casualità è necessariamente soggetto al
Cambiamento; ma l’Unità e la Stabilità dell’Universo sono immutabili,
identiche a ciò che furono negli eoni trascorsi e a ciò che saranno negli
eoni futuri e devono perciò trascendere la Casualità.

Questa fu dunque la prima realizzazione ottenuta attraverso lo Yoga,
nityonityanam, l’Eterno Uno nella moltitudine transitoria.

Allo stesso tempo essi compresero una verità interiore – una verità
sorprendente; compresero che il Sé trascendente e assoluto dell’Universo
costituiva anche il Sé degli esseri viventi; anche il Sé dell’uomo, l’essere
supremo tra quelli che abitano il piano materiale sulla terra.

Il Purusha, l’ Io conscio nell’uomo che aveva sconcertato i Sankhyas, si è
rivelato nella sua realtà ultima esattamente identico a Prakriti, la
sorgente apparentemente non conscia della realtà, la non-coscienza di
Prakriti, come molto altro, si è dimostrata un’apparenza, non una realtà,
perché dietro ogni forma inanimata una intelligenza conscia all’opera è,
agli occhi dello yogi, luminosamente autoevidente.

Questa fu dunque la seconda realizzazione ottenuta attraverso lo Yoga,
cetanascetananam, la Coscienza Una nella moltitudine delle Coscienze.

Infine alla base di queste due realizzazioni se ne trova una terza, la più
importante per la nostra umanità, cioè che il Sé trascendente in ogni uomo è
così completo perché esattamente identico al Sé trascendente dell’Universo;
perché il Trascendente è indivisibile e il senso dell’individualità separata
non è che una delle apparenze fondamentali dalle quali la manifestazione
dell’esistenza fenomenica perpetuamente dipende.

In questo modo l’Assoluto, che sarebbe altrimenti aldilà di ogni conoscenza,
diventa conoscibile; e l’uomo che conosce il suo intero Sé conosce l’intero
Universo.
Questa stupenda verità è per noi rinchiusa nelle due famose formule del
Vedanta, “so ham”, Egli ed io, e “aham brahma asmi”, io sono il Brahman,
l’Eterno.

Basata su queste quattro grandi verità, nytonityanam, cetanascetanam, so
ham, aham brahma asmi, come su quattro possenti pilastri la suprema
filosofia delle Upanishad ha eretto il suo fronte tra le più lontane stelle.

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