Gli 8 simboli di buon auspicio del buddhismo tibetano

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GLI OTTO SIMBOLI DI BUON AUSPICIO DEL BUDDHISMO TIBETANO

di Paolo Roberti

Siddharta Gautama, principe nepalese figlio del re degli Sakya, vissuto nel
VI secolo a.C., fu chiamato il Buddha ossia il Risvegliato, l’Illuminato
dopo aver raggiunto l’Illuminazione Suprema, aver conquistato per sempre la
pace suprema del Nirvana ed essersi con ciò liberato dal ciclo delle
rinascite.

Siddharta Gautama non fu un Dio sceso fra gli uomini per riscattarli e
redimerli, fu un uomo che con le sue proprie forze, compì un’ascesi che lo
condusse fino al divino. Da questo punto di vista il Buddhismo è più una
filosofia che una religione non affermando l’esistenza di un Dio
trascendente che ha creato una volta per tutte questo universo e noi stessi,
ma postulando che l’universo in cui viviamo è eterno anche se attraversa
periodi ciclici nei quali non appare sempre nella stessa forma e che
ricordano la teoria dell’universo pulsante della più recente scienza
cosmologica.

A differenza però degli ordinari sistemi filosofici e in armonia con tutte
le grandi religioni cui si affratella, il Buddhismo propugna una dottrina
che prevede la possibilità dell’Illuminazione totale la quale comporta l’
ottenimento della Pace Suprema e la Liberazione dall’obbligo del ciclo delle
rinascite. Insegnando la propria Dottrina (Dharma) (1) il Buddha ha indicato
agli uomini, monaci o laici che siano, la Via e il modo per giungere laddove
lui stesso è giunto.

IL DOPPIO SCETTRO o VISVAVAJRA

Vajra in sanscrito significa sia folgore che diamante. Con ciò si vuole
indicare l’essenza purissima, luminosa, indistruttibile, prima e ultima di
tutte le cose.
Il vajra deriva storicamente dallo scettro-saetta di Indra, la più alta
divinità dei Veda, dio del tuono e del firmamento.

Nel Buddhismo Tantrico o Vajrayana (Veicolo o Sentiero del Diamante) il
Vajra, in tibetano rDo-rje (Signore delle Pietre) simboleggia l’
indistruttibilità, l’eternità e la purezza adamantina e immacolata della
Dottrina, la forza del Metodo della Dottrina, la luminosa essenza della vera
realtà di tutto ciò che esiste.

Il rDo-rje è il simbolo maschile della Via verso l’Illuminazione,
indissolubilmente legato al simbolo femminile che è la campana rituale (in
sanscrito ghanta, in tibetano drilbu) che sta a significare la Conoscenza,
la Pura Gnosi, la Saggezza Trascendente, la Perfezione della Saggezza (in
sanscrito Prajna Paramita), l’Energia-sostanza della manifestazione, la
Verità Assoluta (2).

Nel mondo che noi vediamo e tocchiamo ma anche nel mondo più sottile delle
energie e delle forze che muovono la materia non vi è, secondo il Buddhismo,
nulla di stabile, di perenne, di eternamente duraturo.

Tutto scorre, si trasforma, muta da uno stato ad un altro incessantemente,
da qui il termine samsara che vuol dire il mutamento dello stato fenomenico
di contro al nirvana. Questo lento o velocissimo cambiare costantemente
delle cose non vale solo per la materia e per le energie che la plasmano ma
vale anche per i fenomeni psichici (pensieri, sentimenti, atti di volontà)
al centro dei quali sta come un re, giusto o tiranno, il nostro Io, la
nostra stessa coscienza di essere, la quale pure non è affatto stabile e
sempre identica a se stessa. E’ invece una realtà dinamica in perenne
trasformazione, vuoi nell’arco di una stessa vita, vuoi nell’arco di
molteplici vite o rinascite nelle quali ciascuno di noi eredita un
patrimonio mentale del quale fa però l’uso che vuole.

Ciò fa sì che anche se c’è una reale continuità mentale fra una rinascita e
l’altra, non vi sia una identità personale definita e stabilita una volta
per tutte ma una personalità in continua evoluzione che può diventare buona,
luminosa, divina da cattiva, tenebrosa e demoniaca che era o viceversa.

Questo eterno cambiare e trasformarsi delle cose, che comporta
inevitabilmente un continuo alternarsi di esperienze felici e dolorose del
corpo e della mente non è però un meccanismo ineluttabile senza via di
scampo. Se ne può uscire, si può fare cessare, interrompere, risalendo a ciò
che era in origine, un’origine senza tempo, passando dalla mente comune,
alla natura ultima della mente, alla sua essenziale natura o modo di essere
che è rappresentato dal visvavajra o doppio scettro.
La cosmologia buddhista tibetana ci insegna che all’inizio di ogni nuova
manifestazione ciclica dell’universo, quando non esiste nulla, poiché l’
universo precedente è stato riassorbito nel vuoto, la prima manifestazione
in assoluto è il visvavajra.

Dal nulla si automanifesta questo puro stato di coscienza che è eterno,
perfetto, chiaro, luminoso, assolutamente indistruttibile e inalterabile.
Pace perfetta, autocosciente e autorisplendente che è anche la natura ultima
della mente, della nostra stessa mente: questo è lo stato che raggiunse il
Buddha, questa è la nostra vera natura e la vera natura di ogni essere
senziente.

Il visvavajra o doppio vajra ha quattro punte che irradiano da un unico
centro per indicare che da uno stato assolutamente perfetto e puro come il
diamante si espandono in tutte le direzioni dello spazio, cioè verso tutti
gli esseri senzienti, nel passato, presente e futuro la sua luce e la sua
invincibile potenza come folgori.
A questo stato primordiale, a questa essenza adamantina, sempre presente
dentro di noi, nascosto dall’agitarsi della nostra mente, dalle gioie e dai
dolori, dall’attaccamento e dalla repulsione, dalle paure e dalle speranze,
noi possiamo risalire seguendo la Dottrina del Buddha che è rappresentata
dalla Ruota del Dharma.

LA RUOTA DELLA DOTTRINA o DHARMACAKRA

Raggiunto che ebbe Siddharta Gautama lo stato perfetto di Buddha,
rappresentato come abbiamo visto dal visvavajra, egli decise che non era
giusto tenere per sé il frutto della pratica e il metodo che aveva seguito
per acquisire questo stato.

Iniziò quindi a predicare la sua dottrina cioè, come viene detto, fece
girare la Ruota del Dharma, o Ruota della Dottrina o della Legge

Lo fece per la prima volta (3) a Sarnath, non lontano da Benares, l’
odierna Varanasi, dove nel Parco delle Gazzelle (che per questo motivo
vengono spesso rappresentate sotto la Ruota) enunciò le Quattro Nobili
Verità (in sanscrito arya-satya): la Verità della sofferenza, la Verità dell
‘origine della sofferenza, la Verità della cessazione della sofferenza, la
Verità che conduce alla cessazione della sofferenza e l’Ottuplice Sentiero
(in sanscrito astangika-marga) come mezzo per porre fine alla sofferenza e
conseguire l’Illuminazione costituito da: retta visione, retta intenzione,
retta parola, retta azione, retto comportamento, retto sforzo, retta
presenza mentale, retta concentrazione.

Poiché non si trovano in una condizione stabile e definita, tutti gli esseri
senzienti, esseri umani, animali o esseri disincarnati che siano, sono
incessantemente esposti alla sofferenza, dalla nascita alla morte.

La causa di tutte queste sofferenze è data dall’attaccamento che noi
proviamo verso tutte le cose, per i nostri stati d’animo, principalmente
paure e desideri. Quindi per il Buddhismo la sofferenza è condizione
ontologica di tutti gli esseri senzienti immersi nel ciclo delle rinascite.

Esiste però la possibilità di porre fine a ogni sofferenza, compresa quella
della morte, sconfiggendo i tre veleni principali che sono l’ignoranza, l’
ira e l’attaccamento.
L’ignoranza si sconfigge scoprendo quale è la nostra reale natura, cioè
quale è la reale natura della mente; l’ira capendo che tutti gli esseri
senzienti, essendo carne della nostra carne e avendo una loro stessa reale
natura proprio come noi, non vanno prevaricati ma aiutati a scoprirla;
infine l’attaccamento si sconfigge
comprendendo che non è desiderando questa o quella cosa od emozione che si
trova la liberazione dalla sofferenza bensì praticando quanto indicato dall’
Ottuplice Sentiero.

La Ruota della Dottrina o Ruota della Legge (in sanscrito dharmacakra, in
tibetano chos-kyi-‘khor-lo) è il simbolo che racchiude mirabilmente tutto
quanto sopra esposto, come ora vedremo.

Nell’India pre-buddhista la Ruota ebbe almeno due significati che qui
vogliamo menzionare, quello di arma e quello di simbolo del Sole e per
estensione tutti i livelli simbolici ad esso connesso.

Il simbolismo della ruota come arma nel Buddhismo assume il significato di
condizione protettiva come parte e strumento delle pratiche rituali
tantriche che si avvalgono di un mandala (4).

La ruota è costituita dal mozzo, i raggi e il cerchio: il mozzo sta a
significare “il motore immobile”, l’essenza primordiale della mente; i raggi
rappresentano l’Ottuplice Sentiero della pratica per il conseguimento di
essa; il cerchio significa il mondo fenomenico e il suo eterno perpetuarsi
sino a quando sarà sconfitta l’ignoranza che è la radice della sofferenza.

La ruota rappresenta quindi l’ineluttabilità della legge di causa ed effetto
che è alla base della catena delle rinascite e nel contempo la Dottrina che
conduce alla liberazione dalla sofferenza.

Un’altra spiegazione del simbolismo del dharmacakra fa riferimento ai tre
livelli della pratica buddhista: il mozzo sta per la pratica della
disciplina grazie a cui la mente è sostenuta e resa stabile; i raggi stanno
per la pratica della saggezza nella comprensione della vacuità di tutti i
fenomeni, privi come sono di natura inerente, per cui addestrando la mente
nella saggezza della vacuità l’ignoranza è sradicata; il cerchio sta per l’
addestramento della meditazione che sostiene ogni pratica della Dottrina.
Spesso sul mozzo è posto il simbolo dei Tre Gioielli (in sanscrito triratna,
in tibetano dkon-mchog-gsum) che sono il Buddha, il Dharma e il Sangha che è
la comunità dei monaci e dei laici.

Nel suo insieme il dharmacakra rappresenta l’insegnamento del Buddha e ci
ricorda che il Dharma tutto abbraccia e completa in sé, non ha inizio né
fine, ed è nel contempo in movimento e immobile, al di là di tempo e spazio.

Il dharmacakra nel Buddhismo Vajrayana è uno degli Otto Simboli di Buon
Auspicio (in sanscrito astamangala, in tibetano bkra-shis rtags-brgyad),
chiamati anche Otto Preziosi Simboli.

Gli Otto Simboli di Buon Auspicio costituiscono uno dei più antichi e
conosciuti gruppi di simboli della cultura tibetana; essi sono presenti già
a partire dai testi canonici del Buddhismo Indiano, cioè nei testi redatti
in pali e in sanscrito (5).

I seguenti sono gli altri Simboli di Buon Auspicio:

– il Parasole
– i Pesci d’Oro
– il Vaso del Tesoro
– il Loto
– la Conchiglia
– il Glorioso Nodo Senza Fine o Nodo dell’Amore Infinito
– lo Stendardo della Vittoria

IL PARASOLE

Il Parasole (in sanscrito chattra, in tibetano gdugs) è simbolo della
dignità regale e quindi in senso traslato di chi detiene il potere
spirituale.

Derivato dall’arte indiana, il parasole ha diverse varianti nell’iconografia
tibetana, può essere molto elaborato, giallo, bianco o multicolore, di seta,
grande abbastanza da riparare almeno quattro o cinque persone; può essere
altresì composto da più parasoli uno sovrapposto all’altro, a più piani,
arricchito di stringhe e drappi di seta multicolore con frange, il tutto
sorretto da una struttura di legno.

Il parasole simboleggia l’intera attività del Dharma nel proteggere tutti
gli esseri senzienti dalla malattia, da ogni ostacolo e forza avversa, dall’
ignoranza, dalla sofferenza di questa vita, dalla rinascita nei regni
inferiori affinché si giunga alla completa estinzione della sofferenza.

I PESCI D’ORO

Questo simbolo consiste di due pesci d’oro (in sanscrito suvarnamatsya, in
tibetano gser-nya) che solitamente sono raffigurati verticalmente e
paralleli, o leggermente incrociati con le teste in basso rivolte una verso
l’altra. Originariamente in India i pesci rappresentarono i fiumi sacri
Gange e Yamuna. Simbolo del Signore del mondo, i pesci d’oro si ritrovano
non solo nella tradizione Buddhista ma anche nella religione Jaina; in Tibet
essi si trovano solo raffigurati assieme agli altri Simboli di Buon
Auspicio.

I Pesci d’Oro simboleggiano l’auspicio di tutti gli esseri senzienti in uno
stato di assenza di paura, salvati dal pericolo di cadere nell’oceano della
sofferenza e liberi nell’avere acquisito la consapevolezza della natura
ultima, così come i pesci nuotano nell’acqua per loro natura liberi.

IL VASO DEL TESORO

Nell’iconografia tibetana il vaso del tesoro (in sanscrito kalasa, in
tibetano gter-chen-po’i bum-pa) si riconosce per avere in cima un gioiello.
L’uso del vaso risale ai primi giorni del Buddhismo ed è legato agli auspici
di esaudimento di desideri materiali. In realtà “il tesoro” si riferisce al
“nettare dell’immortalità” che è custodito nel vaso: eternità della
Dottrina, il nettare della Conoscenza, dell’acquisizione di poteri
spirituali.

Nel Tantrismo Tibetano si usano differenti tipi di vaso a seconda delle
diverse pratiche rituali.

IL LOTO

Il loto (in sanscrito padma, in tibetano padma) non cresce in Tibet. Questo
dato è oltremodo interessante perché significa che nella cultura e nella
religione tibetane il loto è un’acquisizione puramente simbolica che ha
unito i popoli al di là e al di qua dell’Himalaya nel rappresentare la più
alta visione di Purezza e di Bellezza: lo stelo del loto si erge infatti
dalla melma degli stagni e dei laghi per fare sbocciare il fiore,
incontaminato e incontaminabile, immacolato e perfetto, sopra la superficie
dell’acqua. Il loto è l’unica pianta acquatica che grazie alla forza del suo
stelo fa sbocciare il fiore con un numero di petali sempre regolare da otto
a dodici, tutti uguali fra loro.

Nella loro simmetria i petali hanno sempre rappresentato il simbolo dell’
armonia del cosmo; in questo senso si utilizza il loto nel tracciare mandala
e yantra (6).
Straordinari sono i significati simbolici del loto: la melma rappresenta la
sofferenza, quanto di oscuro e plumbeo vi è nel mondo, tutto quanto
trattiene il nostro essere dall’acquisire quella “chiara visione” che grazie
alla pratica incessante (lo stelo) ci permetterà di elevarci sopra tutte le
contaminazioni del mondo fenomenico per farlo sbocciare, radioso e
immacolato, alla luce della propria consapevolezza. Il loto rappresenta la
purezza di corpo, parola e mente, la vera essenza del nostro essere che è
rimasta fondamentalmente immacolata malgrado il fango del mondo, essa si
realizza solo alla luce della nostra consapevolezza.

Il loto rappresenta la natura di Buddha e nell’iconografia il fiore di loto
è il trono di Buddha e di tutti gli esseri realizzati; è anche uno dei
principali simboli di Avalokitesvara (in tibetano sPyan-ras-gzig, pron.
Cenresi) il Bodhisattva dell’Amore Compassionevole di cui il Dalai Lama è l’
incarnazione.

Il loto a otto petali è l’equivalente della ruota del Dharma che ha otto
raggi.

Nel Tantrismo i centri dell’energia vitale sono rappresentati come dei fiori
di loto a più petali.

Il loto è associato a un aspetto specifico dell’insegnamento o della
saggezza , schiuso o in bocciolo, bianco, rosa, rosso e azzurro: il Dalai
Lama ha anche il titolo di Signore del Loto Bianco, il loto rosa è simbolo
di Siddharta Gautama, il Buddha storico, mentre rosso rappresenta la
compassione ed è perciò strettamente associato alla natura dei Bodhisattva,
invece il loto azzurro, raffigurato in boccio, è un emblema distintivo di
Manjusri, Bodhisattva della Conoscenza Trascendente.

LA CONCHIGLIA

La conchiglia con spirale destrorsa (in sanscrito daksinavartasankha, in
tibetano dung gyas-‘khyl ), bianca, ovale, termina a punta, gradevolmente
grande, non essendo un manufatto, è uno dei più antichi oggetti rituali.

E’ presente come attributo o simbolo di divinità nella cultura brahmanica e
induista, come simbolo di femminilità o come vaso o recipiente per il culto
ovvero come strumento.

Nel Buddhismo Tibetano è chiamata anche “tromba della vittoria” ed è
particolarmente considerata per il suono potente; come oggetto rituale è
usata sia come strumento che come recipiente che come offerta dei sensi.
Conchiglie sono usate anche come ornamento per decorare troni, reliquiari,
statue.
La conchiglia simboleggia il profondo, omnipervadente, vittorioso suono dell
‘insegnamento del Dharma che raggiunge le differenti nature, predisposizioni
e aspirazioni spirituali di ogni essere nei Tre Tempi della manifestazione e
che risveglia dal baratro dell’ignoranza e della sofferenza e richiama a
conseguire la liberazione dal samsara.

IL GLORIOSO NODO SENZA FINE, o NODO DELL’AMORE INFINITO

Il Nodo-senza-fine (in sanscrito srivatsa, in tibetano dpal be’u) è composto
da linee chiuse intersecantisi ad angolo retto. E’ spesso associato al
srivasta hindu. In origine sembra essere stato un simbolo delle divinità
naga (in tibetano klu) divinità che governano i regni sotterranei, le acque,
le rocce, i fiumi, i laghi, la pioggia, la fertilità e l’integrità della
terra; alcuni di essi sono protettori del Dharma ma possono reagire
negativamente contro chi non rispetta i luoghi che abitano; nell’iconografia
e nella letteratura tibetana sono descritti come esseri per metà umani e per
metà serpenti.

Il Nodo-senza-fine è associato al nandyavarta una variante dello swastika,
simbolo primordiale del divenire senza fine. Nella tradizione tibetana il
nodo-senza-fine è simbolo anche del modo incessante della manifestazione, l’
intersecarsi delle linee ci ricorda come i fenomeni sono interconnessi e
dipendenti da cause e condizioni.
Il nodo-senza-fine rappresenta l’unione della Saggezza e del Metodo
(tibetano thab-shes zung-‘brel), tantricamente l’unione della energia
femminile e di quella maschile, la loro armonica inseparabilità,
rappresentando l’amore infinito, la vita infinita, la realizzazione della
loro unione.

Dato che il nodo non ha inizio né fine simboleggia l’infinita saggezza e
conoscenza del Buddha e l’eternità del Dottrina, del Dharma, nel divenire
incessante e perennemente mutevole della manifestazione.

Il nodo-senza-fine è usato non solo in connessione con i Simboli di Buon
Auspicio ma anche da solo come il più alto segno di buon auspicio, per
esempio posto assieme a un dono o in uno scritto significa la connessione
tra chi dona e chi riceve, stabilendo legami per favorevoli circostanze per
il futuro, ricordando che ogni effetto positivo e favorevole per noi in
futuro ha le sue radici, le sue cause dalle nostre azioni nel presente.

LO STENDARDO DELLA VITTORIA

I concetti di “segno di vittoria”, “stendardo” e “bandiera” corrispondono a
vari oggetti nella cultura tibetana che sono in relazione fra loro o per il
nome o per la forma.

Lo Stendardo della Vittoria (in sanscrito dhvaja, in tibetano rgyal-mtshan o
dkyil-gdugs-ser-po nell’accezione monastica), come il parasole, è fatto di
legno, stoffa e seta o riprodotto in metallo.

I vari oggetti correlati al concetto di vittoria si differenziano, per
esempio, dall’avere o meno in cima all’asta delle figure di animali
simbolici, oppure se la bandiera è curva oppure diritta ecc.

Classicamente lo Stendardo della Vittoria è di forma cilindrica, di
struttura lignea, composto da tre livelli con più veli di seta e adornato da
nastri dei cinque colori (blu, verde, bianco, rosso e giallo), solitamente è
posto al centro del soffitto della sala delle assemblee del monastero.
Il grande stendardo è come una bandiera arrotolata che simboleggia la
vittoria di corpo, parola e mente di ognuno di noi nella pratica del Dharma,
attesta la potenza e la vittoria della Dottrina contro ogni ostacolo e ogni
forza negativa, la vittoria della conoscenza sull’ignoranza e la paura, il
conseguimento in corpo, parola e mente della felicità ultima.

———————-

NOTE
(1) La parola Dharma (sanscr.) ha la sua radice nel verbo dhr- che vuole
dire sostenere, reggere.
E’ il concetto centrale del Buddhismo nelle sue diverse accezioni tra cui
quelle di:
– Legge cosmica, Grande Ordine, che è alla base del mondo, in particolare la
legge di causa ed effetto che condiziona
la rinascita.
– Dottrina che esprime la Verità Universale come è stata insegnata e
trasmessa da Buddha Sakyamuni, il Buddha storico.
– manifestazione della realtà fenomenica.

(2) Dall’unione mistica ed estatica delle due polarità maschile e femminile
si realizza nel Tantrismo il superamento di ogni dualismo della realtà
fenomenica, la comprensione assoluta, la pura essenza.
Questa comprensione non va intesa in modo meramente concettuale bensì
esperita attualmente, vissuta nella realizzazione dell’Illuminazione
attraverso la pratica esterna, interna e segreta della Dottrina.

(3) La Ruota della Dottrina è stata messa in movimento altre due volte:
quando Buddha Sakyamuni trasmise l’insegnamento della Vacuità (in sanscrito
sunyata) e dell’Amore Compassionevole (in sanscrito karuna) e come
sviluppare il pensiero che conduce al Risveglio (in sanscrito bodhicitta)
attraverso l’unione del Metodo (in sanscrito upaya) con la Saggezza
Trascendente (in sanscrito prajna) che costituiscono le basi del Buddhismo
Mahayana o Grande Sentiero ovvero Grande Veicolo (della Dottrina).
Si fa risalire l’origine del Mahayana quando, sul Picco dell’Avvoltoio
presso Rajagrha, l’Illuminato trasmise l’insegnamento della Prajnaparamita o
Perfezione della Saggezza.
La Ruota del Dharma fu messa in movimento per la terza volta quando, a
Dhanyakataka presso Amaravati nell’India meridionale, fu trasmesso il
Vajrayana o Veicolo del Diamante o Via del Tantra che costituisce l’
esoterismo buddhista.

(4) Mandala: sanscr. lett. “cerchio” (in tibetano dkyil-‘khor). I mandala
sono rappresentazioni bi e tridimensionali monocrome e policrome, disegnate,
costruite con sabbie colorate o mucchietti di riso, dipinte ovvero
realizzate anche con metalli preziosi. I mandala rappresentano lo spazio
micro e macrocosmico nel quale il praticante agisce ritualmente per
conseguire un determinato stato di coscienza.
Nel Vajrayana sono mandala sia il mondo esterno, sia il corpo che la propria
coscienza,
La struttura di base del mandala è tradizionalmente immutabile ed è
costituita da un palazzo quadrato, con un centro e quattro porte
corrispondenti ai quattro punti cardinali, il margine esterno è solitamente
formato da fiamme o petali di loto nei cinque colori di base, verde, rosso,
giallo, bianco e blu.
Lo stupa di Borobudur, costruito nel IX sec. nell’isola di Java, è il più
grande mandala costruito dall’uomo.

(5) Aryamangalakutanamamahayanasutra, p.531a, 7.

(6) In sanscrito lett. “rinforzo, strumento, supporto”, nell’Induismo è la
rappresentazione puramente lineare, geometrica, delle manifestazioni
cosmiche, delle potenze divine; è l’equivalente grafico del mantra
unitamente al quale è usato nella pratica rituale. Gli elementi essenziali
dello yantra sono triangoli, punti, i cerchi e le corone di loto, il
quadrato, i caratteri dell’alfabeto devanagari con cui è scritto il
sanscrito, lingua sacra.
Lo yantra è un diagramma mistico che richiama nel praticante aspetti e forze
del divino grazie alla loro visualizzazione ed evocazione.

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