LA MEMORIA DELL’ACQUA E OMEOPATIA

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LA MEMORIA DELL’ACQUA E OMEOPATIA

Tratto da Libro di Tiziano Terzani “Un altro giro di Giostra”

La memoria, spesso ce lo dimentichiamo, ci fa strani scherzi. Si ricorda e si dimentica quello che
si vuole. E lo fa apparentemente senza alcuna ragione: almeno non chiara a noi che spesso crediamo
di essere la memoria, o che quella ci appartenga, o che almeno ne siamo i controllori.

I vecchi si arrabbiano, a volte si disperano, quando non ricordano il nome di una persona o la
parola giusta per un oggetto e prendono questo come un segno del loro decadere, un segno di qualcosa
che improvvisamente non va più. Ma, a pensarci bene, è sempre così: fin da piccoli la memoria si fa
i fatti suoi, mettendo da parte ciò che le pare e tirandolo fuori, magari distorto e manipolato,
quando noi, per una ragione o un’altra, andiamo a frugare nei suoi recessi.

Dopo sessant’anni di lavoro, la mia memoria nella casella “omeo-patia” s’era lasciata poco o nulla:
la nozione di fondo secondo cui un raffreddore si cura con il freddo, e due strane storie
immagazzinate chissà dove e chissà quando.

Ecco la prima: una ragazza soffre di depressione e dice di non sentirsi a suo agio in mezzo alla
gente; vuole stare da sola e in posti alti. Spesso scappa sul tetto di casa e sogna di “volare via”.
I medici non sanno cosa farci. Viene portata da un omeopata e quello, dopo averla fatta parlare,
riconosce in quel “volare via” il sintomo di una natura che non riesce a esprimersi: la natura
dell’aquila. Dallo zoo della città si fa dare una goccia di sangue d’aquila; la diluisce in un litro
d’acqua, scuote e riscuote la bottiglia; diluisce una goccia di quella mistura in un litro d’acqua,
scuote e riscuote; diluisce di nuovo una sola goccia in altra acqua, scuote, riscuote, e alla fine
prescrive alla ragazza di bere ogni giorno alcune gocce di quella diluizione che del sangue
dell’aquila non ha praticamente più nulla, tranne forse… la memoria. Nel giro di qualche settimana
la ragazza sta bene.

La seconda storia – almeno come me la ricordavo – era quella di un ragazzino che in un piccolo paese
di campagna viene punto da un’ape. La faccia gli si gonfia terribilmente e lui sta male. I genitori
telefonano all’omeopata e quello dice loro di procurarsi immediatamente una sostanza chiamata Apis
200; la mettano in una bottiglia d’acqua, scuotano il tutto e diano al ragazzo alcune gocce di quel
liquido. Impossibile. La farmacia è lontana e il tempo stringe: il ragazzino sta sempre peggio. Il
medico per telefono suggerisce allora di prendere un pezzo di carta, di scriverci sopra Apis 200, di
mettere quella carta nella bottiglia, di scuoterla bene e far bere l’acqua al ragazzo. La pinzatura,
lentamente, si sgonfia e il ragazzo si rimette.

Quando l’amico Ludovico mi disse di aver trovato un bravissimo medico che poteva aiutarci col nostro
malanno, io di omeopatia sapevo poco o nulla, ma quelle due storie mi avevano in qualche modo
colpito – per questo la memoria le aveva messe da parte – e l’idea di andare da un omeopata dopo
tutti i mesi passati a New York mi parve ottima. Gli aggiustatori, dopo la chemioterapia e
l’operazione, mi avevano dato due settimane di congedo, e io, con una borsa con le rotelle per non
dover sollevare alcun peso, e la pancia ancora tutta impunturata, muovendomi sempre attento a chi mi
veniva incontro per paura che solo mi sfiorasse, avevo preso un aereo ed ero arrivato a Firenze.

Il medico stava lontano, in provincia di Modena; riceveva solo su appuntamento e il suo calendario
era pieno per i prossimi due mesi. Gli telefonai e già a distanza mi piacque. Potevo venire nel
tardo pomeriggio della vigilia di Natale? Certo, e mi misi in viaggio.

Usciti dall’autostrada prendemmo una provinciale, poi una strada secondaria, poi una vicinale che
sembrava portare nel limbo. Una nebbia fittissima si era posata sulla pianura, ma le indicazioni che
il medico mi aveva fatto arrivare per fax erano precise e non ci perdemmo. Ancor prima di
incontrarlo, storpiando un po’ il suo nome, che in italiano suonava comunque strano, Mangialavori,
l’avevo già ribattezzato Mangiafuoco. Almeno fisicamente era tutt’altro: piccolo, di pelo chiaro e
con gli occhi verdi. Stava in una vecchia cascina rimessa a nuovo fra le tante villette, senza né
stile né pretesa, sparse in una landa piatta e desolata. Tutto sembrava in letargo: la terra, le
piante, gli alberi da frutto. Anche gli uomini, perché lungo la strada non ne vidi uno.

Mangiafuoco mi ricevette in uno studio piccolo. C’era – certo per sua scelta – pochissima luce, ma
un buon profumo nell’aria. Al muro notai una tanka tibetano di nessuna qualità, sul suo tavolo una
bella foglia di ginkgo, semplicemente appoggiata li, come fosse un ornamento. Lui fu caloroso e
attento. Mi chiese di raccontargli di me: chi ero, cosa avevo fatto nella vita, cosa volevo ancora
fare, come mi vedevo, cosa sognavo. Mi sentivo a mio agio e parlai senza remore. Solo dopo un po’ mi
accorsi che pur tenendo sempre gli occhi su di me, con le mani sotto il tavolo, Mangiafuoco prendeva
appunti sulla tastiera di un computer discretamente nascosto. Del mio ultimo malanno volle sapere
poco. Le malattie che lo interessavano erano quelle prima, dell’infanzia e specialmente le… mie
emorroidi. Di quelle volle che gli raccontassi tutto quello che potevo ricordare.

Poi mi fece spogliare, accomodare su un lettino e mi visitò da capo a piedi, come facevano i vecchi
medici, chiedendomi di ogni punto che toccava se faceva male. Mi risparmiò la pancia. Tornati alla
scrivania, io davanti e lui dietro, mi fece una domanda che mi parve molto sottile.

“Cosa si aspettava venendo qui?”

Mi fu facile essere sincero. Non mi aspettavo che mi curasse il cancro.

Da lui mi aspettavo invece che mi aiutasse a mettere ordine in una cosa che mi stava ugualmente a
cuore: le mie emozioni. Il mondo esterno influiva eccessivamente sui miei umori. Ero irritabile,
instabile, soggetto a troppi alti e bassi. Gli dissi che mi sembrava di guardare il mondo attraverso
un caleidoscopio: una piccola mossa e tutto appariva verde; ancora un leggero tocco e tutto era
rosso, poi nero e poi oro. Volevo fermare il caleidoscopio, così che tutto restasse di un colore.
Volevo mettere fine agli alti e bassi, che tutto fosse pari. Volevo poter sentire Jingle Bell senza
dover scappare dal negozio, gli dissi.

Non pretese neppure lontanamente di “curare il cancro”. Il mio, secondo lui, era il risultato di un
qualche squilibrio nel mio sistema. Lui avrebbe cercato di aiutare “la forza vitale” che ognuno di
noi ha dentro – e io a suo parere ne avevo tanta – a ritrovare quell’equilibrio. Notai che a parlare
del cancro ed altro usava mal volentieri la parola “malattia”.

“certo. Malattia fa pensare al male e non è giusto; la parola inglese disease, disagio, è molto più
adatta”, disse. “ Il corpo ha un disagio, i sintomi di quel disagio ci segnalano che il corpo è
impegnato in uno sforzo per integrarlo. Il nostro compito: il mio e il suo” tenne a sottolineare, “è
di sostenere il corpo in quello sforzo.”

Lo seguivo. Ci capivamo. Non c’erano fraintendimenti. E io, sempre un po’ curioso, lo feci parlare
di sé. Da giovane aveva fatto molta musica. Poi, seguendo una tradizione di famiglia, s’era messo a
studiare medicina, pensando di fare il chirurgo per bambini. Ma la sua vera passione era
l’antropologia. Durante un viaggio in America Latina s’era perso, o meglio, s’era trovato. In Perù,
fra gli Indios, aveva incontrato uno sciamano, l’aveva visto curare la gente e –“come succede ai
santi””, dissi io – aveva sentito “la chiamata”. Quella che doveva essere una breve vacanza diventò
un lungo soggiorno. Lo sciamano lo prese con sé e lo iniziò alla sua arte. Tornato in Europa, non
gli era più possibile fare il medico normale. L’omeopatia fu la risposta. “è una grande medicina”
disse, “anche se la cultura dominante non la considera tale. Ma i modi con cui la cultura dominante
si esprime non sono necessariamente i migliori, specie quando si tratta dell’uomo che, grazie a Dio,
non è sottoposto a leggi esatte… ammesso che queste esistano.”

Ero d’accordo. Quel suo punto di vista mi interessava e lui lo sentiva. “I nostri detrattori dicono
che l’omeopatia è magia. E allora?” continuò. “La magia è una cosa molto seria. Spesso noi chiamiamo
magia quel che ancora non capiamo, ma la magia è molto di più. È qualcosa che sta sulla stessa linea
curva su cui si trovano la religione e la scienza”.

Una volta mangiafuoco aveva chiesto al suo sciamano indio che cosa fosse per lui la magia. “Un
atteggiamento della mente”, gli aveva risposto.

“Per me”, disse Mangiafuoco, “la magia è un modo diverso di interpretare le cose; un modo molto più
interessante e più creativo di quelli soliti perché combina l’arte al piacere di giocare con la
materia. La magia è qualcosa che ci trasforma, che ci dà la capacità di aiutare altri a trasformare
se stessi.” Si fermò ed aggiunse: “Lei fa la stessa cosa scrivendo. Magari con una sola frase dei
suoi libri lei ha aiutato qualcuno a migliorare un po’ la propria vita. Non è magia questa? Solo con
una frase! Basta farlo di proposito, lasciando che le energie della natura scorrano liberamente…”

Dopo tutti i mesi di New York e la logica di me-corpo-macchina-da-riparare, quella era musica per i
miei orecchi. Era una voce che veniva da un altro mondo. E quel suono mi allargava il cuore,
alleggeriva il peso della mia materia. “Si, noi omeopati usiamo delle goccioline per curare la
gente”, continuò. “Sì. È una questione di poche goccioline. Ma se un saggio ci dice quello che ci
serve, è anche una questione di poche parole. E poi, pensi, una gocciolina di sperma crea una vita,
bella o brutta che sia, ma una vita!”

Il problema, mi spiegò, è di far ritrovare alla persona che si ritiene malata il suo equilibrio. “Il
suo equilibrio”, insistette, “e non quello che la cultura dominante definisce come equilibrio.
Spesso si tratta di eliminare la sofferenza del paziente e non necessariamente di curare tutto a
tutti i costi. Se avessimo sempre curato tutto non avremmo avuto l’arte”, disse.

L’omeopatia cerca di identificare in ciascun individuo lo stimolo, la spinta che metta in moto il
naturale ristabilirsi dell’equilibrio. Questa è la funzione delle goccioline. Per questo non vengono
chiamate “medicine” ma “rimedi”. Durante la nostra lunga chiacchierata Mangiafuoco non disse nulla
contro la medicina ufficiale, allopatica; non criticò la mia scelta di andare a New York; anzi,
siccome avevo cominciato a curarmi là, che andassi fino in fondo. Lui avrebbe cercato di aiutarmi a
limitare i danni che quel tipo di terapia, “curandomi”, faceva al mio corpo.

Salutandolo, dissi che mi ritenevo fortunato: da paziente mi pareva d’aver trovato il medico giusto.
E lui, divertito, mi rispose citando un famosa collega del passato: “ Anche il medico è fortunato se
trova il paziente giusto”.

Parlammo ancora un po’ dell’importantissimo rapporto tra paziente e medico. Eravamo d’accordo che
non poteva essere paternalistico, del tipo salvato e salvatore; doveva essere un rapporto di
collaborazione. Mangiafuoco si rese conto che non avevo pregiudizi contro la sua “magia”, che la sua
professione mi interessava e disse che presto sarebbe andato a Boston a tenere un seminario sui
rimedi marini in cui si era specializzato. Se volevo potevo parteciparvi.

S’era fatto tardi. Fuori era bui pesto e la nebbia aumentava il mio senso di disorientamento e
l’impressione di essere finito, davvero per magia, in un posto fuori dal mondo. Fortunatamente
Mangiafuoco aveva telefonato al farmacista del paese perché mi aspettasse per darmi il rimedio. E
già l’andare, quasi alla cieca, in cerca di quella croce illuminata al neon per ritirare una
boccettina marrone col suo contagocce fu un’avventura.

Religiosamente scuotevo e contavo, presi la mia dose quotidiana di rimedio. Feci grande attenzione
al mio stato d’animo per vedere se i “sintomi” aumentavano o no. Un lavoro difficile: come si fa a
dire se un dolore aumenta o diminuisce? Se ci si sente più o meno irascibili? Più o meno sensibili a
una canzoncina o alla stupidità di un annuncio pubblicitario? Ma forse il solo ascoltarmi, al fare
attenzione ad ogni umore contribuì al mutamento. Passarono alcuni giorni e i miei sogni si fecero
più frequenti del solito. Molti avevano per tema la mia infanzia: segno, aveva detto Mangiafuoco,
che il rimedio era giusto. Poi, lentamente, ma in maniera chiara, mi sentii tornare “in pari”: stavo
benissimo, non ero più irascibile e mi scoprii a ridere sempre più frequentemente, sempre più con
gioia. Proprio quello che volevo. Mangiafuoco aveva fatto magnificamente il suo lavoro. E io il mio,
con lui. I suoi riferimenti alla magia, alla “forza vitale” facevano echeggiare pensieri che mi
erano familiari. L’idea che io dovevo curare me stesso, piuttosto che aspettare qualcuno che curasse
il mio malanno, mi era congeniale. Sentivo forte che al fondo di questa questione delle cose c’era
una verità di cui la logica degli aggiustatori di New York non teneva conto. Eppure, una verità che
non poteva essere ignorata.

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