Introversione, Timidezza, Solitudine

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Introversione, Timidezza, Solitudine

di Nicola Ghezzani

La distinzione corrente fra introversione ed estroversione è, nella nostra cultura, gravemente
compromessa dal pregiudizio.
In generale, dell’individuo introverso si dice che tende a ripiegarsi in se stesso, a interessarsi
in modo “morboso” del proprio mondo interno, con distacco e chiusura nei confronti del mondo esterno
e dei contatti sociali. Per contro, dell’estroverso si afferma che è un individuo con spiccati
interessi verso l’ambiente esterno, tendenza a esprimersi e manifestarsi, e quindi facilità ad
inserirsi nel contesto sociale.

Relativamente a introversione ed estroversione, dunque, si esprimono meri “giudizi di valore”,
pregiudizi gravemente penalizzanti nei confronti di quella caratteristica psichica che è
l’introversione. Nel linguaggio quotidiano, la parola “introverso” evoca significati quali: chiuso,
taciturno, insicuro, poco socievole, passivo; “estroverso” viceversa significati opposti, quali:
aperto, comunicativo, spigliato, attivo, intraprendente. Per quanto si riconosca che molti
introversi hanno una sensibilità e un’intelligenza fuori del comune, il loro modo di porsi,
equivocato spesso come scostante e altezzoso, provoca reazioni di antipatia, mentre gli estroversi,
eccezion fatta per quelli insopportabilmente narcisisti e invadenti, sono giudicati generalmente
simpatici.

Si può immaginare che prezzo di dolore comporti questo facile e stolto pregiudizio quando vada a
colpire dei bambini. I bambini introversi sono percentualmente minoritari rispetto agli estroversi
(forse non più del 10%); ma ciò che, di fatto, li rende gravemente a rischio è che, essendo bambini
e perciò ingenui e spontanei per natura, non possono nascondere ciò che essi sono, cosa che li rende
più visibili e perciò più aggredibili rispetto agli adulti egualmente introversi.

I bambini introversi sono appartati e silenziosi, mentre la scolarizzazione, e non di rado le stesse
famiglie, richiedono e impongono la relazione sociale continua e il valore assoluto della
comunicatività. Sono sensibili e riflessivi, mentre il mondo scolare e quello sociale in genere
“sponsorizzano” personalità competitive, orientate al successo, e dunque adattate ai valori di
distinzione e di insensibilità propri della casta “dominante”. Sono fantasiosi (“distratti”), quindi
disadattati rispetto ad un mondo che esige pragmatismo e risultati rapidi ed efficaci. Non è
artificioso dedurre da ciò che il bambino introverso sia oggetto di una vera e propria
discriminazione quando non addirittura di una persecuzione.

Il mondo, dunque, è degli estroversi, che fanno il buono e cattivo tempo, imponendo per di più il
loro modo di essere come parametro della normalità. Gli introversi, che spesso hanno delle ricche
potenzialità emozionali e intellettive, vivono in un cono d’ombra, defilati, frustrati. Fatalmente
contagiati dal codice culturale prevalente, essi stessi finiscono per ritenersi inadeguati, meno
capaci degli altri, gravati da tratti di carattere che, quando non patologici, giudicano comunque
inadeguati. Ciò li induce a nutrire un sordo risentimento nei confronti della natura, responsabile
di un carattere che crea solo problemi, associato spesso ad una rabbia più o meno consapevole nei
confronti della società che li umilia e li emargina. Alcuni, come non bastassero le sollecitazioni
esterne ad essere “normali”, tendono ad adottare, per mimetizzarsi, dei moduli comportamentali
estroversi. Nella misura in cui ci riescono, realizzano tutt’al più un “falso sé”, una caricatura
del loro vero essere.

La supremazia sociale dell’estroverso, con la conseguente emarginazione (e auto-emarginazione!)
dell’introverso riflette, dunque, di una precisa gerarchia di valori. Si tratta tuttavia di una
gerarchia di valori banale, appiattita sugli schemi sociali attualmente più in voga, che risentono
dell’andamento di una società orientata ai valori di mercato. La “brillantezza”, ossia la capacità
di sapersi vendere; la “volontà comunicativa”, cioè la deferenza verso l’atto di scambio; la
“solidarietà”, intesa come costrizione all’attivismo sociale; il “pragmatismo” e l'”utilitarismo”,
adeguati a realizzare l’uso insensibile dell’altro essere umano e dunque il perseguimento del mito
conformistico del successo, sono i valori dominanti, più facilmente assimilabili da individui poco
riflessivi piuttosto che da individui inclini alla sensibilità, al distacco intellettuale e
all’intelligenza critica.

Occorre, dunque, modificare questa banale gerarchia di valori. Mi si chiede: in che modo? Rispondo:
creando dei paradossi.
Il primo paradosso consiste nello svelare che l’introversione esiste in quanto esprime attitudini
biologiche altamente specifiche, necessarie alla sopravvivenza della specie umana nel suo complesso,
attitudini che hanno pertanto un valore oggettivo. In un certo senso, l’attitudine introversiva
rappresenta l’ultima e più “moderna” sfida che la specie umana abbialanciato a se stessa, ad una
specie che finora ha espresso il meglio di sé nel campo delle tecniche di dominio della natura.

Per contro, l’introverso si volge dentro di sé perché lì trova il suo ambiente elettivo: un mondo
nel quale confrontare i prodotti della sua sensibilità e intelligenza agli oggetti presenti e
dominanti nel mondo esterno. L’introverso ha dunque in modo eminente l’attitudine a trasformare la
sua sensibilità e intelligenza in concetti culturali; quindi ad usare il “mondo ideale” costruito
dentro di sé sia per valutare il mondo esterno (capacità critica), che per creare un mondo nuovo
(anche solo “virtuale”) qualora il mondo reale fosse insufficiente in qualche sua parte (capacità
creativa).

L’introverso dunque è sempre un individuo riflessivo (e in ciò esprime la sua capacità critica); ma
è spesso anche un individuo creativo (e in ciò esprime la sua capacità di invenzione e di
rinnovamento del mondo). Egli “giudica” e “inventa” meglio di quanto in genere sappia fare
l’estroverso. Come ho argomentato nel mio libro “Volersi male”, l’introverso ha la funzione
socio-biologica di arricchire il “mondo delle idee”, il mondo della cultura riflessiva, atto a
sorvegliare e guidare il mondo delle tecniche.

Se si ammette questo primo paradosso, ne consegue un secondo, ancora più interessante, per il quale
il concetto stesso di “introversione” viene a mutare radicalmente di segno.

Se i prodotti dell’introversione hanno un valore d’uso (psicologico) e un valore di scambio (in
quanto prodotti culturali) allora, per natura, l’introverso dovrebbe oggettivare la sua attività
psichica. Cioè, anziché isolarsi trasformando la sua attitudine in una patologia, dovrebbe seguire
l’impulso naturale, che è quello di aprirsi al mondo secondo le sue attitudini specifiche.
Oggettivare significa allora far cadere la stessa distinzione fra interno e esterno.

Se vedo la cosa dal punto di vista della psiche, nel momento in cui io, soggetto introverso, mi
metto in rapporto con il mondo dei simboli (con l’autore di un libro morto secoli fa; con una musica
composta a migliaia di chilometri di distanza da me; con un simbolo matematico che non esiste come
oggetto materiale; con un silenzio riflessivo proscritto da un regime di obbligo comunicativo,
ecc.), nel momento in cui mi metto in rapporto con questo mondo simbolico e lo posso oggettivare in
un giudizio critico o nella creatività, allora io divengo parte attiva del mondo esterno.

La mia introversione si estroverte come sensibilità, riflessività e creatività, senza passare per
alcuna mimesi delle caratteristiche tradizionalmente attribuite all’estroversione.

Quello della giusta valutazione dell’introversione va considerato come un esempio di ciò che
definisco Psicologia sociale delle attitudini: lo studio di caratteri psicologici e neuropsicologici
differenziali; cui dovrebbe a mio avviso seguire la formazione di gruppi per la valorizzazione di
tali caratteri differenziali, soprattutto se minoritari. Tale disciplina dovrebbe esplicarsi in una
prassi attiva (una Pragmatica psicosociale, come amo definirla).

In rapporto all’introversione, la mia attività consiste allora non solo nel curarne la specificità
psicologica nel colloquio duale, ma anche nel creare contatti e gruppi di solidarietà, di studio, di
sensibilizzazione, di difesa e di valorizzazione di quest’attitudine psicologica minoritaria, perché
la società contemporanea sia indotta a riflettere sulla ricchezza umana che essa colpevolmente
ignora, se non addirittura dileggia e perseguita.

(Originariamente pubblicato su Psicoterapia Dialettica)

www.neuroingegneria.com/

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