La Chiave Segreta del Suono Armonico

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La Chiave Segreta del Suono Armonico

“Tecniche vocali di canto armonico”

(di Roberto Laneri)

(L’universo non è che una conchiglia vuota nella quale la tua mente fa capriole all’infinito)

– Che cos’è il canto armonico

II canto armonico consiste in un corpus di tecniche vocali che rendono percepibili all’ascolto gli armonici di un suono fondamentale, che di solito, ma non necessaria­mente, viene tenuto fisso. A volte, come nelle varie forme di xöömij (canto mongolo), gli armonici si percepiscono come una melodia acuta e leggera, tuttavia assai pene­trante. Nel canto tantrico tibetano quello che giunge
all’o­recchio è un suono complesso, ricco di componenti che nel suono della voce lasciano sentire echi degli strumenti usati nei rituali: piatti, cembali, e quelle specie di tozzi oboi e di lunghe trombe che caratterizzano il paesaggio sonoro del Tibet.

Mi rendo conto che la descrizione precedente evidenzia i ben noti limiti della descrizione stessa, lo stesso ricordo di essermi imbattuto in una descrizione dello xöömij da parte di un antropologo russo risalente al 1931 e di averla compresa soltanto in modo assai parziale. Mai forse come per la musica e il suono le descrizioni sono inadeguate, e conta piuttosto l’esperienza sonora. Coloro che questa esperienza hanno fatto, sia come ascoltatori sia come praticanti, sono invece concordi nel ritenerla indimenticabile e fondamentale. Per cui sicuramente l’ascolto di una delle tante buone registrazioni in commercio (di musica etnica come di musicisti contemporanei) potrebbe essere di grande aiuto alla comprensione di quest’artico­lo, oltre che naturalmente provare a praticare spontanea­mente seguendo le indicazioni date. Cosa ancora miglio­re, seguire un seminario o un workshop sull’argomento. Il canto armonico è immediatamente
accessibile tramite le vocali. Queste infatti danno la possibilità di tenere il suono a lungo, a differenza delle consonanti, che anche per questa ragione nelle upanishad dell’India sono identi­ficate con il suono della morte, eccetto per un ristretto gruppo di semiconsonanti, i cui suoni non casualmente chiudono i bija mantra o mantra seminali come aum o hum. Inoltre le vocali sono l’illustrazione vivente del tim­bro, i cui termini equivalenti anglo-sassoni sono, non
dimentichiamolo, tone-color e Klangfarb («colore del suono»), tanto è vero che si parla correntemente di vocali «aperte/chiuse»,
«scure/chiare». La pratica di meditazio­ne sonora detta «pulizia dei chakra» consiste nel cantare le vocali in un ordine che è anche timbrico-frequenziale, contemporaneamente visualizzandole e
lasciandole risuonare nei plessi psicofisici loro corrispondenti. Tra i vari benefici della pratica, anche quello di fare canto armonico senza saperlo, come il signor Jourdain di Molière che a sua insaputa parlava in prosa.

Vi sono poi le tecniche vere e proprie, ognuna delle quali in varia misura e con modalità diverse lascia intendere sonorità che dopo migliaia di anni ancora hanno il potere di catturare la nostra attenzione e di aiutarci ad entrare nella modalità di coscienza detta, se proprio bisogna dirlo, «cessazione del dialogo mentale»,
l’«arresto» o se si preferisce il «controllo» delle modificazioni della mente (Patañjali: Yogasutra). Nel caso del canto armonico ciò è reso possibile dalla struttura stessa dei suoni emessi. Vediamo come.

– Alcune conseguenze del canto armonico

In primo luogo la percezione di emettere contemporanea­mente due o più suoni. In realtà si tratta dello stesso, unico suono che si frammenta nelle sue componenti, ma il risultato è comunque un temporaneo sovraccarico (overload) del sistema nervoso. Ancora una volta l’effetto è descritto in testi di antica sapienza come il
Vijñanabhairava Tantra: il «suono ininterrotto di una cascata» sotto la quale ci si può bagnare, secondo la parafrasi poetica di Paul Reps, è quello che oggi chiame­remmo «rumore bianco» (più esattamente «azzurro» o «rosa») e che, secondo la sua definizione di «insieme teoricamente infinito di tutte le frequenza possibili» va a chiudere tutte le vie possibili di distrazione e finalmente del pensiero stesso.

In secondo luogo, i suoni armonici sono per definizione onde sinusoidali pure. Ebbene, la sinusoide potrebbe definirsi come la componente più elementare del suono, nel senso che forme d’onda più complesse sono comun­que riconducibili a sinusoidi di diversa frequenza e ampiezza: secondo la legge di Ohm qualsiasi suono complesso «può essere scomposto in una somma di semplici oscillazioni periodiche, a ciascuna delle quali corrisponde un suono semplice, percepibile dall’orecchio e di frequenza determinata dal periodo della pressione dell’aria corrispondente» (1).

Oppure, secondo il teorema di Fourier: «qualsiasi moto vibratorio dell’aria che entra nell’orecchio, corrispondente ad un suono musicale, può essere sempre descritto, e soltanto in un modo per ciascun singolo caso, come la somma di un numero di semplici oscillazioni periodiche corrispondenti alle sue parziali» (2).

È proprio la semplicità delle loro forme d’onda a conferire ai suoni armonici quel «colore speciale, dolce, quasi ete­reo e trasparente, di una certa fissità trasognata» (CaseIla-Mortari), tanto sfruttato dai compositori del ‘900, da Bartok, Schoenberg, Strawinsky, fino a Sciarrino. Abbiamo visto come i suoni possano affascinare per la loro complessità (rumore bianco). All’altro estremo, i suoni possono affascinare per la loro semplicità, quando questa venga percepita come strutturale e come porta d’accesso ad un’altra dimensione. In altre parole, ascoltare suoni armonici è come entrare nel corrispondente sonoro del mondo subatomico, con la relativa telescopizzazione della percezione. Non a caso molti praticanti riportano la sensazione di osservare i suoni al microscopio. Un’altra osservazione diffusa è l’isomorfismo tra la serie degli armonici e l’arcobaleno, dovuta al carattere di matrice comune a questi due fenomeni naturali. Alcuni si riferiscono al canto armonico come alla «voce dell’arco­baleno». Mentre l’arcobaleno è per così dire sotto gli occhi di tutti, altrettanto non si può dire della serie degli armonici, che essendo di natura acustica deve essere decodificata, pur essendo altrettanto omnipervasiva: è soltanto in condizioni di laboratorio, come in una camera anecoica o programmando un generatore di suoni in sin­tesi additiva o FM, che si danno suoni senza armonici.

In terzo luogo chi inizia la pratica del canto armonico non tarda ad accorgersi che, tenendo la voce ferma a mo’ di pedale, i suoni armonici percepiti «al di sopra» della fon­damentale (v. l’inglese overtones e il tedesco Obertonen) non sono casuali, ma si dispongono secondo una griglia di intervalli ricorrenti che non è possibile, anche volendo, alterare: se è vero che le sole melodie possibili toccano solamente le frequenze comprese nella serie armonica, è anche vero che, comunque, col canto armonico non è possibile stonare! La seguente storia sufi si riferisce a questa esperienza:

C’era una volta un uomo che viveva in un piccolo villaggio
dell’Armenia, commerciava in tappeti come tutti gli altri abitanti del villaggio, ed aveva una certa reputazione locale di saggezza. Conduceva vita molto ritirata e viveva solo, finché a un certo punto decise di prendere moglie e sposò una ragazza di un villaggio vicino, di parecchi anni più giovane. La loro vita scorreva tranquilla: ogni sera l’uomo tornava dalla sua bot­tega, e mentre la moglie preparava la cena faceva un po’ di musica. Suonava uno strumento ad arco armeno simile alla nostra viola, e mai per più di una mezz’ora.

La moglie ascoltava in silenzio, sorvegliando la zuppa o l’arrosto. A dire il vero le sembrò presto che in quella musica ci fosse qualcosa di stra­no, e voleva chiedere che cosa fosse, ma a quel tempo le donne non facevano domande indiscrete ai loro mariti. Una sera capì improvvisa­mente cosa stava succedendo: suo marito suonava una nota sola, sem­pre la stessa! Avrebbe voluto chiedere qualche cosa, ma non ne aveva il coraggio.

Così passavano gli anni, finché, dopo diciannove anni di matrimonio, non poté più trattenersi e parlò così: «Perdona la mia impertinenza, caro marito, ma è da tempo che vorrei rivolgerti una domanda. Ho sen­tito altre persone suonare il tuo strumento, ed anche altri strumenti. È vero che a volte suonano note molto lunghe, ma non ho mai sentito nessuno suonare sempre la stessa nota, senza cambiare mai. Che modo di suonare è dunque questo?».

L’uomo la guardò a lungo, quasi incredulo, poi sospirando e scuotendo la testa rispose: «O donna, lunga di capelli e corta di comprendonio, mostro di curiosità e di sfrontatezza, grande in verità è la tua impudenza! Tuttavia sappi che coloro che suonano molte note fanno così perché stanno ancora cercando la loro nota, mentre io la mia l’ho già trovata molto tempo fa».

– Struttura della serie degli armonici

Possiamo pensare a quello che comunemente riteniamo il «singolo suono» come ad una costellazione o un sistema solare (modello planetario del suono proiettato nel macrocosmo), oppure ad un atomo con le sue particelle subatomiche (modello subatomico proiettato nel microcosmo). In entrambi i casi, ciò che impressiona l’occhio nudo o la lastra può essere percepito come un punto, un evento singolo che però con mezzi di osservazione più potenti (telescopi, rivelatori di particelle) si scinde nelle sue componenti: una stella circondata da pianeti che a loro volta possono avere dei satelliti; il nucleo atomico e la giungla delle particelle che gli ruotano attorno. Allo stesso modo il nucleo del suono è la sua frequenza di base, che chiamiamo fondamentale, al di sopra della quale si dispongono altre frequenze, per l’appunto i suoni armonici. Il modo in cui gli armonici costellano il suono fondamentale è di primaria importanza per il timbro, il colore del suono che ci permette di udire differenze tra i suoni di un violino, di una tromba e di una voce tutti eseguenti la stessa melodia. Mediante le tecniche del canto armonico si impara a modulare la voce in modo da (a) isolare i singoli armonici come prominenti rispetto alla fondamentale e (b) connetterli in frammenti melodici (patterns) secondo procedimenti di tipo musicale. Estremamente interessante è la struttura della serie degli armonici. Questa può essere scritta in vari modi. Come serie numerica:

1, 2, 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9, 10, 11, 12, 13 14 15, 16… °o

Questo significa che per una frequenza arbitraria di 100 Hz (o periodi al secondo) per il suono fondamentale, per conoscere la frequenza (x) di un armonico qualsiasi, basterà moltiplicare la frequenza della fondamentale per il numero dell’armonico. Ad esempio, la frequenza del suono armonico n. 11 sarà 100×11=1100 Hz.

Ma anche come serie numerica inversa

1/1, 1/2, 1/3, 1/4, 1/5, 1/6, 1/7, 1/8, 1/9, 1/10, 1/11, 1/12, 1/13. oo

La divisione per 2 ed i suoi multipli genera l’intervallo musicale dell’ottava, per 3 e relativi multipli l’intervallo di quinta, per 5 l’intervallo di terza. Questo significa che se dividiamo in due metà esatte un’ipotetica corda vibrante che pizzicata nella sua interezza produce il Do1 pizzicando una qualsiasi delle due metà otterremo il Do2, cioè il suono un’ottava sopra. Si noti che soltanto la divisione esatta produrrà la nota giusta. Ad esempio sia data una corda vibrante della lunghezza di cm. 120, e si voglia cercare il punto di divisione in due metà: la divisione a occhio sarà sempre imperfetta, mentre quando le due sezioni della corda daranno la stessa nota allora saranno anche di lunghezza uguale (è questo un esempio della capacità discriminativa dell’orecchio, assai maggiore di quella dell’occhio).

Scritta in note musicali, la serie degli armonici risulta così:

Do1, Do2, Sol2, Do3, Mi3, Sol3, Sib3, Do4, Re4, Mi4, Fa#4, Sol4, La4…(*)

Anche chi non sappia nulla di musica può notare come gli intervalli tra note adiacenti vadano progressivamente restringendosi. Occorre anche tener presente che questo processo si protrae all’infinito. Tra il quindicesimo e il sedicesimo armonico troviamo l’intervallo di semitono (Si-Do), il più piccolo nel nostro sistema musicale corrente. Dopo di che, oltre l’armonico numero 16 incontriamo intervalli sempre più piccoli, di difficile percezione e into­nazione in quanto al di fuori del nostro sistema. Questo può aiutare a capire le tre direzioni su cui lavorare nel canto armonico: percezione, produzione, controllo. Queste, che di solito procedono su di un unico fronte, quando si inizia a praticare vengono inevitabilmente scompaginate, tanto che l’esperienza tipica del principiante è quella di non sentire i propri armonici (esperienza regolarmente smentita dai suoi compagni di corso).

(*) Per Do3 si intende il Do centrale.

Quello che avviene è che la propria capacità di produzio­ne dopo un po’ di pratica sopravanza la propria capacità percettiva, che quindi ha bisogno di un periodo di recupe­ro. Quanto alla capacità di controllare la propria produzio­ne, all’inizio è quasi inesistente, ed il controllo si acquista lentamente e pazientemente con una serie di esercizi mirati e ripetuti, tenendo presente che si ha a che fare con suoni fragili, sottili non solo nel senso esoterico del termine. Inutile dire che l’acquisizione di un controllo ragionevole sui propri armonici richiede molta pratica e molta motivazione, a riprova, se ce ne fosse bisogno, che il canto armonico non è soltanto una téchne ma una vera e propria strada di autorealizzazione e di evoluzione, sin­gola e collettiva. Solo allora si può capire il detto, attribui­to a Pitagora, che recita: «il significato della vita consiste
nell’intonare quinte perfette».

Un’altra conseguenza importante della pratica del canto armonico è che quando si canta usando queste tecniche non solo, come abbiamo già visto, non è possibile stona­re, ma l’intonazione degli intervalli è assai più precisa di quella comunemente adottata in Occidente secondo il sistema detto «temperamento equabile» introdotto dal Werckmeister verso la fine del ‘600. Senza addentrarci più del dovuto in questioni tecniche piuttosto complesse, basti sapere che questo sistema, vero e proprio equiva­lente acustico della rivoluzione industriale, ha cambiato il paesaggio sonoro della più gran parte del mondo
cono­sciuto in modo assai brutale. Il temperamento equabile manipola gli intervalli della serie degli armonici che si pre­sentano in natura (ad esempio con il suono del vento tra gli alberi) secondo la formula della radice dodicesima di due, un numero irrazionale. In pratica questo significa che l’intervallo di quinta (Do-Sol) suonato su un pianofor­te a coda ben accordato differisce comunque, pur se in misura minima (2 centesimi) dall’intervallo naturale. Altri intervalli differiscono in varia misura, a volte assai mag­giore. Ora, se pensiamo che la percezione acustica è tale che il cervello opera una conversione automatica degli intervalli, riportandoli alle proporzioni armoniche risultanti da una divisione per numeri interi, possiamo forse comin­ciare a renderci conto delle conseguenze. È come se il delicato sistema percettivo fosse sottoposto ad un’irrita­zione costante e costretto ad un superlavoro. Quindi, conseguenze
fisiologiche indubbie, anche se poco com­prese e studiate. Ma anche conseguenze d’ordine psico­logico ed estetico, quali la perdita di quello che i greci chiamavano \’«ethos in musica», che ci impedisce ad esempio di apprezzare il senso delle considerazioni pla­toniche sulla musica nello stato ideale, oppure le corri­spondenze orarie e stagionali nella musica dell’India. Il risultato è una musica contemporanea che si è allontana­ta talmente da un’esperienza acustica condivisa da inge­nerare un vero e proprio senso di fatica nervosa.

Ebbene, praticare il canto armonico significa recuperare un intero mondo percettivo sporcato da secoli di intervalli falsati, dal momento che, come si è detto, gli intervalli tra i suoni armonici ed il suono fondamentale risultano auto­maticamente (vale a dire senza alcuno sforzo cosciente) intonati in intonazione naturale, finalmente inverando la profezia di William Blake:

The doors of perception they be cleansed. (S/ puliranno le porte della percezione – r.d.A.)

Quanto si è detto sopra riassume in modo necessaria­mente succinto alcune informazioni essenziali sul canto armonico. Quello che finora non è stato detto è che il canto armonico è in realtà qualcosa che ha a che fare con tutti i campi dell’esperienza sapienziale umana, tanto da giustificare il termine di «musica noetica» coniato da Riccardo Venturini. Non soltanto antiche tecniche di rein­tegrazione come il mantra e il nada yoga e le loro ripro­posizioni soft antiche e moderne (kirtana, bhajans, chan­ting} possono apparire dei modi più o meno camuffati di fare canto armonico senza saperlo, ma si potrebbe soste­nere che l’effetto sottile dei mantra si produce proprio in quanto le vibrazioni sottili e ordinate degli armonici vanno a colpire i chakra. È soltanto considerando la musica come ars harmonica, quindi come scienza del suono e non come espressione soggettiva di sé, che si può capire la sua inclusione nel quadrivium medievale accanto all’a­ritmetica, alla geometria, all’astronomia (che quest’ultima non sia da intendere soltanto come astrologia appare evi­dente dalla scoperta di Keplero dei moti e delle distanze medie dei pianeti del sistema solare tra di loro e rispetto al sole, che si dispongono secondo rapporti armonici). La cosa importante è che quando si parla di rapporti tra il canto armonico e la filosofia, la chimica, la fisica, la biolo­gia, la botanica, la fisiologia, l’anatomia, l’architettura e tante altre discipline non ci si esprime in termini simbolici o metaforici, ma del tutto reali. Senza approfondire oltre, vale la pena di menzionare il punto di vista dei pensatori armonicali contemporanei, tra cui i cosiddetti «acustici neopitagorici» (Von Thymus, Kayser, Levarle, Levy, McClain), secondo i quali si impone una rilettura dei grandi libri dell’umanità (dai Veda al Corano, dall’/ Ching agli ultimi dialoghi di Plafone) in chiave armonica come quella che più di ogni altra si avvicina a modalità di pensiero
essenzialmente acustiche, prima ancora che di tipo logico o etico. Questo comporta una lettura degli stessi testi non secondo
interpretazioni simboliche o metaforiche, ma secondo una prospettiva assolutamente letterale, come se i testi in questione fossero manuali d’uso, non tanto da leggere, ma da seguire come si seguono le istruzioni di un computer o di uno strumento elettronico.

Riassumendo, abbiamo un corpus di tecniche le cui origi­ni si perdono nella notte dei tempi e di cui troviamo accenni nella letteratura iniziatica, mistica o semplice­mente curiosa di tutto il mondo. Alcuni di questi accenni sono criptici come si conviene a pratiche che spesso si volevano tenere segrete. Valgano per tutti questi pochi versi provenienti da una cronaca francese del ‘500:

J’ai veu, comme il me semole

ung fort homme d’honneur luy

seul charter ensemble et

dessus et teneur.

(Ho visto, se ben ricordo, un valoroso, cantare allo stesso tempo melo-

dia e bordone – r.d.A.).

Il suono terapeutico?

II suono consta di una parte fisica: l’impatto delle moleco­le d’aria ordinate dai suoni in forme d’onda armoniche o inarmoniche sulla membrana del timpano. Tuttavia una volta trasmesso al cervello l’esito del suono è di natura psichica, nei suoi poteri evocativi, emotivi e trasformativi. Quando si ha a che fare con la musica e i suoi elementi la domanda che puntualmente si ripropone è se se ne debba parlare in termini di terapia specifica oppure in termini di autorealizzazione (3).

Per quanto riguarda il canto armonico, non c’è alcun dub­bio che si tratti di una delle vie maestre a quella sospen­sione del dialogo mentale che la moderna neurofisiologia, d’accordo con l’antica sapienza, riconosce come la modalità ottimale di funzionamento cerebrale. È forse appena il caso, in questo contesto, di precisare che a questo stato mentale non si accede con un’infarinatura teorico-pratica, quale si può ottenere dopo un workshop di un fine settimana. Se ne potrà avere un assaggio, con­siderando anche che, nonostante l’alone di magìa di cui sono circondate, le tecniche vocali si rivelano, in quanto tecniche, di apprendimento sorprendentemente rapido e gratificante per chi voglia veramente impararle. Semmai l’ostacolo sarà il narcisismo e l’autocongratulazione sempre in agguato, soprattutto se alimentato da facili entusiasmi new age.

In un certo senso è il materiale stesso del canto armonico, così fortemente caratterizzato acusticamente, che dovrebbe porre al riparo da tentazioni e preoccupazioni di tipo estetico-espressivo. In realtà più si percorre la via harmonica più si entra in una dimensione che, mutatis mutandis, ricorda quella del «giuoco delle perle di vetro» sognato da Hermann Hesse, meta significativa special­mente nella nostra epoca in cui l’ipertrofia dell’autoe­spressività appare come una vera e propria malattia per­sonale e sociale. Non c’è nulla di «liberatorio» nella disci­plina del canto armonico, nulla di più lontano dall’autoe­spressione. Se è vero che durante le pratiche possono indubbiamente emergere immagini di tipo personale, prima o poi i «ricordi» si stemperano in «memorie» di tipo archetipico.

In questo senso il canto armonico serve ad esplicitare la distanza che separa le due concezioni della musica (ma anche dell’atteggiamento fondamentale con cui porsi di fronte ai problemi del vivere e alla vita stessa) illustrate dai due miti greci sull’origine della musica stessa:

Nel mito di Dioniso la musica è concepita come un suono che prorompe dall’intimo dell’animo umano; nel mito di Apollo è, invece, un suono esterno, che la divinità manda agli uomini per ricordare loro l’armonia dell’universo. Nella concezione legata ad Apollo, la musica è esatta, serena, matematica, collegata alle visioni trascendenti dell’utopia e dell’Armonia delle Sfere. È l’anahata dei teorici indiani. Questa concezio­ne sta alla base della dottrina pitagorica e di quelle dei teorici del Medio Evo (…). I suoi metodi espositivi sono teorie numeriche. Il suo proposito è

(4) R. Murray Schafer, II pae­ quello di armonizzare il mondo attraverso un design acustico (4)

En passant, è il caso di ricordare come l’efficacia ed il potere trasformativo delle posizioni dell’hatha yoga derivi­no non tanto da una concezione ginnico-acrobatica della salute, quanto
dall’allineamento dei plessi psicofisici con i punti di una geometria cosmica.

Il contatto con una dimensione acustica trascendente viene facilitato nel canto armonico dalle tecniche appropriate. Si direbbe che sia proprio questa incommensura­bilità tra il mondo del quotidiano e il mondo dei puri suoni a creare una di quelle condizioni di trance

improvvisa e senza mediazioni che si presentano spontaneamente e che sono state studiate e catalogate dalla Program­mazione
Neuro-Linguistica. In questo senso si può dire che il canto armonico può funzionare come fattore di cambiamento personale proprio in quanto non risolve i

problemi personali, ma piuttosto offre la possibilità di uscire fuori dal sistema in cui i problemi stessi proliferano. In proposito esiste una vastissima letteratura (che finché rimane tale resta di rilevanza puramente accademica), dalle storie zen a filosofi come Wittgenstein, dalle battute paradossali («dov’eri tu quando non avevo bisogno di tè?») di autori come Wodehouse e Groucho Marx alla scuola di Palo Alto, fino, appunto, alle tecniche della Programmazione
Neuro-Linguistica:

In genere si ritiene che il cambiamento si verifichi grazie
all’insight delle cause che in passato hanno determinato il disturbo presente. Ma, come abbiamo illustrato (…), non c’è alcuna ragione valida per compiere questa escursione nel passato; la genesi dell’ipotesi – con cui il soggetto si mette fuori strada precludendosi la possibilità di trovare la soluzione – è del tutto irrilevante; il problema si risolve qui ed ora uscendo fuori dalla ‘gabbia’. (…) se l’insight può fornire spiegazioni molto raffinate su un sistema, serve però ben poco a migliorarlo. Il che pone un’importante questione epistemologica. Si sa che i limiti di tutte le teorie derivano dalle premesse su cui le teorie si fondano. Nelle teorie psichiatriche il più delle volte tali limiti vengono attribuiti alla natura umana. Per esempio, nella struttura psicoanalitica l’eliminazione del sintomo, senza la soluzione del conflitto ad esso sotteso e da cui il sintomo è determinato, deve portare alla sostituzione del sintomo. E non perché tale complicazione è insita nella natura della mente umana, ma nella natura della teoria, cioè nelle conclusioni logiche che vengono tratte dalle premesse teoriche (5).

Piace qui ricordare come secondo un’antica tradizione la cura di quei disturbi che oggi chiameremmo nevrosi si svolgesse, presso
l’asklepiéon fondato nel IV secolo a.C. a Kos, patria di Ippocrate, anche mediante l’ascolto di suoni dei quali purtroppo nulla sappiamo, ma che è lecito supporre di natura particolare, forse simili ai suoni delle tecniche di canto armonico, dal momento che l’acustica antica, dai templi alle moschee alle abbazie cistercensi, mette naturalmente in rilievo la struttura armonica del suono:

…luoghi di cura e di promozione della salute, il cui rituale comprendeva una terapia psicologica che attraverso un’esperienza estatica induceva il ripristino dell’armonia tra l’anima e il corpo… (6).

È degno di nota in primo luogo che i pazienti degli asckle­piéia fossero affetti da quelle che oggi chiameremmo malattie nervose e nevrosi; in secondo luogo che ad essi pervenissero suoni, oltre agli effluvi di erbe bruciate, pro­babilmente erbe psicoattive. Non sappiamo nulla della natura di questi suoni, ma ci è possibile speculare.

/ poteri del suono

L’antica intuizione del potere formativo del suono, intesa, ripetiamo, non in senso simbolico ma letterale, trova con­ferma in epoca moderna negli esperimenti di Chladni, e più recentemente di Hans Jenny.

La vita di Ernst Florens Chladni, singolare figura di fisico viennese, coincide esattamente – e curiosamente – con il periodo d’oro della musica classica europea. Nato nel 1756 (l’anno della nascita di Mozart) e morto nel 1827 (l’anno della morte di Beethoven), Chladni scoprì le Tonfiguren o Klangfiguren, le figure sonore o piuttosto impressioni del suono che tuttora portano il suo nome («forme di Chladni»). I suoi esperimenti sono piuttosto semplici e possono essere duplicati da chiunque. Egli cospargeva di sabbia dei piatti metallici o delle membrane (teste di timpani o di tamburo) e le sottoponeva a vibrazioni regolari, percuotendole o facendole vibrare con un archetto di violino sfregato sul bordo. Chladni si accor­se che i granelli di sabbia si disponevano secondo confi­gurazioni geometriche regolari, simili ai diagrammi di meditazione detti yantra. Ciò significa che il suono (inteso come oscillazione periodica) ha il potere di spostare tisi­camente la materia e di strutturarla secondo forme preci­se, dipendenti dalla costellazione dei suoni armonici, tanto che con le conoscenze adeguate e un po’ di pratica diventa possibile leggere le forme dei suoni come una partitura.

L’osservazione più stupefacente è però che, nel contesto della figura geometrica determinata dal suono, abbiamo a che fare con un sistema dinamico. Ciò significa che la forma permane, mentre i singoli granelli di sabbia sono in costante movimento:

Si formano delle correnti. La sabbia viene spostata continuamente come se fosse un fluido. Tuttavia l’organizzazione dei campi vibrazionali persiste in quanto queste correnti di sabbia si muovono nella stessa direziono o in direzioni opposte. (…) Naturalmente, la funzione della sabbia è semplicemente di servire da indicatore. Gli eventi reali nei piatti e nei diaframmi in vibrazione sono di straordinaria complessità. Ad esempio, nei campi appaiono delle aree che
l’indicatore rivela essere in movimento rotatorio. I granelli si aggregano in piccole aree circolari che continuano a ruotare con regolarità finché la nota viene suonata (7).

Toccò ad Hans Jenny, medico e naturalista svizzero nato nel 1904, di proseguire le ricerche sugli effetti del suono sulla materia nel suo Istituto per la Ricerca dei Fenomeni Ondulatori, ospitato nel Goetheanum di Rudolf Steiner a Dornach, anche se – a mio avviso fortunatamente – Jenny non divenne mai uno steineriano ortodosso.

Il lavoro di Jenny, che per molti versi anticipa la geometria trattale di Mandelbrot, parte dall’indagine sulle forme della natura e delle strutture viventi, ma a poco a poco egli si accorge che esiste una periodicità alla base di tutti i fenomeni naturali e fonda una nuova disciplina, la Kymatica o scienza della vibrazione (dal greco kyma, onda), una fenomenologia che dallo studio degli effetti del suono in senso stretto si estende allo studio della vibrazione intesa come «causa prima, che crea e sostie­ne il tutto». Gradatamente, dalla replica degli esperimenti di Chladni, si passa ad esperimenti più complessi sui materiali più diversi: polveri, liquidi, masse viscose, il fascio di elettroni nel tubo catodico. Dall’osservazione empirica emergono dati che da una parte riecheggiano le antiche teorie sul potere creatore del suono, dall’altra precorrono ricerche tuttora visionarie (ad esempio sull’an­tigravità). A seconda delle condizioni, la materia sottopo­sta a vibrazione si dispone secondo forme dendritiche o a favo d’ape; appaiono forme che ricordano la struttura del­l’occhio e della colonna vertebrale; frammenti di Bach e Mozart prendono forma di galassie:

Le masse influenzate da una frequenza vengono naturalmente forzate nella forma corrispondente all’effetto della vibrazione. Finché permane l’impulso della frequenza, liquidi e masse viscose rimangono al loro posto anche quando il diaframma viene inclinato e persino quando è posto in verticale. Se la vibrazione viene interrotta, le masse scivolano giù sotto l’influenza della forza di gravita. Se la frequenza viene ripristi­nata in un tempo non troppo lungo, le masse ritornano alla loro posizio­ne, cioè risalgono in alto (8).

È impossibile in questa sede rendere conto della ricchezza e complessità di motivi che si intrecciano nel lavoro di Jenny, che tra l’altro con ogni probabilità non conosceva il canto armonico, riscoperto in occidente alla fine degli anni ’60 da etnomusicologi, interpreti e compositori contemporanei. È comunque da far notare ancora una volta il rifiuto della dimensione analogica («…si deve ribadire che queste affinità non sono mere metafore o analogie, ma coinvolgono il riconoscimento di sistemi omologhi»), così come l’epifania finale di un lògos che non è pensiero logico, bensì parola mantrica che dispiega tutta la sua potenza:

Ma il vero lavoro su ciò che potremmo chiamare melos, o parola, è ancora da svolgere. Questo porta la laringe e la sua azione nel raggio dei nostri studi. Allo stesso tempo ci confrontiamo con l’origine degli effetti vibrazionali, l’elemento generativo; dobbiamo
raccogliere dati (8) Ibidem, p. 27 (r.d.A.).

Anche nel caso di Alfred Tomatis (nato a Nizza nel 1920) abbiamo a che fare con uno scienziato singolare, che ha elaborato un «metodo» (nel senso di una strada da per­correre) che è una vera e propria scienza dell’orecchio e dell’ascolto, e che lo ha portato spesso in contrasto con l’ortodossia. Si noti come anche nel caso del «Metodo Tomatis» non si può parlare di musicoterapia, che difatti lo ignora felicemente, come ignora la kymatica nonché il canto armonico. Nel caso di queste tré discipline, che hanno forti legami di affinità strutturale tra di loro, poca attenzione viene rivolta alla musica, che appare pur sempre come un prodotto condizionato culturalmente e contaminato
dall’emotività personale, mentre campo di indagine e di pratica è piuttosto il mondo del suono, urgrund del quale la musica humana non è che un caso particolare.

Tomatis riafferma la primarietà dell’orecchio, sorta di sca­tola nera che non solo fornisce informazioni al cervello, ma svolge la funzione di organo di ricarica del sistema nervoso in termini di potenziale elettrico. Dal momento che la percezione dei suoni acuti coinvolge un numero assai maggiore di cellule ciliate (le «cellule di Corti»), sono proprio questi suoni ad attuare la ricarica energetica cerebrale. Si comprende così la differenza tra la trance che deprime, prodotto della technomusic attuale come di certe musiche primitive, e l’effetto catartico dell’estasi, dif­ferenza cruciale nella discriminazione tra l’esperienza genuina della meditazione e i suoi surrogati. Nell’estasi viene percepita la banda di frequenze che Tomatis chiama bruit de vie, e che si colloca tra gli 800 e gli 8000 Hz. Considerando che la banda delle frequenze coperte dagli armonici prodotti mediante le tecniche di canto armonico coincide con quella del rumore di vita, si capisce anche come alcune musiche si possano veramente ritenere sacre. Ad esempio, nel canto gregoriano la banda di fre­quenza tra i 2000 e i 4000 Hz viene attivata dagli armonici generati dai suoni vocalici, ulteriormente rafforzati dal­l’acustica degli antichi monasteri; nel canto tibetano gli armonici riposano su fondamentali ben più gravi, il che significa che gli armonici più espliciti cadono nella stessa banda del gregoriano, mentre altri vanno ben oltre. Gli effetti di grave depressione e deperimento fisico osservati nei monaci privati, a causa di cambiamenti nella liturgia, dell’attività quotidiana del canto sacro, sono stati oggetto delle ricerche forse più note di Tomatis, la cui conclusione e raccomandazione è stata di ripristinare il canto tradi­zionale. Si spiega anche come tra gli effetti del canto armonico non vi sia certo quello di relax: la pratica del canto armonico non ricerca il torpore indifferenziato di tanta «musica per rilassamento», tanto è vero che non è possibile praticare sdraiati. L’energia degli armonici, con­vogliata dal sistema auditivo, contribuisce alla formazione e al mantenimento della postura con la colonna vertebrale eretta e distesa, tanto che la serie degli armonici appare come un paradigma dell’evoluzione umana, come il monolito nel film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio.

Attraverso la pratica del canto armonico, si partecipa tisi­camente della natura paradossale della serie degli armo­nici. L’informazione che se ne deriva non è di natura per­sonale, e pertanto facilita non tanto la soluzione dei pro­blemi, quanto il salto di coscienza ad una percezione completamente diversa dei problemi stessi. Del resto, millenni di saggezza di Oriente e Occidente ci ripetono che i problemi non vanno «affrontati» o presi sul serio, perché in tal modo si da loro troppa importanza e si rafforzano: essi cessano semplicemente di essere tali soltanto in un’altra dimensione, che non è quella del pen­siero discorsivo a cui il mondo dell’opinione e della falsa informazione (giornali, TV) vorrebbero condannarci. Soltanto allora si può capire Wittgenstein quando scrive che coloro a cui il significato della vita appare chiaro non sono in grado di esprimerlo, moderna riformulazione del detto taoista «colui che parla non conosce, colui che conosce non parla».

Il canto armonico è un complesso di tecniche e di stru­menti conoscitivi chedi per sé non ci garantiscono che diventeremo più sani, più belli, più ricchi, o che vivremo più a lungo. Il canto armonico non è una religione, è sol­tanto una via tra le tante, anche se spesso chi fa canto (10) Paul Reps (a cura di), Zen Flesh, Zen Bones, Midd­lesex, Penguin Books, 1980, p. 156 (T.d.A.). armonico è portato a ritenersi speciale e a comportarsi come tale (in questo non c’è nulla di nuovo: a volte pro­prio le tecniche di riduzione dell’ego ne provocano l’infla­zione). Il canto armonico non è per tutti, ma non è nean­che per pochi: è senz’altro adatto a coloro per i quali l’e­sperienza del mondo è di natura prevalentemente acusti­ca. Esso può essere studiato e praticato come strumento di conoscenza, come ausilio terapeutico, come terreno d’incontro interpersonale, come via d’accesso a stati e dimensioni di coscienza «diverse», come mezzo di crea­zione ed espressione musicale, come un gioco personale che è parte dell’infinito gioco cosmico dell’energia. In questo senso, il canto armonico è sconsigliato a chi non sa giocare. Nelle antiche parole del Vijñanabhairava Tantra riformulate da Paul Reps:

33. Gracious one, play. The universe is an empty shell wherein your mind frolics infinitely(}0).

(O graziosa, suono/gioca. L’universo non è che una conchiglia vuota nella quale la tua mente fa capriole all’infinito – t.d.A.)

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