Il mondo fuori e il mondo dentro

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Il mondo fuori e il mondo dentro

di Marco Ferrini (Matsyavatardas)

tratto dal sito del Centro Studi Bhaktivedanta www.c-s-b.org

Secondo l’Ayurveda, l’aria (vayu) e lo spazio (akasha) sono due caratteristiche fondamentali della
mente. Lo spazio (akasha) è necessario per l’apertura mentale, l’aria (vayu) per il movimento; la
mente è infatti molto mobile, molto rapida. In questo senso potremmo paragonarla al cielo, un cielo
spesso coperto di nubi, che in questa metafora rappresentano i dubbi, le incertezze, gli insuccessi
accumulati dall’individuo.

In una condizione di conflittualità interiore, di incoerenza tra le aspirazioni profonde dell’anima
e le richieste perentorie dei sensi, la mente si muove rapidamente, bruscamente, oscillando di
continuo da un oggetto all’altro, incapace di finalizzarsi in una direzione precisa; il movimento,
realtà che ha un suo senso positivo, scade così al livello patologico di mera motilità, ed è di
conseguenza causa di esperienze dolorose. Questo rimbalzare incontrollato, senza coerenza, senza
progetto, è ben visibile negli attacchi di ansia, di panico, di angoscia. La perdita di speranza
nella capacità di superare i propri limiti, lo scoraggiamento, sono esperienze che chiudono il cielo
mentale. La persona che vive in un ambiente ristretto, fisico o psichico che sia, è infatti
generalmente depressa. Sul piano clinico le depressioni sono modificazioni del campo mentale in
senso restrittivo, causate da sbandamenti emotivi che legano sempre più ad identificazioni erronee
ed effimere, principale motivo di incatenamento al ciclo di nascite e morti (samsara).
La natura dell’anima invece è felicità, beatitudine, senza sbalzi né discontinuità, per questo non è
soggetta né a depressioni né a eccitazioni, entrambi sintomi di inappagamento profondo e di mancanza
di armonia nell’individuo.

L’aria, l’acqua, il cibo, sono elementi a noi essenziali perché è di questi elementi che il nostro
corpo è costituito. Siamo incapsulati negli elementi, dice la Bhagavad-gita, XV.7: L’essere vivente
nel mondo della vita condizionata è un mio frammento eterno, ma lotta contro i sensi e la mente
situati [generati] nella prakriti.
Eppure esiste una via per liberarsi, per sfuggire ai condizionamenti di questa esistenza costretta,
poiché anche gli elementi materiali, ben descritti nella filosofia Samkhya, originariamente non sono
forza caotica, bensì energia di matrice divina. Ciò è ben spiegato nella letteratura upanishadica,
che descrive in più passi, con un linguaggio simbolico e suggestivo, come nell’uomo e in ogni
creatura siano presenti quegli stessi elementi che costituiscono l’universo, e come questi elementi
siano di origine divina, ciascuno addirittura presieduto da una particolare manifestazione del
Divino:

“Le divinità, una volta generate, si precipitarono nel grande oceano [della vita] …[il Creatore] portò loro un uomo […] quindi disse loro: “Entrate ognuna nella sua dimora!”. Il fuoco, fattosi
parola, penetrò nella bocca; il vento, fattosi respiro, penetrò nelle narici, il sole, fattosi
vista, penetrò negli occhi; i punti cardinali, fattisi udito, penetrarono nelle orecchie; le erbe e
le piante, fattesi peli, penetrarono nella pelle; la luna, fattasi pensiero, penetrò nel cuore; la
morte, fattasi apana, penetrò nell’ombelico; le acque, fattesi seme, penetrarono nel membro virile”…

Nelle persone più dotate di visione, più libere dagli attaccamenti e dai condizionamenti, movimento
e rapidità della mente si associano alla coerenza tra pensiero, parola e azione. C’è un piano, un
progetto cui partecipano anche gli elementi di questa cosiddetta prigione, visibile nell’ordine che
mantiene ogni componente di questa dimensione di realtà. L’evasione è a portata di mano se il
disegno divino della realtà che ci circonda viene svelato; ciò può avvenire soltanto grazie allo
sviluppo della consapevolezza e ad una visione elevata, che conducono verso la liberazione della
Vita dalla crisalide della materia. Tale liberazione del sé spirituale, atman, viene
tradizionalmente definita con il termine moksha, che corrisponde al kaivalya degli Yoga-sutra.

La vista e il respiro sono entrambi collegati alla mente; esiste una visualizzazione interiore più
elevata, ma c’è anche una visualizzazione esteriore che aiuta quella interiore. La visione di bei
paesaggi naturali, ad esempio, aiuta ad espandere la mente, soprattutto se accompagnata da un
impegno costante nella ricerca del sé e dalla compagnia di persone evolute. Simili visioni hanno da
sempre costituito una componente importante nella vita di molti spiritualisti, soprattutto yogi, in
quanto i luoghi di bellezza naturale agevolano l’ espandersi della mente e i moti lieti dell’animo.

Visioni, attività e compagnie profondamente oneste e sincere portano alla guarigione, anche da gravi
disturbi della personalità. I rimedi allopatici hanno effetti limitati e dovrebbero essere
utilizzati solo in casi estremi, perché la cura funziona meglio se è attiva, vale a dire se la
persona viene stimolata a lavorare su di sé, sugli atteggiamenti e sulle abitudini scorrette che
hanno generato la malattia, a reimpostare consapevolmente la propria vita. Questo atteggiamento crea
le giuste condizioni per dialogare, comprendere verità e trovare soluzioni ai problemi.

Molte delle problematiche e delle cosiddette necessità di cui facciamo esperienza nella nostra
società sono inesistenti, fantomatiche, ma le influenze della collettività, della magnetizzante
comunicazione dei media, delle cattive compagnie, le rendono più reali di quanto non siano. E’
proprio per tentare di soddisfare bisogni irreali e quindi artificiali che gli individui affrontano
molte frustrazioni e sofferenze. La fede (nella cura, in sé stessi, nel prossimo, nell’ordine
naturale che assicura armonia al creato, nel Divino) rafforza la guarigione. Per sviluppare fede è
necessario conoscere la scienza della vita, frequentare persone che siano ben indirizzate sul
sentiero della guarigione ed ascoltare da loro esperienze di una differente dimensione di realtà.
La guarigione dai disturbi della personalità può avvenire più facilmente in un’ottica olistica, che
armonizzi i piani fisico, psicologico, sociale, economico e relazionale con la visione spirituale.
La qualità fondamentale da sviluppare è l’equilibrio, strumento di superamento degli opposti, quindi
di trascendenza.

Nella Bhagavad-gita, Krishna parla dei condizionamenti provocati dalle tre influenze della natura
materiale: ignoranza, passione e virtù. Le persone non vengono condizionate soltanto da tamas, che
produce inerzia e paralizza la coscienza, né solo da rajas, che genera l’azione caotica e agitata
ma, paradossalmente, anche da sattva; questa situazione si manifesta nell’attaccamento al senso di
benessere che, se non trasceso e quindi portato al suo stato di effettiva purezza attraverso la
bhakti , può anch’esso risultare un ostacolo sulla via della perfezione. Brutto e bello, attrazione
(raga) e repulsione (dvesha) sono coppie di opposti (dvandva), cause di condizionamento e infine di
dolore. L’obiettivo della realizzazione spirituale è quello di superare ogni coppia di opposti, per
poter contemplare anche la bellezza e il benessere in maniera distaccata. Il piacere, se incanalato
verso la realizzazione spirituale, non costituisce una diminuzione della disciplina (sadhana) o
della rigorosa coerenza (tapas) anzi, contribuisce ad espandere la coscienza.

Nel decimo capitolo della Bhagavad-gita il Divino viene descritto anche in termini di bellezze
naturali; Krishna afferma, ad esempio, di essere lo splendore del sole e della luna, ed anche
l’Himalaya, oppure il mare . Più che indicazioni geografico-culturali, si tratta di categorie della
nostra esperienza nel mondo sensibile che si impongono per presenza e magnificenza, rappresentando
dunque l’aspetto eccelso del fenomenico. Ecco allora che il Divino assume caratteristiche di
onnipresenza, non in senso panteistico, quanto piuttosto come radice unica e spirituale di ogni
manifestazione. Contemplare paesaggi naturali con un elevato livello di coscienza equivale ad
ammirare ed apprezzare ovunque la potenza e la magnificenza di Dio, interno ed esterno ad ogni
realtà oggettiva.

Una della sezioni dei Veda è titolata Upasana kanda, ‘Sezione della Contemplazione’. Per
contemplazione tradizionalmente s’intende la capacità di cogliere l’intima relazione di ogni parte
col Tutto e di scorgere ovunque la comune radice spirituale, fondamento e sostegno degli esseri e
del creato: l’anima suprema, Paramatma. Questo universo, questo pianeta, questi corpi, vivono
perché c’è Paramatma, perché c’è un’espansione del Divino in ciascuno di noi, che è anche ciascuno
di noi.

Anche la contemplazione, come ogni attività di questo mondo, avviene su diversi livelli di
coscienza. La contemplazione di un’alba o di un tramonto sono motivo di gioia così intensa, che
amplifica il nostro desiderio di perfezione e di realizzazione spirituale. Nel RigVeda ad esempio,
troviamo un emozionante inno al sole; il sole splendente che sorge e inonda tutto di luce è uno
spettacolo che ci ricollega al mondo spirituale. L’autentica spiritualità, ben lungi dall’essere una
fuga dal mondo, non può prescindere dalla contemplazione, dall’ammirazione del fenomenico come opera
del Creatore.

L’importante è acquisire e mantenere coscienza della natura effimera della dimensione terrena. Anche
nei luoghi più meravigliosi di questo mondo, le persone continuano ad invecchiare, ad ammalarsi, a
morire e a rinascere. Nascita (janma), morte (mrityu), malattia (vyadi) e vecchiaia (jara)
rappresentano, sul cammino indicato nella letteratura Vedica, le sbarre da spezzare per evadere
dalla prigione. I saggi della Tradizione hanno visto in queste quattro condizioni della vita
incarnata mali da cui guarire. Queste quattro condizioni sono universali; nella natura fenomenica
esistono comunque e dovunque; quindi il vero problema da risolvere è svincolarsi
dall’identificazione con il corpo.

La guarigione risiede nella capacità di gestire le risorse a nostra disposizione e le forze che le
strutturano. Queste energie (guna), mattoni da costruzione di questa dimensione di realtà,
costituiscono la qualità dell’atto; sono tre e tradizionalmente vengono indicate come ignoranza
(tamoguna), passione (rajoguna) e virtù (sattvaguna). Il piano divino per la liberazione dell’essere
passa attraverso l’elevazione dalla letargia alla leggerezza, dall’inazione alla progettualità. La
predominanza di tamoguna causa malattia e vecchiaia precoce e quindi una catena di nascite e morti
molto ravvicinate.

Sattvaguna, invece, è quella modalità di vita in cui ci si ammala poco, s’invecchia meno rapidamente
e ci si avvicina alla comprensione dello scopo dell’esistenza. Ecco perché i saggi, i rishi vedici,
gli acarya, consigliano la virtù come modalità di vita, come percorso, non per goderne fine a sé
stessa, in quanto come abbiamo visto ciò farebbe ristagnare l’individuo, ma come modalità per poter
trarre il meglio da ogni esperienza.

Questo mondo è allo stesso tempo affascinante e crudele, capace di produrre visioni estatiche e
brividi di terrore. La reazione dipende dal punto di vista e dallo stato d’animo profondo
dell’osservatore. Non possiamo evitare di celebrare le glorie dell’Autore di questa magnifica opera
d’arte che è il creato; concentrandosi con gratitudine sul Creatore e su quanto c’è di bello, di
splendido nel mondo, è legittimo un moto ascensionale dell’animo. E’ ammirevole e doveroso far
qualcosa per coloro che soffrono e per questo mondo che sta ammalandosi a causa dello sviluppo di
una civiltà per certi aspetti nevrotica, ma è anche vero che voler fare qualcosa che va al di là
delle nostre capacità d’intervento, di solito deprime, e la depressione, com’è noto, non è
certamente una cura.

La soluzione consiste dunque nell’apprendere il senso della vita, le sue finalità e di conseguenza
impostare la propria esistenza in modo da guadagnare forza e ispirazione; una volta interiormente
rafforzati ed ispirati, saremo anche capaci di investire questa energia nella soluzione dei nostri
problemi e, con gioia e speranza, affrontare quelli del mondo.

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