Consapevolezza: la via oltre la morte 4

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Consapevolezza: la via oltre la morte 4

(parte quarta)

(la meditazione secondo l’insegnamento del venerabile Ajahn Sumedho)

Consapevolezza:

– la via oltre la morte -la meditazione secondo l’insegnamento – del venerabile Ajahn Sumedho – La
consapevolezza è la via della non-morte – La distrazione è la via della morte – Chi è consapevole
non muore – Chi è distratto è come fosse già morto. – Dhammapada 21

© Associazione Santacittarama, 1999. Tutti i diritti sono riservarti. PUBBLICATO SOLTANTO PER
DISTRIBUZIONE GRATUITA. Titolo originale: Mindfulness: The Path to the Deathless (© Amaravati
Publications),

Traduzione di Letizia Baglioni

Se vi ritenete persone importanti e serie, le cose banali o futili vi sembreranno inaccettabili. Se
aspirate a essere buoni, a essere santi, sarete portati a escludere dalla coscienza gli stati
mentali negativi. Se desiderate essere persone amorevoli e generose, ogni forma di meschinità, di
invidia o di avarizia dovrete reprimerla o estrometterla dalla vostra mente.

Sicché, se c’è qualcosa che temete sopra ogni altra di poter diventare davvero nella vostra vita,
pensatela, guardatela. Confessatelo apertamente: “Voglio essere un tiranno; voglio essere uno
spacciatore di eroina; voglio essere un mafioso”; sia quel che sia. Non ci interessa più il
contenuto specifico, ma la semplice caratteristica di essere una condizione impermanente,
insoddisfacente, perché non ha nulla che potrà darvi una reale soddisfazione. Viene e va, ed è
non-io. 2.8 Gli impedimenti e la cessazione degli impedimenti

Praticando l’ascolto interiore, cominciamo a riconoscere il sussurro del senso di colpa, del rimorso
e del desiderio, dell’invidia e della paura, della brama e dell’avidità. A volte ascolterete cosa
dice la brama: “Vorrei, devo avere, devo avere, voglio, voglio!”. A volte non ha neppure un oggetto
preciso. Può esserci una brama senza oggetto, per cui le troviamo un oggetto. Il desiderio di
ottenere: “Voglio qualcosa, voglio qualcosa! Devo averlo, voglio…” Ascoltate la mente, forse lo
sentirete. Di solito riusciamo a trovare un oggetto per la nostra brama, per esempio il sesso,
oppure passiamo il tempo a fantasticare.

La brama può prendere la forma del cercare qualcosa da mangiare, o in cui immergersi completamente,
del diventare qualcosa, unirsi a qualcosa. La brama sta sempre di vedetta, sempre alla ricerca di un
oggetto. Può essere un oggetto gradevole permesso ai monaci, come una bella veste o una ciotola o un
cibo saporito. Notate la tendenza a volerlo, a toccarlo, cercare di procurarselo, averlo,
possederlo, appropriarsene, consumarlo. E’ la brama, una forza della natura che va riconosciuta; non
condannata pensando “sono un individuo spregevole perché desidero”, perché anche questo fa da
rinforzo all’io, vi pare? Come se dovessimo essere completamente esenti da brama, come se
esistessero esseri umani che non fanno esperienza del desiderio!

Sono condizioni naturali che dobbiamo riconoscere e notare; non per condannarle, ma per
comprenderle. Così cominciamo veramente a conoscere il movimento mentale della brama, dell’avidità,
del ricercare qualcosa – come pure del desiderio di farla finita con qualcosa. Anche di questo si
può essere testimoni, del desiderio di sbarazzarci di quello che abbiamo, di una situazione o anche
del dolore. “Voglio farla finita con questo dolore, con le mie debolezze, con il torpore, con la mia
irrequietezza, con la mia brama. Voglio liberarmi di tutto ciò che mi dà fastidio. Perché Dio ha
creato le zanzare? Voglio liberarmi dalle seccature”.

Il desiderio dei sensi è il primo degli impedimenti (nivarana). Il secondo è l’avversione; la mente
è ossessionata dal non volere, da irritazioni e risentimenti meschini, nonché dal desiderio di
eliminarli. Quindi questo è un ostacolo alla visione interiore, è un impedimento. Non sto dicendo
che bisogna eliminare l’impedimento – sarebbe avversione – ma che bisogna conoscerlo, conoscerne la
forza, comprenderlo per esperienza diretta. Allora si prende coscienza del desiderio di sbarazzarsi
di cose che sono dentro di sé, o attorno a sé, del desiderio di non esserci, di non essere vivi, di
non esistere più.

E’ per questo che ci piace dormire, no? Perché per un po’ ci consente di non esistere. Nella
coscienza caratteristica del sonno non esistiamo perché la sensazione stessa di essere vivi viene a
mancare. C’è un annullamento. E’ per questo che alcune persone dormono molto, perché vivere è troppo
doloroso per loro, troppo noioso, troppo sgradevole. Quando siamo depressi, dubbiosi, disperati,
cerchiamo scampo nel sonno, cerchiamo di annullare i nostri problemi, estromettendoli dalla
coscienza.

Il terzo impedimento è rappresentato da stati come sonnolenza, apatia, ottundimento, indolenza,
torpore fisico e mentale, ai quali tendiamo a reagire con avversione. Ma è sempre qualcosa che può
essere compreso. L’opacità può essere conosciuta, la pesantezza fisica e mentale, il movimento
lento, opaco. Osservate l’avversione per questi stati, il desiderio di sbarazzarvene. Osservate la
sensazione di opacità nel corpo e nella mente. Anche la conoscenza del torpore è mutevole, è
insoddisfacente, impersonale.

L’irrequietezza è l’opposto del torpore; è il quarto impedimento. Non si è affatto opachi, né
sonnolenti, ma viceversa agitati, nervosi, ansiosi, tesi. Anche qui può non esserci un oggetto
specifico. Diversamente dalla sonnolenza, l’irrequietezza è uno stato più ossessivo. Si vorrebbe
essere attivi, correre, fare questo, fare quello, parlare, andare in giro, agitarsi. E se dovete
stare seduti immobili per un po’ quando vi sentite irrequieti vi sentite in trappola, chiusi in una
gabbia; non pensate ad altro che a saltare, correre in giro, darvi da fare. Anche di questo si può
essere consapevoli, specialmente quando si è contenuti da una forma che non ci consente di seguire
l’irrequietezza. L’abito che indossano i bhikkhu non è particolarmente adatto per arrampicarsi sugli
alberi e penzolare dai rami. Non potendo agire questa tendenza salterina della mente siamo costretti
a osservarla.

Il quinto impedimento è il dubbio. A volte i nostri dubbi ci sembrano importantissimi, e ci piace
dar loro parecchia attenzione. Siamo facilmente ingannati dalla natura del dubbio, perché sembra
molto reale: “Certi dubbi sono futili, è vero, ma questo è un Dubbio Importante. Devo sapere la
risposta. Devo essere sicuro. Devo saperlo assolutamente: meglio fare questo oppure quest’altro? Sto
facendo bene? Dovrei andarmene o restare un altro po’? Sto sprecando il mio tempo? Ho sprecato la
mia vita? Il Buddhismo è la via giusta oppure no? Forse non è la religione giusta!”. Questo è il
dubbio.

Si può passare tutta la vita a chiedersi se sia meglio fare questo o quello, ma una cosa sola si può
sapere: che il dubbio è una condizione della mente. A volte prende forme sottili e ingannatrici.
Assumendo la posizione del ‘conoscitore’, conosciamo il dubbio in quanto tale. Importante o futile
che sia, è semplicemente dubbio, tutto qui. “Devo restare qui o andarmene altrove?”; è un dubbio.
“Devo fare il bucato oggi o domani?”; è un dubbio. Non importantissimo, ma poi ci sono quelli
importanti. “Sono già un sotapanna? [uno che ha raggiunto il primo livello dell’illuminazione]. Ma
cos’è in definitiva un sotapanna? Ajahn Sumedho è un arahat, un illuminato? Esistono ancora arahant
al giorno d’oggi?”. Poi i seguaci di altre religioni vengono a dirci che la nostra è sbagliata e la
loro è quella giusta. “Forse hanno ragione! Forse siamo in errore”. Ciò che possiamo sapere è che
c’è il dubbio. In questo modo siamo il conoscere, conoscere ciò che si può conoscere, sapere che non
sappiamo. Anche quando ignorate qualcosa, se siete consapevoli di non sapere, quella consapevolezza
è conoscenza.

Sicché, essere il conoscere significa questo, conoscere ciò che si può conoscere. I cinque
impedimenti sono i vostri maestri, perché non sono i guru esaltanti e radiosi che si vedono sui
libri. Possono essere piuttosto volgari, meschini, sciocchi, irritanti e ossessionanti. E ci
incalzano, ci punzecchiano, ci riducono a mal partito, finché non gli diamo l’attenzione e la
comprensione dovuta, finché non smettono di essere problemi. Ecco perché bisogna essere molto
pazienti; dobbiamo avere tutta la pazienza del mondo, e l’umiltà di imparare dai nostri cinque
maestri.

E che cosa impariamo? Che non sono altro che condizioni della mente, che sorgono e passano, che sono
insoddisfacenti, impersonali. A volte si ricevono messaggi importanti nella vita. Tendiamo a dare
credito a questi messaggi, ma ciò che possiamo sapere è che sono condizioni mutevoli: e se abbiamo
la pazienza di tollerarle fino in fondo le cose cambiano automaticamente, per conto loro, e noi
abbiamo l’apertura e la chiarezza mentale per agire spontaneamente invece di reagire alle
condizioni. Grazie alla nuda attenzione, alla consapevolezza, le cose fanno il loro corso, non c’
bisogno di sbarazzarsene, perché tutto ciò che ha un principio, finisce. Non c’è nulla da eliminare,
bisogna solo essere pazienti e lasciare che tutto faccia il suo corso naturale verso la cessazione.

Quando siete pazienti, lasciando che le cose cessino, cominciate a conoscere la cessazione – il
silenzio, il vuoto, la chiarezza; la mente è limpida, quieta. E’ ancora vibrante, non cade
nell’oblio, non è repressa o addormentata, e si può udire il silenzio della mente.

Consentire la cessazione significa essere molto gentili, molto gentili e pazienti, umili, non
schierarsi dalla parte di nulla – bene, male, piacere o dolore. L’accettazione gentile permette alle
cose di cambiare secondo la propria natura, senza interferenze. Allora impariamo a smettere di
cercare di assorbirci negli oggetti dei sensi. Troviamo la pace nel vuoto della mente, nella sua
chiarezza, nel suo silenzio.

2.9 Vuoto e forma

Quando la mente è tranquilla, ascoltate, sentirete una specie di ronzio – il cosiddetto ‘suono del
silenzio’. Che cos’è? E’ un suono interno all’orecchio, è un suono esterno? E’ prodotto, dalla
mente, dal sistema nervoso o cosa? Sia quel che sia, è sempre lì, e si può usare in meditazione in
quanto oggetto a cui rivolgere l’attenzione.

Prendendo atto che tutto ciò che sorge passa, cominciamo a osservare ciò che non sorge e non passa
ed è sempre presente. Se cominciate a pensare a quel suono, a dargli un nome, a pretendere di
ricavarne qualcosa, è chiaro che lo state usando nel modo sbagliato. E’ solo un punto di riferimento
a cui rivolgersi quando si giunge ai confini della mente, ciò che alla nostra osservazione appare
come l’estremo limite della mente. Quindi da quella posizione si può cominciare a osservare. Potete
pensare e contemporaneamente ascoltare il suono (nel caso cioè in cui pensiate deliberatamente); se
invece vi perdete nei pensieri lo dimenticate e non lo udite più.

Quindi, se vi perdete nei pensieri, non appena ve ne accorgete riportate l’attenzione a quel suono e
ascoltatelo a lungo. Laddove prima eravate trascinati via dalle emozioni o da preoccupazioni o dagli
impedimenti, ora potete praticare contemplando con gentilezza, con molta pazienza, quella
particolare condizione della mente in quanto anicca, dukkha, anatta, e poi lasciarla andare. E’ un
lasciar andare dolce, sottile, non un rifiuto violento delle condizioni. Quindi ciò che più conta è
l’atteggiamento, la retta comprensione. Non aspettatevi nulla dal suono del silenzio. C’è chi si
esalta, pensando di aver raggiunto o scoperto chissà che, ma anche questa è di per sé una condizione
creata attorno al silenzio. E’ una pratica molto serena, non emozionante; usatela con abilità e
dolcezza per lasciar andare, piuttosto che per attaccarvi all’opinione di aver raggiunto qualcosa!
Se c’è un ostacolo alla meditazione, è proprio l’impressione di averne tratto un qualche vantaggio!

Ora, riflettete sulle condizioni del corpo e della mente e concentratevi su di esse. Potete passare
in rassegna il corpo e riconoscere le sensazioni, ad esempio le vibrazioni nelle mani o nei piedi,
oppure concentrarvi su un punto qualunque del corpo. Percepite la sensazione della lingua in bocca
che tocca il palato, o il contatto fra il labbro superiore e quello inferiore, oppure portate alla
coscienza la sensazione di umidità della bocca, o la pressione degli indumenti sul corpo – tutte
quelle sensazioni sottili a cui in genere non facciamo caso. Contemplando queste sottili sensazioni
fisiche, concentratevi su di esse, il corpo si rilasserà. Al corpo umano piace ricevere attenzione.

E’ contento di essere l’oggetto di una concentrazione gentile e tranquilla, però se siete così
sconsiderati da odiarlo può darvi molto filo da torcere. Ricordate che dovete vivere in questa
struttura per il resto della vostra vita. Perciò fareste meglio a imparare a conviverci con un
atteggiamento positivo. Qualcuno dirà: “Ma il corpo non è importante, è solo una cosa repellente,
invecchia, si ammala e muore. Il corpo non conta, l’importante è la mente”. E un atteggiamento
piuttosto diffuso fra i buddhisti!

Ma in realtà ci vuole pazienza per concentrarsi sul corpo motivati da altro che non da vanità! La
vanità è abuso del corpo umano, ma toccarlo con la consapevolezza è sano.

Non serve a rafforzare il senso dell’io, è solo un’espressione di benevolenza nei confronti di un
corpo vivente – che ad ogni modo non si identifica con voi. Dunque adesso la meditazione si incentra
sui cinque khanda e sul vuoto della mente. [I cinque khanda sono: rupa, (forma, il corpo), vedana
(sensazioni), sanna (percezione), sankhara (formazioni mentali), vinnana (coscienza sensoriale). Le
cinque categorie che secondo il Buddha costituiscono l’essere umano] Investigateli entrambi fino a
comprendere pienamente che tutto ciò che sorge passa ed è non-io. Allora non ci si afferra più a
nulla come se fosse il sé, e ci si libera dal desiderio di riconoscersi in una certa qualità o in
una sostanza. Questa è la liberazione dalla nascita e dalla morte.

La via della saggezza non consiste nel coltivare la concentrazione per accedere a stati di trance,
esaltarsi ed estraniarsi dalla realtà. Bisogna essere molto onesti circa le proprie intenzioni.
Meditiamo per evadere dalla realtà? Stiamo cercando di accedere a uno stato dove tutti i pensieri
vengono annullati? Questa pratica di saggezza è un metodo non violento in cui si lasciano emergere
anche i pensieri più orribili e li si lascia andare.

Avete una via di sfogo, una specie di valvola di sicurezza da cui far uscire il vapore quando la
pressione è troppa. Normalmente, quando si sogna molto, il vapore si scarica durante il sonno. Ma
questo non alimenta la saggezza, vi pare? E’ una vita da animali inconsapevoli: esercitare certe
attività abituali, esaurire le energie, crollare nel sonno, alzarsi, rimettersi in attività e
crollare di nuovo. Invece questo sentiero implica un’approfondita esplorazione e una comprensione
dei limiti della condizione mortale del corpo e della mente. State sviluppando la capacità di
distogliervi dalla realtà condizionata e affrancare la vostra identità dal ciò che muore.

State dissolvendo l’illusione di essere un’entità mortale – ma non vi dico neppure che siete
creature immortali, altrimenti comincereste ad aggrapparvi a questo! “La mia vera natura è la verità
ultima, l’assoluto. Io e il Signore siamo una cosa sola. La mia vera natura è l’Immortale, beata
eternità senza tempo”. Ma avrete notato che il Buddha si guardò bene dall’usare un linguaggio
poetico o ispirato. Non perché sia sbagliato, ma perché suscita attaccamento. Perché partiremmo alla
conquista dell’identità con l’assoluto, dell’unione con Dio, della beatitudine eterna, della
dimensione immortale e via dicendo. Cose che a dirle ci mandano in estasi. Però è molto più sano
osservare la nostra tendenza a voler definire o concepire l’inconcepibile, a volerlo comunicare o
descrivere agli altri solo per sentire di aver raggiunto qualcosa.

E’ molto più importante osservarla, che seguirla. E d’altro canto non voglio negare che una
realizzazione ci sia; solo siate tanto accorti e vigili da non attaccarvici, perché se lo fate ne
ricaverete solo nuova disperazione. Se poi vi capitasse di farvi prendere la mano, appena ve ne
accorgete, fermatevi. Non è certo il caso di sentirsi in colpa o farne una tragedia; basta fermarsi
lì. Calmatevi, lasciate andare, lasciate perdere la faccenda. E’ tipico dei cristiani carismatici
ardere di fervore religioso. Ed è veramente notevole. Devo ammettere che fa una certa impressione
vedere persone così entusiaste. Però in termini buddhisti questo stato si definisce sanna vipallasa,
la ‘pazzia del meditante’. Quando un insegnante esperto vi vede in quello stato vi spedisce in una
capanna nella foresta con l’ordine di non avvicinare nessuno!

Una volta ci sono passato anch’io, quando ero a Nong Khai un anno prima di conoscere Ajahn Chah. Me
ne stavo seduto nella mia capanna convinto di aver raggiunto l’illuminazione. Sapevo tutto, capivo
tutto. Ero al settimo cielo… peccato che non avessi nessuno con cui parlare. Non parlavo il
tailandese perciò non potevo importunare i monaci locali. Ma un giorno passò di lì il console
britannico di Vientiane e qualcuno lo portò alla mia capanna… quella volta lo subissai davvero il
poveretto!

Se ne stava lì con l’aria attonita, ed essendo inglese era anche molto, molto, molto educato, ogni
volta che faceva il gesto di alzarsi e andarsene lo facevo rimettere seduto. Non potevo fermarmi,
c’era questa valanga di energia tipo cascate del Niagara che veniva fuori e non c’era verso di
arginarla. Alla fine il console riuscì non so come a guadagnare l’uscita. Da allora, chissà perché,
non l’ho più rivisto…

Sicché, quando passiamo per esperienze del genere, è importante rendersene conto.

Se uno sa di che si tratta, non c’è pericolo. Siate pazienti, non datele credito e non vi ci
adagiate. Avrete notato che i monaci buddhisti non se ne vanno in giro a raccontare quale ‘livello
di illuminazione’ hanno raggiunto – semplicemente, non c’è niente da raccontare. Quando ci chiedono
di insegnare, non parliamo della nostra illuminazione, ma delle Quattro Nobili Verità in quanto
veicolo di illuminazione per loro. Al giorno d’oggi c’è una quantità di personaggi che dicono di
essere illuminati, Buddha Maitreya o un qualche avatar, e tutti hanno schiere di seguaci. La gente è
disposta a crederci senza troppa difficoltà! Ma il Buddha sottolineava l’importanza di riconoscere
le cose così come sono, invece di credere a quello che ci raccontano gli altri. La nostra è una via
di saggezza, nella quale esploriamo, indaghiamo, i limiti della mente. Constatatelo di persona:
sabbe sankhara anicca, tutti i fenomeni condizionati sono impermanenti; sabbe dhamma anatta, tutte
le cose sono non-io.

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