La Chiave Cardinale del Buddhismo: La produzione condizionata

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La Chiave Cardinale del Buddhismo: La produzione condizionata

di Isi Dhamma

da it.dhammadana.org

“La produzione condizionata”

(Ossia,lo schema innato della sofferenza universale, prima che esso sia trasceso e vinto dalle verità del Dharma)

(di Bhikku Sasana)

– Introduzione –

Paṭicca samuppāda:

A causa dell’ignoranza si producono…

… le formazioni mentali.

A causa delle formazioni mentali si produce la coscienza.
A causa della coscienza si producono i fenomeni fisici e mentali. A causa dei fenomeni fisici e mentali di producono le sei sfere sensoriali. A causa delle sei sfere sensoriali si produce il contatto.
A causa del contatto si produce la sensazione.
A causa della sensazione si produce la bramosia.
A causa della bramosia si produce l’attaccamento.
A causa dell’attaccamento si produce il divenire.
A causa del divenire si produce la nascita.
A causa della nascita si producono la vecchiaia, la morte,
i lamenti, le pene, i dolori, i dispiaceri, le disperazioni (dukkha).

In tal modo nasce questo cumulo di sofferenza.

In ordine inverso…

A causa della completa cessazione dell’ignoranza…
… cessano le formazioni mentali.
A causa della cessazione completa delle formazioni mentali, cessa la coscienza. A causa della completa cessazione della coscienza, cessano i fenomeni fisici e mentali.
A causa della completa cessazione dei fenomeni fisici e mentali, cessano le sei sfere sensoriali.
A causa della completa cessazione delle sei sfere sensoriali, cessa il contatto. A causa della cessazione completa del contatto, cessa la sensazione. A causa della cessazione completa della sensazione, cessa la bramosia. A causa della cessazione completa della bramosia, cessa l’attaccamento. A causa della cessazione completa dell’attaccamento, cessa il divenire. A causa della cessazione completa del divenire, cessa la nascita. A causa della cessazione completa della nascita, cessano la vecchiaia, la morte, i lamenti, le pene, i dolori, i dispiaceri, le disperazioni (dukkha).

Questa è la cessazione completa del totale fardello di sofferenza.

– Il processo della vita –

Di tutto quanto Buddha ha insegnato durante la sua vita,
paṭiccasamuppāda appartiene agli insegnamenti più profondi, più sottili, più difficili a comprendersi ed è intimamente legato all’idea di anatta, che significa assenza di un “sé”; assenza delle
caratteristiche primitive.
Si può affermare che paṭiccasamuppāda sia la spiegazione del processo di anatta. anatta è una realtà ineluttabile, universale, completamente a-temporale. Viene chiamato un “dhammata”. Si può dire che
paṭiccasamuppāda sia lo svolgimento che organizza lo stato di fatto ineluttabile e incrollabile, rappresentato da anatta.

Buddha ha esposto, a più riprese, in diversi sutta, questa dottrina della produzione condizionata. Notoriamente, in uno di tali sutta, qualcuno gli chiese:” Voi affermate che non esiste reincarnazione; eppure, malgrado ciò, parlate di vite passate, di vite future, di rinascite.” Buddha, per tutta risposta, gli dette esattamente la lista (appena elencata) dei dodici elementi, che formano questo processo, in ordine logico ed inverso. Ecco, in cosa Buddha riassume la propria visione del ciclo delle rinascite.

In effetti, si tratta di un processo; cioè, di una successione di avvenimenti, che nascono senza l’intervento di alcun fattore, o essere. Un susseguirsi del tutto incontrollabile, ineluttabile ed irreversibile; salvo, beninteso, quando il processo termina il suo ciclo.
Per definizione, esso è incontrollabile. Di fatto, gestisce, si può dire, l’evoluzione della materia, dei suoi fenomeni e l’evoluzione della mente, con le sue proprietà. Tutti gli eventi che la coscienza può seguire, ed essa stessa, ne sono contenuti. La legge fondamentale, irremovibile, iniziale, è anatta, che si manifesta nel processo; che, dunque, risulta inevitabile.

– L’unità elementare –

L’unità elementare di coscienza può avere una durata di vita che misura, forse, un miliardesimo di miliardesimo di secondo; oppure, un millesimo di miliardesimo di secondo. Ogni secondo conta così 1 000 000 000 000, oppure 1 000 000 000 000 000 000 particelle elementari di coscienza; o, piuttosto, momenti fondamentali di coscienza. Ognuno di questi possiede la particolarità di apparire e di sparire
immediatamente, secondo un processo chiamato paṭiccasamuppāda.

La successione di numerosissime unità di coscienza forma un ciclo, considerando le stesse unità come dei cicli elementari, a loro volta. La sequenza risultante e, anch’essa, condotta dalla legge e dal principio di paṭiccasamuppāda. Ed entra a fare parte della
composizione dei cicli, che si situano in uno strato superiore. Che, a loro volta, sono condizionati da paṭiccasamuppāda.

Per fare un esempio: vi è l’atomo, che è una piccolissima quantità di materia conosciuta. Una raccolta di atomi forma quella che viene chiamata molecola. Una unione di molecole determina una cellula. L’assemblaggio di cellule forma un organo. Quello di organi crea un individuo umano, o animale. L’accorpamento di esseri umani dà origine ad una comunità; l’insieme di comunità determina una nazione, ecc.

Si può anche utilizzare la metafora, riferita al tempo; vi sono i secondi, che costituiscono i minuti, che costituiscono le ore, che costituiscono i giorni, e l’alternanza del giorno e della notte; quest’ultima si riproduce nel ciclo delle lunazioni, delle stagioni, ecc..

Questo ciclo, che è il più grande che noi possiamo apprendere, è lui stesso suddiviso in numerosi sotto cicli, in numerose alternanze. Ognuno di questi cicli, di questi sotto-cicli, di questi
sotto-sotto-cicli è costituito, partecipa e reagisce a quel che viene chiamato il paṭiccasamuppāda.

C’era nel Myanmar (Birmania) un Venerabile, specialista nell’esporre il paṭiccasamuppāda. Seppe effettuare questa analisi nei suoi diversi livelli di astrazione, nei suoi diversi strati. Io sono incapace di fare la stessa cosa, ma voglio tentare di presentare un aspetto del processo, per quanto io riesca affrontarlo; e spero che per voi sarà la stessa cosa…

Questo processo come si introduce nella vita?

L’assenza di reincarnazione

Cerchiamo, attraverso quanto esporremo, di arrivare a meglio comprendere come mai Buddha, questo monaco, è giunto a spiegare, a suggerire che il ciclo delle reincarnazioni, che la nozione di emanazione, è completamente assente. Egli dice che è, addirittura, mancante dall’universo intero.

Studiamo una situazione concreta di quanto, ad un dato momento, percepiamo. Per esempio, proviamo un dolore al piede; un dolore violento. Che succede? Generalmente, per la maggioranza di noi, esso si accompagna ad un impeto di collera. Quando qualcuno ci cammina su un piede, nella metropolitana, è raro che compaia, subito, uno stato di compassione, di amore, uno spirito del tutto aperto e lucido. Il più delle volte, quanto sorge è piuttosto un atteggiamento tinto di irritazione, di avversione, di odio. Fatto che arriva a provocare una parola rude, o un gesto pesante.

Qui, osserviamo, in maniera molto schematizzata, che avviene un processo: si esprime una consapevolezza dolorosa. Subito dopo, viene fuori una sensazione spiacevole, che la accompagna. Non sappiamo perché, né come; ma, tutti ne abbiamo fatto l’esperienza: è una cosa praticamente automatica.

A seguito di questa collera, scaturisce un’intenzione — spesso malevola — che, a volte si ferma lì, ed a volte può trasformarsi in una frase del genere:” Avreste potuto fare attenzione!”, oppure” Avreste, almeno, potuto chiedere scusa!”; o, ancora con più rudezza:” Pezzo di imbecille!” — o che so io.

La situazione può anche andare più avanti; spingendoci a fare un gesto che mostra la nostra collera, o il nostro senso di vendetta, come affibbiare un calcio nella tibia, o spintonare la persona. Anche se è praticamente certo che chi ci ha camminato sul piede non lo ha fatto proprio apposta.

Ecco esposto, in modo molto succinto, questo processo: vi è
l’apparizione della coscienza (esempio: coscienza dolorosa), che farà rapidamente nascere un fenomeno materiale (esempio: movimento della mano, emissione di un suono, sotto forma di una parola offensiva). E’ così che tutto funziona in quel che noi chiamiamo universo, mondo cosciente. E per ogni essere, in ogni momento.

Tutto ciò che noi possiamo pensare, dire o fare, è la fase terminale, visibile, riflessa, studiata, di un processo che è cominciato prima, semplicemente attraverso un impulso cosciente, una percezione sensoriale.
Per esempio, stiamo riflettendo sulla musica di Giovanni Sebastiano Bach, dicendoci:” Era un compositore prodigioso, di sicuro ispirato da uno slancio mistico…” Possiamo anche starne a discutere con qualcuno. Se facciamo tutto questo è semplicemente perché nella metropolitana, nell’aereo, o nel bus abbiamo ascoltato, per qualche secondo, una radiolina, che diffondeva una melodia di Giovanni Sebastiano Bach.Tutto quel che è successo non è che una apparizione della coscienza auditiva, tinta da una sensazione piacevole, che ha prodotto una reazione emotiva, passionale, ecc.

Si tratta esattamente del medesimo processo che ci ha condotti a giustificarci in una stazione di polizia, dopo che abbiamo
schiaffeggiato qualcuno, a causa della nostra collera, o perché ci ha camminato sui piedi, ecc..
Discutiamo delle cose esistenziali, delle differenti fasi giornaliere; diciamo:” ho mangiato, ho guardato la televisione, ok! E’ tale partito politico che ha vinto le elezioni, è la Francia che ha vinto la coppa del mondo di football…”. Tutte queste cose, questo tran-tran quotidiano di chiacchiere interiori, o con altri, è, in larga misura, l’ultima fase del processo.

Generalmente, quella in cui trascorriamo la parte maggiore del nostro tempo; si tratta del discorso dialettico. Il punto a cui accordiamo più indagini, riflessioni. Assai raramente abbiamo l’idea di osservarne, o di conoscerne i momenti precedenti. A volte, possiamo affermare:” Sono consapevole che la vita è proprio questa, sono consapevole della sofferenza, ci sono sempre simili pensieri che mi assalgono.” Tuttavia, manchiamo, per inavvertenza, per disattenzione, o, semplicemente, per ignoranza, di preoccuparci di quanto è avvenuto prima, e che, ora, si conclude in questi discorsi intellettuali, o filosofici. Abbiamo omesso di pensare alle fasi anteriori, come il movimento della mascella, la circolazione dell’aria, che ci permette di parlare; dunque, di emettere dei suoni. Ciò, non lo osserviamo; ci attardiamo, invece, nei nostri discorsi.

Considerare la fase precedente, cioè, una sensazione piacevole, o spiacevole, prodotta di un impatto sensoriale (per esempio, un suono). Se riflettiamo un po’, potremo giungere a capire, a percepire che, quando, nella giornata, abbiamo degli attimi di riflessione
sull’esistenza — nel senso che essa è insoddisfacente, piena di problemi… – vi sono anche dei momenti in cui non si pensa affatto a tutto questo, visto che ci troviamo occupati ad assaporare una deliziosa bevanda, un piatto squisito. A quel punto, ci gettiamo, piuttosto, su delle considerazioni, tipo “la fortuna che abbiamo di essere nati in Francia, che è il paese dell’arte culinaria”. Sfortunatamente, passiamo da una situazione di pensieri, basati piuttosto su delle idee negative, ad un’altra, fondata su idee positive; ed oscilliamo dall’una all’altra, per tutto il tempo.

E, però, omettiamo di osservare l’intero processo che ci ha condotti ad elaborare quanto si chiama, in senso largo, la concezione, l’idea, la progettazione: il tempo, la religione, la filosofia, la politica, il lavoro, la famiglia, la società… Fino a che si rimane a tale livello – che è, in verità, solo superficiale — tutto ciò ha una certa validità, una certa esistenza, una certa verità; ma, si tratta soltanto della parte più esteriore di un assieme di sotto-cicli, di sotto-sotto-cicli, di sotto-sotto-sotto cicli, ecc., che, di fatto, sono sfuggiti alla nostra attenzione.

L’appetito

Così, nella vita, come lo faceva così bene rimarcare il filosofo Spinoza, esiste sempre un “appetito”. Cioè, un desiderio, una tendenza. In pali, si chiama taṇhā. taṇhā è quanto fa proiettare la coscienza sul proprio oggetto, o su qualche cosa.
Prendiamo l’ esempio di una pallottolina di pane, che i bambini tanto amano gettare sui vetri. Adoperano una cerbottana, costruita con una penna biro svuotata e lanciano, in tal mondo, le palline di pane su ogni cosa; generalmente, lì ove glielo si proibisce. Il fatto che esse vengano letteralmente proiettate e che si incollino contro il vetro illustra il significato di taṇhā, che è la tendenza, costantemente ripetuta — diciamo, perpetua — che la mente ha di scagliarsi su di un oggetto. A partire dal momento in cui la coscienza si approprierà di un oggetto, l’operazione si ripeterà; poiché va da sé che,
generalmente, i nostri desideri riguardino fatti piacevoli.

Noi ci lanciamo, ci orientiamo verso la destinazione che ci
prospetterà un certo piacere. La facoltà di restare incollati sul nostro oggetto di piacere si chiama upadāna, che significa fissazione; illustrata nell’esempio appena citato, in cui la pallina di mollica resta incollata sul vetro, fino a quando finisce per seccarsi e, dunque, per scivolare e staccarsi. Sarà, allora, necessario lanciarne una successiva, per continuare il gioco (io-co).

Allo stesso modo, nella nostra quotidianità, abbiamo, ad un certo momento, un progetto, che, in effetti, è un desiderio. Sarà quello di andare a mangiare qualcosa di gradevole, di assistere ad un fatto apprezzato, o di ascoltare della musica. Noi siamo capaci di sopportare quanto, in effetto, è più insopportabile nella vita di un uomo: la quotidianità.

Riusciamo ad elaborare un mucchio considerevole di strategie, di progetti, di manovre, che chiamiamo amministrative, professionali, sociali, ecc., al solo scopo — poiché risulta chiaro che non ne esistono altri — di vivere. Cioè, di garantirci che gli attimi di piacere siano i più numerosi a succedersi — possibilmente ad un ritmo elevato — e che quelli di dispiacere e di pena siano i meno
consistenti possibili; magari, i più distanziati e corti.

Così, noi viviamo. Ecco, quel che chiamiamo la vita di un uomo. Solo che, per sopravvivere, vi sono i cosiddetti bisogni naturali. Che non corrispondono affatto a questa idea di desiderio, di attaccamento, o di fissazione, poiché, molto spesso, d’altronde, sono vissuti come delle corvées. Poiché dobbiamo inevitabilmente soddisfare questi bisogni naturali — visto che così funzione la biologia del nostro corpo — cerchiamo, allora, di fare il possibile per trasformarli in momenti di piacere.

L’attaccamento – taṇhā

La produzione condizionata è un processo che succede a se stesso, in quanto è una sorta di ciclo che non cessa di ripetersi. Esattamente come il pendolo di un orologio, che oscilla a destra ed a sinistra, e, fino a che la molla è tesa —cioè, fino a quando in essa rimane dell’energia — esso continua a farlo. Il “carburante” che vi è nella molla è proprio taṇhā. Si tratta veramente del motore della vita. taṇhā è il termine impiegato per sintetizzare, in senso lato, l’avidità, il desiderio e la propensione. Così, alla partenza, vi è l’ignoranza, la mancanza di conoscenza, l’incapacità di sapere cosa è, per esempio, quel dolore che appare e la coscienza che lo accompagna. Poiché esiste questa incapacità, vi è, di conseguenza, l’ignoranza che produce il processo che si chiama formazione.
Diremo, qui, che la formazione che accompagna la coscienza è, da una parte, la sensazione (piacevole, o spiacevole) e, dall’altra, la necessità che abbiamo di esprimere, in tale momento, un’azione.

Non è facile da spiegarsi, poiché il paṭiccasamuppāda è un po’ come il serpente che si morde la coda… Quando ci si pone di fronte a questi dodici elementi, lo si può, in una certa misura, chiarire, cambiandone l’ordine; che non ha, poi, più importanza di tanto. Sarebbe
impensabile insegnare il paṭiccasamuppāda, modificando la disposizione delle “case”; ma, esiste una natura così particolare nell’apparizione della coscienza, che il fatto non sarebbe, poi, totalmente inesatto. Nel senso che il ciclo è breve e aderisce all’apparire di un fenomeno di primo livello, costituendo, lui stesso, con il suo numeroso ripetersi, un evento di livello superiore.

Per semplificare, diciamo che, alla partenza, esiste una cattiva conoscenza di quanto sta per capitarci, sino al momento in cui esso sopraggiunge. Attraverso tale consapevolezza, appare una sensazione piacevole, oppure spiacevole. In seguito, sorge una reazione; cioè, il nascere di un’intenzione, di un progetto — motivato, in genere, dal desiderio di soddisfare qualche cosa. Di conseguenza, una volta acquisito l’oggetto, nasce l’attaccamento ad esso. Lo si accaparra; e, ciò, è, dunque, un legame.
Quando un bambino va in collera, all’inizio ne conosce la ragione. E’ irritato perché gli hanno preso il giocattolo. A forza di restare costantemente in questo stato di rabbia, finisce che si fissa, alla lettera, su quest’ultimo. Dopo un po’, continua a piangere. E persisterà nel suo capriccio, anche quando ne avrà completamente dimenticata l’origine. Spesso, è così che succede.
L’abitudine
All’inizio, ci proiettiamo su qualcosa. Giunge il momento, soprattutto perché è divenuta un’abitudine, in cui l’impulso iniziale che ci aveva lì condotto, svanisce. Non sapremo neppure perché avviene. Si tratta dell’attaccamento. Che è la facoltà che ci intrattiene sugli oggetti, o sui nostri discorsi. Esiste l’attaccamento ai nostri punti di vista, alle nostre credenze; per esempio, un cristiano, o un buddhista sono molto avvinti alle loro concezioni, ai loro concetti. Spesso, non ne sanno neppure il perché. Sovente, è per la ragione che li posseggono in loro stessi, o qualcuno ha loro narrato “quelle cose”, da che sono giovani, ed allora hanno finito per crederci. Di conseguenza vi si attaccano e, perciò, rinnovano costantemente un appetito alla vita.

L’attaccamento è una situazione che ci spinge letteralmente a fissarci e ad agganciarci. Aderiamo, anche, beninteso, a questa idea del divenire — ossia, di vivere; perché di ciò si tratta. Crediamo nell’essere, e che esistiamo, e siamo molto avvinti a ciò. Non soltanto alla concezione (sono un uomo, sono una donna, sono Piero, sono Paolo, sono buddhista, sono cristiano, sono ateo); ma,
semplicemente al fatto.

Si tratta di un modo particolare di apprendere la nostra realtà, la nostra verità interiore. Il fatto di esistere, il fatto di divenire è una realtà, in rapporto alla quale ci troviamo totalmente fissati, incollati. Ciò fa sorgere numerosi momenti in cui appare taṇhā. E ciò vuol dire che noi ci vediamo attivati costantemente in nuovi progetti, iniziative, in nuove pratiche. All’origine, lo scopo è di mantenere e gestire questo blocco. Non abbiamo la voglia di cambiare il nostro stato. Crediamo di essere un uomo, o una donna, e permettiamo a noi stessi di rimanere avvinti a simile idea. Perfezioneremo,
completeremo, realizzeremo lo status “di uomo”, attraverso i nostri abiti, i nostri attributi virili — come un profumo, una maniera di pettinarci, di comportarci, ecc. La stessa cosa avverrà per le donne, fuse a tale idea di femminilità; cioè, allo stato della donna in sé; alla maniera di “essere donna”, che si manifesterà con un modo di vestirsi, di profumarsi, ecc.

L’attaccamento alla divinità

Per certuni , quest’ultimo non è il più importante; vi è altro. Si può essere affascinati ad uno dei legami più alienanti, più pericolosi, più perniciosi che esistano, che è quello alla divinità, alla “buddhità”. Ossia, allo stato d’essere assoluto, trascendente. Quello in cui, giustamente, tali nozioni di base, elementari, di uomo, di donna, di società, o di cultura sono — per così dire — trascesi.

L’ attaccamento alla divinità può tradursi sotto forma di concezioni, di credenze; ossia, a quello stato che dimora in se stesso,
ineffabile, eterno, non mutevole, pulito, puro, non insozzato. Noi concepiamo, allora, una coscienza primordiale; una coscienza “tout court”, trascendente, senza oggetto, senza proprietà, attributi e stato. Si tratta di una coscienza che rappresenterebbe lei medesima il suo proprio stato. E, questo, rappresenta il fantasma assoluto dell’umanità! Probabilmente, non siamo riusciti a dare alla luce, nelle nostre filosofie e nelle religioni più elevate, qualcosa di più folle.

Nell’idea di codesta divinità vi è pure quella dell’attaccamento alla stessa. E’facile criticare i cosiddetti materialisti, che cercano di giungere ad un certo successo, nella loro via. Per alcuni, la riuscita significa essere P:D:G: della società Untel; ministro, o presidente della Repubblica. Di fatto, la spinta che ci fa intraprendere un sentiero spirituale, con questa idea di pervenire alla divinità, oppure alla “buddhità”, è anch’esso un desiderio, un attaccamento, una fissazione di realizzare uno stato. Per molte ragioni, morali, tradizionali, filosofiche, consideriamo questo stato superiore a quello del presidente della Repubblica, o altro…

Infine, esiste anche l’ossessione dell’identificazione diretta alla divinità. E’ quando la divinità, la “buddhita”, o la fusione è stata effettivamente attuata.

Cosa è la vita?

Che cosa ci faccio, qui?

Pare che la maniera utilizzata da Buddha per spiegarci la vita ed i suoi collegamenti sia straordinariamente coerente. E’logica, sana, semplice, onesta e — diciamo, in ultima analisi — ragionevole. Potrebbe sembrare, d’altronde, che, dopo lo studio e, soprattutto, quegli esercizi che Buddha insegna, si possa arrivare alla conclusione che essa sia la sola cosa esistente (ragionevole). Così, in due volte dodici righe, ci ha spiegato in maniera straordinariamente
ragionevole, ragionata, sincera e onesta, come funziona la vita, l’esistenza.
Allo stesso modo, ci chiarisce perché noi vi ci troviamo. A proposito della domanda che ci poniamo:”Ma, che cosa ci faccio, io, qui?”. Ebbene, stiamo qui solo a causa del desiderio. Viviamo perché lo desideriamo; siamo il risultato dei nostri desideri , delle nostre tendenze, delle nostre pulsioni. Per diverse ragioni, di formazione intellettuale, culturale, universitaria, arriviamo a farci delle domande. Semplicemente perché le abbiamo in noi; possediamo tale intuizione, la qualità di porre uno sguardo sulla vita. Ecco perché ci poniamo queste domande…

Di conseguenza intraprendiamo un cammino il cui scopo, finalmente, se ci riflettiamo bene, è solo quello di passare da un certo modo operativo di esistere, ad un livello superiore. Di saltare,
finalmente, da un certo ciclo paṭiccasamuppāda ad un altro. Dunque, per delle ragioni incombenti, immaginiamo che non ve ne sarà più uno solo. Intuiamo che esisterà una specie di continuità perfettamente lineare e trascendente, non più sottoposta ad un ciclo.

Il monaco Gotama ha fatto una grande scoperta; ha avuto un’intuizione geniale. E, se la ebbe, fu prevalentemente per avere avuto la concreta esperienza del nibbāna. Scoprì che, tutt’al più, ci immaginiamo, idealizziamo qualcosa che non potrà essere altro che un ciclo di paṭiccasamuppāda. Cioè, l’apparizione, il divenire secondo una sequenza di tappe riassunte, in modo succinto, da: un contatto, una sensazione, una reazione, un impulso, una volizione, una coscienza, un movimento, un atto, un divenire.

Le esperienze spirituali

Cosi, coloro tra i “grandi maestri spirituali”, che credono di essere pervenuti alla divinità, o alla “buddhità” hanno sicuramente realizzato un’esperienza, ma — come affermano, spesso — consacreranno il resto del loro tempo a questa divinità, o a questa “buddhità”. Hanno toccato, hanno avuto un contatto, una esperienza, la cui intensa beatitudine, l’acuto benessere, il forte piacere è tale, che la forza del desiderio, il vigore di quanto li proietterà nuovamente a sperimentarli è considerevole. Tanto rilevante che il poderoso attaccamento che nascerà in questi sarà gigantesco. Se veramente esiste qualcosa di trascendente nelle nostre esperienze spirituali è l’attaccamento che proviamo per esse.

Così, il monaco Gotama ebbe una consapevolezza del tutto sconcertante, e che va contro corrente con tutto il resto; che non viene insegnata in altra parte che non sia dalla sua bocca. Né all’interno del cristianesimo, né dell’islam, e in alcuna delle nostre filosofia d’occidente e d’oriente, e neppure in quel che si chiama, oggi, il buddhismo.

Una esperienza rivoluzionaria

Egli fece un’esperienza talmente contraddittoria con tutto ciò che può venire conosciuto nel quotidiano, che il fatto viene illustrato in una maniera molto interessante: il giorno che precede la notte in cui la visse, ebbe la gigantesca intuizione che stava per scoprire qualcosa di veramente nuovo, di veramente rivoluzionario.

Dopo anni di tribolazioni, di sperimentazioni, tra cui, giustamente, queste consapevolezze mistiche, o divine, posò la sua ciotola nel fiume, che scorreva proprio davanti a lui e si disse:”Se veramente io sono destinato a scoprire qualche cosa del tutto nuova, che il mondo ignora, oggi, completamente, che la ciotola non galleggi nel senso della corrente, ma che rimonti contro di essa!”. Fu quanto avvenne. Poco importa preoccuparci dell’aspetto leggendario, o miracoloso di tale storia. Ciò che interessa è che rappresenta un modo per illustrare come quel che Buddha scoprì fosse assolutamente
rivoluzionario e contrario a quanto si conosceva, a quanto fosse stato appurato, ed insegnato, sino a quel momento, nell’intero universo. Di che si trattava?
Riguardava il paṭiccasamuppāda in ordine inverso. Il monaco Gotama visse un’esperienza concreta, considerato che non ne conosceva affatto la teoria. Egli ha realizzato l’esperienza dell’ordine inverso. Cioè, non ha mancato di conoscere quel che appariva alla sua coscienza, non ha omesso di portarvi sopra la propria attenzione, non l’ha ignorato.

Ciò che è successo di straordinario fu che, logicamente, tale coscienza, tale sensazione, tale contatto e tale oggetto non sono sorti. Hanno cessato di apparire ed avvenne, a quel punto,
l’interruzione del ciclo in cui la coscienza si mostra, con il suo oggetto. Non nacque, dunque, una sequela, né un seguito. Cosa divenuta impossibile a causa di quella interruzione. Egli sperimentò ciò che viene chiamata la cessazione, la cessazione della non conoscenza, dell’ignoranza, dell’incapacità di apprendere; fatto che ha provocato la fine di quanto, per una volta, non venne ignorato.

La cessazione della conoscenza

Ecco perché Buddha non dice:” L’apparizione della conoscenza”, ma:”La cessazione dell’ignoranza”. Perché, se avesse dichiarato
“l’apparizione della conoscenza”, ciò avrebbe significato che prima si conosceva, si apprendevano i fenomeni con l’ignoranza; mentre, poi, essi vengono assimilati con la conoscenza. No, egli dice:” vi è la cessazione dell’ignoranza”, poiché, giustamente, appare l’interruzione del fenomeno. E se questo non si mostra più, come lo si può conoscere? Il concetto non è di acquisire i fenomeni che ci circondano sulla base della consapevolezza. Ma, che questi fenomeni apparenti cessano di mostrarsi, poiché, di conseguenza, la coscienza che si esprime con essi si interrompe. Per Buddha, è la conclusione dell’ignoranza. E’ un fatto così stupido, che, nel sentirlo, si potrebbe dire che si tratta di una cosa da sempliciotti! E, invece, ci parlano di conoscenza trascendente, di modi di conoscenza, della coscienza che non sa, quando si trova nel samsāra, mentre, invece, esiste quella
soprannaturale, che sa…

L’esperienza che ha vissuto il monaco Gotama è del tutto sconcertante, del tutto incredibile. E, d’altronde, la questione non può più porsi in termini di credenze. La cessazione dell’ignoranza accompagna, forzatamente, quella della conoscenza. E’ quando non c’è più nulla da conoscere e neppure la coscienza che possa apprendere, che noi giungiamo alla cessazione di quel che Buddha chiama l’ignoranza. nibbāna e parinibbāna

L’apparizione della coscienza

A partire dal momento in cui la coscienza appare, vuol dire che, da qualche parte, esiste una falla. Essa sorge, quando vi è, qui o là, una piega; o, anche, un rilievo. Si mostra con il suo oggetto, perché c’è dell’ignoranza.
Buddha ha, così, fatto l’esperienza della cessazione della conoscenza e del suo oggetto. Ecco come, egli dice, si arriva alla fine dell’ignoranza. Evidentemente, il concetto è un po’ radicale. Non si tratta, tuttavia, di un annichilamento, di uno sradicamento, di un annientamento completo. Semplicemente, la coscienza, che appare con il suo oggetto, in funzione di un ciclo ben preciso di successioni e di concatenazioni (che, in seguito, sperimenterà ogni sorta di collere, di desideri, di avidità) non si manifesta più.
Tuttavia, per delle ragioni assai difficili da spiegarsi — e, d’altronde, sembra che non siano neppure chiarite nelle scritture — al momento in cui la coscienza cessa di mostrarsi con il suo oggetto, essa ne assume comunque un altro, che è nibbāna. E’ un fatto molto particolare, incredibile. La coscienza non può impedirsi di fare vedere; anche quando non ha nessun oggetto da afferrare (beninteso, se non esiste nessun oggetto, è chiaro che non può palesarsi) essa esprime una specie di tendenza, tanto forte, che anche quando un oggetto palpabile, prensile come un suono, non appare, ebbene prende, allora, per oggetto, nibbāna.

Una scoperta interessante

E’ qui che Buddha ha fatto una scoperta interessante; ha realizzato non soltanto “niroda” — che è la cessazione dell’apparizione della coscienza e dei suoi oggetti – ma, pure, che quando tutto ciò sparisce, rimane ancora qualche altra cosa. Non è un foro, né il nulla, né IL nulla. La coscienza, che non può liberarsi dalle sue abitudini, prende come oggetto nibbāna. Ma, la coscienza che prende per oggetto nibbāna funziona sempre, beninteso, nel ciclo di paṭiccasamuppāda. Essa appare, sparisce, si proietta sul suo oggetto, vi si incolla, lo sceglie. Quindi, scivola, e sparisce, per lasciare il posto all’istante coscienziale successivo.

Così, quando lo yogī raggiunge nibbāna, contempla nibbāna, Buddha dice che questa coscienza che prende per oggetto nibbāna è ancora una fabbricazione insoddisfacente, impermanente, e del tutto
incontrollabile. E tuttavia, se Buddha non avesse visto, toccato nibbāna, come avrebbe potuto sapere che esiste? E’ molto particolare, nibbāna. Sarebbe cosa vana cercare di dargli una descrizione definitiva.
particolarità di nibbāna

La particolarità di nibbāna è che non appare. Malgrado ciò, la coscienza lo può assumere ad oggetto, anche se quello non offre nessun appiglio. La particolarità di nibbāna è che può venire conosciuto dalla coscienza; come la coscienza che lo prende ad oggetto può totalmente svanire e sparire. Ciò, viene chiamato parinibbāna.

E’ quel che accade quando lo yogī si è allenato, seguendo i consigli dati dal monaco Gotama, per conoscere nella misura del possibile tutti i fenomeni che appaiono alla coscienza. Ciò, affinché, giustamente, l’ignoranza che ne ha provocato l’apparizione cessi e, a quel punto, prenda ad oggetto nibbāna. Da un certo punto di vista, il fenomeno non è soddisfacente, poiché ancora esiste la coscienza che si lega ad un oggetto.

Tuttavia, vi è una differenza importante. Tale oggetto non è legato al paṭiccasamuppāda. Non è un oggetto che appare, dispare, ed ha una forma. Non possiede qualità ed attributi intrinseci; e, neppure, d’altronde, estrinsechi. Non possiede una forma, non ha una pietra angolare, non ha asperità. E’molto particolare. Buddha dice che è vuoto. Non è IL vuoto; è semplicemente vuoto. Finché esiste la coscienza, vi è una certa forma di coscienza, una certa sua proprietà. La coscienza senza proprietà… non esiste.
Così, quando la coscienza prende ad oggetto nibbāna, a causa dell’assenza di tessitura, di natura, di definizione; per il fatto che esso non appare, la medesima non ne risente per nulla. Non ha nulla da risentire. Poiché, non è né buono, né cattivo; e neppure neutro.

La felicità

Si adopera un’espressione che, sfortunatamente, è, spesso, mal compresa. (ogni volta che Buddha impiega un termine, il vantaggio è che ci suggerisce qualcosa; l’inconveniente è di applicare in maniera riduttiva le nostre categorie concettuali, riferite a quel termine). Si dice “santi sukha”. “Santi sukha” significa un piacere, dovuto ad uno stato pacifico. Quel che è particolare sta nel fatto che chi conosce nibbāna non prova assolutamente alcun piacere. Proprio perché non vi nulla da vedere in nibbāna, nulla da conoscere, nulla da ascoltare e per definizione è inconcepibile che possa esistervi una reazione, una collera, un pensiero, una parola, oppure un movimento.

Sta nel fatto che non vi è nulla da vedere, e non esistono sensazioni, che appare la beatitudine; questo famoso “santi sukha”. Cioè, quel piacere che nasce perché non esiste piacere. Quella felicità che appare perché non esiste felicità, e neppure quanto possa suggerirla. Impiego, a volte, l’espressione:” Si tratta di felicità per
contumacia.”

Questa esperienza di nibbāna Buddha l’ha fatta. Visibilmente, ciò non gli recato danni, perché ne è ritornato. Ed anche ben ritornato. Ha toccato nibbāna, conosciuto nibbāna, osservato nibbāna. Subito dopo avere avuto questa esperienza ed avere sviluppato delle qualità che sono peculiari ad un monaco come lui, ad uno yogī di par suo, che i suoi successori, i suoi allievi non potranno sviluppare (specialmente, la capacità di conoscere tutto di tutto). A quel punto, egli ha naturalmente provato il bisogno di rifare questa esperienza. Ed è rimasto assorbito, per sette giorni, nella conoscenza di nibbāna.

La conclusione definitiva

Così, egli ha compreso che la coscienza che assume ad oggetto nibbāna, se è, beninteso, calma, sta, tuttavia, ancora… là. Ha avuto, allora, un’altra esperienza, durante sette giorni successivi; è pervenuto alla cessazione di paṭiccasamuppāda, del ciclo di apparizione della coscienza e dei suoi oggetti ed è riuscito a far sì che la coscienza non riapparisse, prendendo ad oggetto nibbāna; ma, che, proprio, non si ripresentasse più. Ha sperimentato nibbāna senza alcuna coscienza residua. Ed evidentemente non se n’è potuto accorgere.
E’ per avere fatto questa esperienza che è giunto alla conclusione definitiva che nibbāna è proprio la liberazione totale, irreversibile e definitiva. Se era giunto a toccare nibbāna, a conoscere nibbāna, ad osservare nibbāna come avrebbe potuto sapere che rappresentava la fine definitiva di ogni nostro problema, poiché esisteva ancora una consapevolezza di nibbāna? Esisteva ancora l’apparizione di una coscienza che tocca, che palpa. E’ proprio quando è giunto a questa esperienza di nibbāna, stavolta definitiva, senza alcuna coscienza residua, che ha compreso che nibbāna è proprio la fine definitiva. Bisognerebbe, piuttosto, dire l’assenza definitiva, totale di sofferenza. Assenza totale di sofferenza, attraverso l’assenza totale di infelicità, di collera, di odio, di desiderio, di gioia, di amore, o di qualunque cos’altro; attraverso l’assenza totale di proprietà, di coscienza, di sensazione, di oggetto, di colorazione, di forma.

Il modo di utilizzo

Il monaco Gotama ci ha donato un modo di utilizzo che si chiama Dhamma, che rappresenta, in senso lato, il suo insegnamento. Il modo di utilizzo di cosa? Di quel che ci permetterà di fare l’esperienza che si chiama nibbāna. Ci ha lasciato lo strumento. Lo strumento necessario per leggere questo modo di utilizzo. Che è come un cdrom. E’ necessario un computer per poter leggere il cdrom. Allo stesso modo, per potere accedere a tale modo di utilizzo occorre uno strumento. Questo strumento si chiama saṃgha. Il saṃgha è la condizione necessaria di protezione e di trasmissione del Dhamma, che lo rende accessibile a tutti gli esseri, i quali vogliano ben darsi la pena di praticarlo e di studiarlo.
Questo insegnamento (Dhamma), veicolato, oggi, da quel che Buddha ha collocato in terra (il saṃgha) è quanto permette di sperimentare ciò che si chiama il risveglio. Cioè, la cessazione del paṭiccasamuppāda, o interruzione del ciclo della sofferenza (dukkha). Tale insegnamento ci è pervenuto, sembra, in ottimo stato; ma, tutto è relativo. In ogni caso, oggi è accessibile. Siamo estremamente fortunati, per questo; ma, esso sarebbe nullo se non venisse studiato, compreso e,
soprattutto… se non fosse praticato e realizzato.

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