IL MONDO NELL’ARTE E L’ARTE NEL MONDO

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IL MONDO NELL’ARTE E L’ARTE NEL MONDO

Tratto da una conferenza del Prof. Marco Ferrini,
tenutasi ad Albettone l’1 Novembre 2008.

A cura di Fabrizio Fittipaldi

Cominciamo col dire che la mondanità non deve esser vista come un inferno, come qualcosa di
repellente o ripugnante: questa non è la corretta visione. Dobbiamo cercare di diventare sensibili
alla sofferenza altrui, coltivando il nobile sentimento della compassione. Un artista, un creativo,
che ha le antenne più lunghe del resto dell’umanità, è sicuramente più sensibile alle nevrosi, alle
devianze e alle sofferenze; come anche alle speranze e ai sogni della società. Che l’artista non
commetta l’errore, commesso da molti così detti artisti, di innamorarsi del mezzo, dimenticandosi il
fine e che, sedotto dalle lusinghe e dagli apprezzamenti generali, incantato e rapito dalla propria
stessa opera, non perda di vista il senso di responsabilità verso lo spettatore e il suo specifico
dovere sociale (in sanscrito svadharma). Non tutta la creatività giunge a varcare la soglia del
tempio dell’arte e non tutti quelli che fanno musica o che imbrattano tele possono davvero essere
annoverati come artisti. Solo quando il senso estetico dell’artista -educato dalla pratica della
virtù e della purificazione- travalica la soglia della percezione sensoriale, possiamo cominciare a
parlare di arte. La Madonna del cardellino di Raffaello non riproduce la percezione sensoriale che
l’artista aveva del modello, né tantomeno la Gioconda di Leonardo o le Pietà di Michelangelo. Questi
modelli, seppur esistenti, non erano sicuramente di natura tangibile; erano piuttosto modelli ideali
che l’arista è riuscito a visualizzare e a trattenere nella materia, infondendovi sentimento,
aspirazione, bellezza, pathos. Questa è vera arte: la manifestazione di una forza entropica,
vitalizzante e trasformatrice; di una corrente ascensionale che innalza lo spirito oltre gli i
limiti della dimensione materiale, ma che non sempre è espressa in maniera soddisfacente.

Tra i moderni, molti sono coloro che, attraversati da questa energia divina, hanno deformato la loro
visione, sforzandosi di sfuggire alle strette maglie dell’illusione. Dostoevskij, Kandinsky,
Chagall, de Chirico hanno sentito il bisogno di superare la loro percezione sensoriale, poiché
intuivano una realtà ulteriore: una forza, una tragedia, un mare di pathos che non potevano
descrivere formalmente e accademicamente, ma solo per mezzo dell’interpretazione soggettiva.
Purtroppo non tutte le interpretazioni producono effetti desiderabili e spesso proprio a causa di
questo sforzo innaturale l’artista finisce con l’accrescere le sue sofferenze. Van Gogh aveva la
sensibilità dell’artista e sentiva intensamente che la verità e la realtà delle cose gli sfuggiva.
Non poteva e non voleva dipingerla così come si sarebbe presentata ad una macchina fotografica di
oggi e così la interpretava, nel tentativo di esprimere la sua speciale (seppur immatura)
sensibilità e visione. Scrittori come Dostoevskij vivono sull’orlo della nevrosi e si mantengono
all’interno di una struttura tutto sommato ancora sana proprio grazie all’espressione artistica,
descrivendo i tormenti e le tragedie delle figure che emergono dai loro romanzi.

Tutti conoscono i grandi del Rinascimento, ma molto meno celebrate sono certe personalità artistiche
che, pure, hanno fornito spunti fondamentali affinché altri, aggiungendo tecnica all’arte,
diventassero “immortali”. Infatti, cosa sarebbe stato del Rinascimento senza Andrea del Sarto o
senza il Pontormo; dove sarebbe sorto il manierismo con le sue forme contrapposte? Altri, poi, lo
hanno sviluppato tecnicamente, come il Vecellio, che è diventato l’uomo di Carlo V, il Tintoretto o
Jacopo Robusti. Bisogna sempre ricordarsi, però, che prima della tecnica c’è l’intuizione:
l’invenzione della prospettiva da parte di Paulo Uccello, la teoria di Monge per la distribuzione
delle ombre in maniera scientifica… una volta acquisite queste grandi idee sembrano cose da niente.
L’arte rappresenta una tensione verso l’alto che può essere trasdotta con innumerevoli mezzi e così
come gli artisti, anche i grandi scienziati hanno prima intuito e solo successivamente dimostrato le
loro scoperte: con i numeri, con le formule, con le regole e con i passaggi logici. Altrimenti il
gregge non avrebbe seguito, avrebbe continuato a pensare che ciascuno è portatore delle proprie
idee, tutte ugualmente valide e sarebbe rimasto attaccato alle sue concezioni erronee.

Galileo, fin dalla fine del sedicesimo secolo, dà l’avvio in segreto a quello che sarebbe poi
diventato il metodo sperimentale, vanto di tutti gli scienziati moderni. Non poteva chiedere un
laboratorio né al Vaticano, né ai Medici o ai Lorena, perché piuttosto gli avrebbero predisposto un
rogo; così sistema le sue cose tra l’Università e il battistero di Pisa per cominciare a osservare
meticolosamente il moti oscillatori del pendolo. L’idea che desidero trasmettere è che l’intuizione
deve essere riconosciuta come l’espressione più luminosa della creatività e che può aversi tanto
nella scienza, pensiamo a Galileo, Einstein o David Bohm, come nella politica o come in qualunque
altra nobile attività umana. In particolare, nella visione di Shrila Prabhupada, è la predica a
rappresentare la madre di tutte le arti, con i suoi contenuti elevati, le sue emozioni intrinseche,
le figure retoriche e lo stile personale. È molto appropriato anche parlare di arte culinaria, il
cui fine, però, non è semplicemente quello di far fare una festa ai sensi, quanto piuttosto
allineare tutta la struttura psicofisica e nutrire l’anima con una preparazione che si concluda con
l’offerta del cibo al Signore Supremo, che ci dà gli ingredienti per cucinare.

L’intuizione è come l’ispirazione e l’ispirazione artistica è come l’ispirazione religiosa,
scientifica, psicologica o filosofica. Dobbiamo diventare capaci di vedere la bellezza dovunque,
anche nell’accostarci a una mosca: vedere questa bellezza, che non è quella che ci rimandano i
sensi, è l’essenza dell’arte perché se non la si percepisce non la si può descrivere. L’opera d’arte
trasmette la visione dell’artista. A metà del millecinquecento il Pontormo scrive un diario ed è il
diario di una persona che soffre, di una persona che è contorta dalla sofferenza; nella sua
rappresentazione della deposizione la figura del Cristo (tirato giù dalla croce come fosse un
manichino) e quelle dei testimoni della Sua passione portano i segni di questa sofferenza.
Nell’affresco di Piero della Francesca, l’espressione di coloro che contemplano il Cristo risorto è
carica di speranza e sembra che dicano: “risorgiamo anche noi!” L’arte quindi non corrisponde alle
dimensioni della tela o ai valori di mercato suggeriti dalle maggiori case d’asta: questa è la
macellazione dell’arte, tutta presa dai suoi aspetti esteriori e interessata a incanalare,
attraverso la propaganda, il consenso su certi nomi, piuttosto che su altri.

In conclusione il mondo può essere d’ispirazione per fare arte. Siamo nel mondo e dobbiamo aiutare
le persone che sono qui. Dobbiamo esprimere la nostra sensibilità per dare una qualità migliore alla
vita e rappresentarla in maniera che diventi una lectio, una upadesha, un insegnamento. Questo è il
dovere di un artista. Termino con un aforisma di un poeta che per certi suoi aspetti arguti mi è
molto caro: “Scrivere un libro è meno che niente, se il libro fatto non rifà la gente”. Vale per i
quadri, vale per i concerti, vale per qualsiasi cosa: se noi perdiamo la finalità per cui operiamo,
tutto diventa scadente.

arteespiritualita.blogspot.com/

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