Dharma: Intervista con Corrado Pensa

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Intervista con Corrado Pensa

D. Che cosa ti ha portato al Dharma?

R. Credo che aver ricevuto un’educazione cristiana da parte di due genitori
affettuosi sia stato un seme importante per la mia ricerca spirituale.
Ancora mi ricordo quanto fui colpito dalle famose parole di S. Agostino: “Il
nostro cuore è inquieto fino a quando non trova quiete in Te” (Confessioni,
1, 1).

Alla saggezza orientale, mi interessai intellettualmente fin dall’inizio dei
miei studi universitari. All’epoca insegnava all’Università di Roma il
grande esploratore e orientalista Giuseppe Tucci e io rimasi profondamente
affascinato dalla sua personalità. Aveva una conoscenza sterminata della
religiosità asiatica ma non era in alcun modo uno studioso appartato e
distante. Al contrario, nutriva un amore profondo (e parecchio contagioso)
per la cultura buddhista ed era molto sollecito con i propri allievi: il
ricordo delle nostre passeggiate appenniniche resta per me indimenticabile.

Ci fu poi un momento in cui cominciai a sentirmi attratto dall’opera di C.
G. Jung. E un risultato importante di questo nuovo interesse fu che
cominciai a sentire una certa insoddisfazione per una comprensione che fosse
solo intellettuale e a percepire, d’altra parte, l’urgenza di un lavoro di
trasformazione interiore. Ciò significò, in breve tempo, ritrovarmi a fare
psicoterapia e, nel contempo, a fare i primi esperimenti meditativi. La mia
iniziazione nell’autentica pratica del Dharma fu un bellissimo ritiro Zen
con S. Suzuki roshi a San Francisco, seguito da ulteriore pratica di Zen in
California. Avevo già fatto meditazione in India, ma ora la presenza e
l’insegnamento
di Suzuki roshi infondevano un potere particolare alla pratica. Dopo alcuni
anni, durante i quali ci fu, tra l’altro, un fruttuoso interludio di
buddhismo tibetano (Tarthang Tulku a Berkeley), feci il mio primo ritiro di
vipassanâ condotto da Jack Kornfield e mi trovai completamente a mio agio in
questo stile di meditazione, che mi parve particolarmente convincente in
quel suo essere impegnativo e morbido al tempo stesso. L’anno successivo
(1976) arrivai all’Insight Meditation Society (I.M.S.), e cominciò così la
mia lunga e tuttora vitalissima relazione con esso.

D. Ci potresti dire qualcosa di più riguardo al tuo tirocinio meditativo?

R. In anni successivi ho trascorso un periodo di tempo in Thailandia al Wat
Pa Baan Taad, il monastero di Achan Maha Boowa, dove ricevetti insegnamenti
soprattutto da Achan Pannavaddho. Fu una occasione preziosa, venuta anche al
momento giusto, dato che ero fresco dello studio dell’opera di Achan Maha
Boowa. Tuttavia, all’interno della tradizione thailandese della foresta,
sento un’affinità ancora più forte con la scuola di Achan Chah.
Apprezzo molto la possibilità di praticare con Achan Sumedho e ritengo di
aver tratto molto beneficio dal suo insegnamento, così semplice, profondo e
ricco di humour. Mi pare inoltre che Achan Sumedho mostri un talento
speciale nel riuscire a offrire un insegnamento che è tradizionale e
contemporaneo al tempo stesso. E questa combinazione
(tradizionale-contemporaneo) ha sempre rappresentato per me un orientamento
fondamentale, seppure in un contesto di vita spirituale laica e in
associazione con praticanti laici.

Malgrado io non abbia avvertito molta affinità con il loro stile di
insegnamento, tuttavia fare qualche settimana di ritiro con Mahasi Sayadaw
e, più tardi, svariati mesi in due riprese con U. Pandita Sayadaw è tornato
senz’altro di notevole giovamento alla mia pratica. Potrei ancora
soffermarmi su altri insegnanti che ho avuto, per esempio accennando ad
alcuni buoni insegnanti di Dzog Chen con i quali ho praticato di recente. O
potrei evocare con riconoscenza l’ospitalità di quei monasteri cattolici che
mi hanno dato modo di fare tanti ritiri personali negli ultimi vent’anni. Ma
ciò che considero più significativo quanto al mio addestramento è presto
detto: lo scorso autunno, ancora una volta, mi sono ritrovato a prendere
parte al ritiro autunnale all’Insight Meditation Society, 19 anni dopo il
mio primo ritiro autunnale all’I.M.S., nel 1976. Sicché, fondamentalmente,
sono ancora uno studente dell’I.M.S. Infatti l’I.M.S. è il luogo dove mi
sembra di imparare di più e dove la mia pratica si sente particolarmente
nutrita.

Questo significa inoltre che io sono studente degli insegnanti del ritiro
autunnale, a cominciare da Joseph Goldstein. Ho una profonda gratitudine per
lui e per loro. Senza di loro, senza mia moglie Neva, che è anche lei una
praticante, senza due carissimi amici in Italia, senza il mio amico e
fratello di Dharma Larry Rosenberg e senza la guida illuminata e il sostegno
spirituale di una suora cristiana di clausura, io non riuscirei a immaginare
il mio tragitto spirituale.

Infine credo di dover aggiungere un paio di cose a questa descrizione del
mio percorso. Mi riferisco sia all’importanza di una certa misura di
rinuncia che si è naturalmente affermata nel corso degli anni, sia
all’importanza
di essere sposato con una praticante di Dharma. A causa del mio crescente
coinvolgimento nel cammino spirituale e dei viaggi frequenti che ciò
comportava e comporta, fu inevitabile rinunciare a una cosa che amavo molto,
ossia l’attività di psicoterapeuta. Per la medesima ragione, presi atto che
non ero più in grado di attendere a certi grandi progetti di studio e sicché
mantenere il mio status di studioso ben noto nel mio campo diventò più
difficile. Quasi tutte le vacanze, poi, svanirono a favore della mia pratica
intensiva e dell’insegnamento del Dharma.

Tuttavia, non rimpiango in alcun modo di aver fatto tutto ciò: la mia vita
si è semplificata parecchio e adesso mi pare che essa sia volta al Dharma in
ogni sua parte. In passato mi è capitato talora di fantasticare sulla
possibilità di dare una svolta monastica alla mia vita. Ora non più, mi
sento del tutto a mio agio come laico e credo che persino in una grande
città la vita di un laico può essere resa veramente semplice. E un buon
matrimonio, nel quale entrambi i coniugi hanno un impegno del cuore nei
confronti del Dharma mi sembra un aiuto di primissimo ordine per la vita
spirituale.

D. Com’è per te essere praticante, insegnante di meditazione e studioso al
tempo stesso?

R. È una situazione che, da un lato, mi lascia meno tempo per la ricerca.
D’altra
parte mi mette in grado di insegnare e scrivere circa il buddhismo
attingendo alla mia esperienza meditativa oltreché a ciò che ho imparato
facendo lo studioso. Come insegnante di meditazione quando preparo discorsi
di Dharma posso trarre vantaggio da una certa conoscenza dei testi e da una
qualche sistematicità di approccio. Tuttavia questa è un’arte tutta da
imparare e non la trovo facile: conoscenza e sistematicità possono
trasformarsi in impedimento allorché si cerca di suscitare interesse e
comprensione per la pratica.

D. Tu sei anche stato psicoterapeuta per diversi anni. Pensi che questo ti
sia di aiuto nell’insegnamento del Dharma e nei colloqui individuali con i
meditanti?

R. Allorché cominciai a insegnare il Dharma e a incontrare meditanti non
sono tanto sicuro che il mio bagaglio di psicoterapeuta mi aiutasse. Non di
rado, infatti, mi accadeva di finire col fare terapia, che era stata per
diverso tempo il mio punto di riferimento principale riguardo alla crescita
interiore. In seguito, tuttavia, mi resi conto di questo uso improprio della
terapia e imparai a lasciarla sullo sfondo, per ricorrervi solo quando si
rivelasse necessario. Inoltre, la mia passata esperienza di terapeuta mi
aiuta, credo, a non sopravvalutare e a non sottovalutare la terapia.

Quando suggerisco a un meditante di prendere in considerazione la terapia,
raccomando anche di cercare professionisti che siano davvero competenti e
qualificati, giacché dovrebbe essere ovvio, ormai, che la psicoterapia
superficiale è come la meditazione superficiale: entrambe sono penosamente
inefficaci. Infine, c’è un punto che vorrei sottolineare in special modo,
che è questo: l’aver fatto io stesso terapia è, in effetto, un ottimo
supporto per la mia pratica, poiché mi aiuta a discernere tra ciò che è
soltanto una dinamica psicologia e quello che è il Dharma potenzialmente
presente in essa e cioè la consapevolezza sostenuta e benevolente di quella
medesima dinamica.

D. Oltre a insegnare ritiri qui e in Europa tu sei l’insegnante guida
dell’Associazione
per la meditazione di Consapevolezza (A.Me.Co.) di Roma. Ci potresti dire
qualcosa in proposito?

R. L’A.Me.Co. è stata fondata nel 1987 con un gruppo di cari amici. Ogni
anno, oltre ai vari ritiri residenziali, io mi occupo dell’insegnamento di
tre corsi di meditazione (da novembre a maggio) e di alcuni intensivi non
residenziali. L’A.Me.Co. invita poi regolarmente da altri paesi sia
insegnanti laici di vipassanâ, sia insegnanti monaci dal sangha della
foresta. Periodicamente mi capita di insegnare insieme con Achan Thanavaro,
abate del monastero italiano del sangha della foresta.

Personalmente trovo stimolante e promettente l’insegnamento di corsi
settimanali di meditazione. Ci sono persone che hanno seguito questi corsi
per anni, senza fare particolare esperienza di pratica intensiva. Forse, al
massimo, qualche ritiro breve. Eppure, in virtù dell’insegnamento
settimanale, dei colloqui individuali, del sostegno del sangha, la loro
comprensione della pratica è notevolmente cresciuta.

Allorché si pratica in ritiro non di rado, passati i travagli iniziali, la
pratica può farsi molto piacevole. Ma da un corso serale di meditazione in
una grande città, dopo una giornata di lavoro, è difficile aspettarsi
piacevolezze. I partecipanti sono già stanchi quando si comincia (intorno
alle 20 al più presto). Sicché, per continuare a usare questo strumento un
anno dopo l’altro, occorre un bel po’ di pazienza, fiducia e fede.

Tipicamente in un corso di meditazione, dopo la seduta in silenzio, segue
una fase durante la quale i meditanti possono, se credono, fare domande o
riferire circa la pratica nel quotidiano durante la settimana. Nel corso
degli anni ho visto quanto è importante che l’insegnante non si stanchi di
fornire suggerimenti per il lavoro meditativo fuori dall’aula di
meditazione. Mi sembra che queste istruzioni non debbano essere né
ripetitive o standardizzate ma neppure troppo elaborate o creative. Nella
mia esperienza la cosa migliore è un certo numero di variazioni attorno ad
alcuni fondamentali temi di Dharma.

Ora, per ciò che riguarda la relazione tra pratica quotidiana e ritiri, è
ovvio che se uno può permettersi entrambe le cose questa è una situazione
molto buona. Tuttavia, molti non possono permettersi ritiri più lunghi di un
fine settimana, e poi qualcosa di più consistente, fino a tre settimane,
durante l’estate. Ma se il meditante ha sviluppato una buona base di pratica
in virtù di sedute quotidiane, applicazioni della pratica nella vita,
intensivi di fine settimana, poi, quando finalmente arriva la possibilità di
un periodo di pratica intensiva, allora questa potrà rivelarsi estremamente
feconda e ricca.

A questo proposito, è vero che in Occidente il numero dei centri di Dharma
sta crescendo. Spesso si tratta di centri di ritiro, oppure di centri dove è
possibile ascoltare insegnamenti e avere istruzioni individuali. E tutto ciò
è ottimo. Tuttavia, io credo che c’è bisogno di più centri urbani nei quali
sia implacabilmente sostenuta e incoraggiata la ‘pratica quotidiana a lungo
termine’ e nei quali il lavoro a casa non sia una vaga sperimentazione da
lasciare cadere prima o poi. A me pare che in quest’area sia cruciale
questo: 1. l’insegnante si esercita egli stesso nel lavoro assegnato per
casa, con beneficio della propria pratica e con utilità per i partecipanti,
ai quali egli potrà in tal modo proporre esempi freschi; 2. l’insegnante
sottolinea l’importanza del lavoro a casa mercé l’aiuto di istruzioni
particolareggiate.

Per esempio nella classe degli ‘anziani’ in questo periodo stiamo lavorando
con una combinazione di mettâ (o benevolenza) e consapevolezza della retta
parola. Ogni settimana capita di esplorare aspetti diversi di questa
bellissima combinazione: dalla coltivazione della mettâ verso la nostra
tendenza a giudicarci aspramente per parole scortesi che ci siano sfuggite,
alla coltivazione di mettâ mentre comunichiamo francamente con chi ha
l’abitudine
alla parola divisiva.

D. Stai forse implicando che non consideri i ritiri una cosa importante?

R. Nulla di più lontano dal mio modo di sentire. La mia considerazione dei
ritiri è tale che ogni volta che posso farne uno o che mi appresto a
condurne uno, sento che mi è toccato un privilegio.

Naturalmente riterrei per lo meno strano escludere la possibilità che ci sia
chi può fruttuosamente procedere nel cammino interiore prescindendo da
ritiri, ma penso anche che un insegnante debba basare il proprio
insegnamento sulla propria esperienza e per me i ritiri sono stati e sono
essenziali. Perciò io incoraggio i meditanti a fare ritiri ma cerco anche di
sottolineare che se la pratica viene a mancare tra un ritiro e l’altro ciò è
qualcosa da investigare: che cosa impedisce al Dharma di essere la prima,
gioiosa priorità nella nostra vita?

In tale contesto vorrei esprimere il mio disaccordo da Achan Amaro. Il quale
recentemente ha dichiarato: “Molte persone che io incontro in America hanno
fatto ritiri per 15-20 anni e sono concentratori [concentrators] piuttosto
rifiniti. Ma temo che non abbiano trovato molta libertà” (Inquiring Mind,
12, 1, Autunno 1995, p. 4). Debbo dire che certamente questa non è la mia
esperienza. Ho conosciuto numerosi meditanti in Occidente in un arco di
tempo piuttosto lungo e direi che diversi di loro, dopo anni ricchi di
ritiri, appaiono assai più liberi di prima, benché a volte la loro
concentrazione sia ancora alquanto sottosviluppata!

D. Tu insegni in USA e in Europa: trovi differenze sostanziali tra i
praticanti di Dharma in questo paese e quelli che vivono in Europa?

R. Non direi. E più di una persona ha fatto un’osservazione interessante in
proposito: spesso un meditante a tempo pieno mentre può sentire qualche
differenza tra se stesso e suoi compatrioti che non seguono un cammino
spirituale, trova invece poca o nessuna differenza tra sé e praticanti di
Dharma appartenenti a paesi o persino a culture diverse dalla propria. Mi
sembra un tema cruciale di riflessione: la qualità unificante del Dharma.
Una qualità promettente e portatrice d’ispirazione in un mondo che appare
febbrilmente incline a una dolorosa frammentazione.

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