Derealizzazione e Depersonalizzazione: di che si tratta ?

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Derealizzazione e Depersonalizzazione: di che si tratta ?

di Nicola Ghezzani

(Il presente articolo è stato pubblicato per la prima volta sulla rivista “Lettera ai soci” (il
vecchio nome di PAN, la rivista dell’associazione LIDAP ONLUS) n. 1, anno 2001. Lo ripropongo qui in
forma leggermente modificata.)

Definizione

La depersonalizzazione fu descritta per la prima volta da Dugas Ludovic (uno psichiatra francese)
intorno agli anni ’50. Oggi va compendiata con il concetto di derealizzazione. La differenza fra i
due stati è solo relativa al focus dell’attenzione: la depersonalizzazione implica un appannamento
del senso del sè (persona); la derealizzazione un appannamento del senso della realtà.
I due fenomeni possono essere estemporanei e passeggeri o possono accompagnare stabilmente precise
sindromi psicopatologiche come ansia generalizzata, attacchi di panico (D.A.P.), stress, disturbi
ossessivo-compulsivi. Talvolta possono essere prodotti artificialmente mediante assunzione di droghe
come la canapa e l’extasy.

Genericamente i due fenomeni possono essere descritti come episodi occasionali o persistenti di
distacco o estraneamento da se stessi o dal mondo esterno. La persona che li sperimenta riferisce
spesso frasi di questo genere: “Mi sembra di comportarmi come un automa”, “E’ come se fossi in
trance ma facessi normalmente tutte le cose quotidiane”, “E’ come se una parte di me, del mio
pensiero, fosse assente…”. La ricorrenza, in tali descrizioni, del “Mi sembra” e del “Come se…”
è tipica di chi vive uno stato di ansia “dispercettiva” (che altera le percezioni) e cerca di
descriverlo.
Un altra nota: gli esami elettroencefalografici e psicologici (T.A.T., M.M.P.I.) e i colloqui
clinici psichiatrici, forniscono di solito risultati nella “norma. Dunque, i due fenomeni, presi in
se stessi, non sono in alcun modo da intendersi come neuropatologici o di rilevanza psichiatrica.

Teoria

Nella letteratura psichiatrica contemporanea è invalso l’uso di parlare di derealizzazione e di
depersonalizzazione come di fenomeni fondamentalmente anormali, dunque neuropatologici. Ma non è
stato sempre così. Nella psichiatria d’impostazione fenomenologica ed esistenziale essi erano
considerati forme di esperienza “alterata”, non necessariamente anormale. In questo senso, la
psichiatria moderna ha fatto un deciso passo indietro rispetto al passato. L’ossessione di
“medicalizzare” e “farmacologizzare” ogni fenomeno psichico anche solo leggermente alterato fa della
psichiatria moderna una disciplina “handicappata”: sostanzialmente incapace sia di sottile analisi
psicologica che di complessa costruttività scientifica.

Lo psichiatra moderno, per “illuminarsi” al riguardo, dovrebbe chiedersi come mai alcuni
psicofarmaci, come le benzodiazepine, sono in grado di indurre artificialmente fenomeni di
derealizzazione. Il soggetto che assume benzodiazepine continua a percepire la realtà in modo
cognitivamente corretto, eppure, emotivamente, egli la “sente” remota, lontana, strana, estranea,
rimpicciolita o allargata in modo anomalo ecc.. Perché?
La spiegazione è che le benzodiazepine agiscono direttamente sulle emozioni: esse non fanno altro
che sconnettere il sottofondo emotivo della mente dalle funzioni percettive. La follia, dunque, non
c’entra nulla! Il senso della realtà è stato modificato semplicemente interferendo sulle emozioni.
Il senso di realtà dipende dalle emozioni.

Per comprendere appieno, usiamo una metafora musicale: poniamo che un pianoforte sia stato scordato
da qualcuno che intendeva tararlo su una certa tonalità. I suoni escono dallo strumento stonati,
inclinano ad una tonalità sgradevole o inusuale. Siamo forse autorizzati a dire che il pianoforte è
rotto? Fuori di metafora: se le emozioni sono alterate (anche solo mediante l’uso di psicofarmaci),
alterato è anche il sentimento della realtà, col conseguente prodursi di fenomeni di
derealizzazione. E’ cambiata la tonalità delle emozioni, non è il cervello che è rotto. Non c’è
nessuna patologia mentale intrinseca.
Le emozioni sono la chiave di volta della nostra interpretazione della realtà: esse creano piani di
relazione (alcune cose le sentiamo “vicine” altre “lontane”, ed esse ci appaiono nella distanza cui
le pone l’emozione) e tonalità cromatiche (alcune cose ci sembrano “vive” altre “morte”).
Interferendo sulle emozioni siamo in grado di alterare il nostro senso della realtà. Questo è un
dato evidente; eppure, nonostante ciò, esistono psichiatri che affermano che la derealizzazione è un
fenomeno che deriva da un’anomalia organica del cervello!

La parola de-realizzazione significa, letteralmente, “perdita del senso di realtà”. Pertanto, per
capire appieno cosa significa perdere il proprio senso di realtà occorre, innanzi tutto, capire cosa
significa possedere un senso della realtà. La realtà così come noi la vediamo è un fenomeno sia
oggettivo che soggettivo. Immaginiamo un’altra metafora: facciamo conto di essere di fronte a un
disegno che é il prodotto di un’elaborazione collettiva, per esempio il progetto di un quartiere. Di
questo progetto vengono fatte tante copie quanti individui abitano in quel quartiere; quindi, viene
chiesto a ciascuno di essi di completare il lavoro colorando la propria tavola in modo assolutamente
personale. Ebbene, la nostra percezione-cognizione della realtà è come il progetto urbanistico (è
cioè un fatto comune, un fatto collettivo); i colori, invece, sono le emozioni, che strutturano
appunto il nostro personale sentimento della realtà.

Facciamo un esempio: l’estraniazione. Ciascuno di noi avrà, almeno una volta, sperimentato quel
senso di estraneità e di irrealtà che ci allontana da un contesto sociale: siamo ad una festa, ad
una cena, in compagnia di qualcuno e d’un tratto la scena si allontana con la stessa progressione
con la quale noi ci sentiamo separati e isolati dentro noi stessi. L’isolamento emotivo sperimentato
(l’estraniazione, appunto) è una forma elementare di derealizzazione.
Fenomeni di derealizzazione sono anche la rèverie (l’attività del ricordare in modo vivido e
sognante) e la fantasticheria (quel “sognare a occhi aperti” che nei bambini e in alcuni adulti
introversi o creativi astrae intensamente dalla realtà). Estraniazione, rèverie e fantasticheria
sono fenomeni normali nei quali possiamo renderci conto che la percezione ordinaria della realtà è
un costrutto psichico, un “film”, da cui possiamo distrarci ogni volta che lo desideriamo,
rivolgendo la mente al nostro mondo interno, il quale diventa vivido in modo abnorme, derealizzando
la percezione del mondo esterno.

Senso di realtà vuol dire “appartenenza alla realtà”: nel mio senso di realtà io sono Nicola
Ghezzani, psicologo e psicopatologo, autore di alcuni libri e di numerosi articoli, coautore della
Psicopatologia Struttural-Dialettica, scrittore e poeta, dotato di una certa sensibilità estetica e
filosofica, introverso e intuitivo, nato in certo numero di anni fa in una città del Sud, venuto poi
a vivere a Roma, sposato con una donna introversa e sentimentale e padre di un bambino estroverso,
ludico e creativo. Il senso del mio essere persona (la mia “individuazione” o “personazione”)
dipende dalla mia appartenenza a questa sintetica realtà: questi dati (affettivi, cognitivi,
esperienziali) costituiscono il mio io, il mio mondo, dunque la mia “sicurezza di base”, o
“sicurezza ontologica”, come la chiama Laing. Se una cosa, una qualunque cosa (un evento esterno o
un pensiero), mi portasse a dubitare di quella fonte di certezza che sono per me il mio mondo e i
miei valori, avrei un’elevata probabilità di incorrere in episodiche esperienze di derealizzazione
che allontanerebbero il mio io dal suo mondo e dai suoi valori per riportarlo nell’utero del mondo
interno, dove potrebbe essere coinvolto nella genesi di nuovi pensieri e nuovi significati. Essendo
io un introverso, dotato di una certa sensibilità estetica e filosofica (non solo di processi logici
realistici) sono naturalmente predisposto a esperienze di distacco dal mondo ordinario e di
elaborazione immaginativa di nuove realtà. Il mio senso di realtà, dunque, è soggetto naturalmente a
oscillare secondo il vento emozionale e immaginario che spira dai luoghi riflessivi del mio mondo
interno. Questo è un caso in cui la capacità derealizzante é funzionale, dunque “normale”.

Ovviamente la “funzione derealizzante” può attivarsi in strutture di esperienza psichica anormali,
spesso correlate a personalità patologiche. Ma che cos’è una personalità patologica?
Una personalità patologica é un’identità psichica realizzatasi attraverso “cattive socializzazioni”
(coi genitori, col mondo dell’infanzia, coi valori correnti), che, attraverso traumi o
condizionamenti affettivi, l’hanno resa gravemente artificiosa e falsa (un “falso sé”, direbbe
Winnicott). In questi casi l’identità si è realizzata a dispetto dei bisogni psichici più profondi,
cioè a dispetto delle innate disposizioni neuro-psicologiche soggettive. L’artificiosità e falsità
di base dell’identità comportano, allora, che i bisogni non emersi entrino in conflitto con essa. I
bisogni non realizzati, dunque, si manifestano attraverso emozioni discordanti, dubbi, fantasie e
progetti antagonistici e giungono a confliggere con le forme abituali dei ruoli, degli affetti,
delle convinzioni individuali. Quindi, poiché l’identità, per quanto falsa, costituisce il
fondamento di ogni legame e di ogni certezza, la persona che è entrata in conflitto con essa (con la
sua stessa identità) può sentirsi in colpa o – anziché sentirsi in colpa – può provare ansia per la
sua spinta a dissociarsi dalle certezze affettive e ideologiche abituali.
Se la prevalenza emotiva è di tipo ansioso, possono aversi reazioni di panico di due tipi
principali.

1. Nel caso che l’ansia abbia come oggetto la perdita del proprio mondo abituale il panico è di
solito agorafobico, nel senso che l’io si sente “perso” in una condizione di atopia, di smarrimento
del proprio “luogo”, del proprio abituale senso di realtà.
2. Nel caso l’ansia abbia, invece, come oggetto la perdita di se stessi (il controllo su di sé) il
panico è di solito claustrofobico oppure attiva una fobia relativa al corpo o alla mente (paura di
morire o di impazzire).

Per contro, se la prevalenza emotiva va in direzione del senso di colpa, è possibile si strutturi
una depressione, ossia un sentimento acuto o cronico di negatività, che può investire tanto se
stessi quanto il mondo.
Nel caso l’oggetto dell’attacco depressivo riguardi se stesso, il soggetto può sviluppare sentimenti
d’insicurezza e di autodenigrazione che possono portare dalla depressione ansiosa a quella
ipocondriaca fino a quella autoaccusatoria.
Nel caso, invece, l’oggetto dell’attacco depressivo sia il mondo esterno, il soggetto avverte il
mondo intero come un luogo del tutto inadatto alla vita e alla felicità. In questa forma depressiva,
l’io si trova collocato nel mondo in una condizione definibile come distopia (il contrario di
utopia), una condizione di estraneamento e di assoluta negatività, nella quale la realtà viene
allontanata per la sua insopportabile bruttezza.

Anche in questo caso siamo di fronte ad una derealizzazione, questa volta di tipo depressivo. Per
quanto essa rifletta un giudizio soggettivo arbitrariamente avvertito come oggettivo, la percezione
depressiva della negatività del mondo è comunque una percezione complessa e sottile e come tale va
rispettata e attentamente indagata. Le si fa certamente un torto a volerla sopprimere alla radice
come si appresta a fare l’ingegneria genetica, che sarà in grado, tra non molto, di intervenire sui
geni regolatori delle strutture neurologiche, appiattendo la gamma emotiva e costringendo così tutti
gli esseri umani a sperimentare un’unica monocroma percezione della realtà.

In sintesi, la derealizzazione è, all’interno di queste complesse dinamiche psicologiche (fobiche o
depressive), una manifestazione ansiosa relativa a quella separazione dalle certezze abituali che è
abbinata ai processi di crisi e di cambiamento. Corollario di questo teorema è che più il soggetto é
passivamente aggrappato al suo mondo abituale, più la sua differenziazione psicologica indurrà
fenomeni di ansia e di panico; più il soggetto, viceversa, è fiducioso dei segnali che gli
provengono dal mondo interno, meno avrà paura dell’apparente “stranezza” del suo distacco emotivo,
affettivo e percettivo dal mondo esterno.
(Per una più esauriente trattazione del fenomeno della derealizzazione consiglio di leggere il terzo
capitolo del mio libro Uscire dal panico – Ed. Franco Angeli. Questo libro può essere acquistato in
una qualunque libreria ed èibs).

Testimonianza di un’esperienza di derealizzazione tratta da una rivista di Auto Mutuo Aiuto
(di R. C.)

Preferisco, nel mio caso, non parlare di DAP o di “attacco di panico”, perché non sono ancora sicuro
che ciò che s’intende per “attacco di panico” sia esattamente ciò che provo…
Quella “cosa” di cui parto fece la sua prima comparsa nell’inverno dell’anno 1974, quando avevo
l’età di dieci anni, mentre mi trovavo ad assistere ad una funzione religiosa che si stava svolgendo
nella chiesa del mio quartiere nel tardo pomeriggio. La crisi fu inaspettata e violenta, provai la
sensazione di essere, portato via” dal mondo che mi circondava. Io c’ero e nello stesso momento non
ero più presente, ma mi trovavo “oltre” le cose e le altre persone che stavano accanto a me, pur
mantenendo uno stato di coscienza normale ed essendo capace di svolgere qualsiasi funzione fisica o
intellettiva senza alcun pregiudizio. Vissi alcune settimane di crisi ricorrenti (di diversa durata,
più volte al giorno), nella disperazione totale ma senza proferire parola sull’accaduto a nessuno (i
miei famigliari non sanno nulla neanche oggi). Appena mi riusciva di restare solo piangevo
disperatamente e mi chiedevo In continuazione “perché a me?”. Pregavo perché quella “cosa” se ne
andasse. Mentre stavo per perdere ogni speranza e cominciavo a guardare la vita e tutto ciò che mi
circondava con gli occhi di un condannato, quasi non m’accorsi che quella “cosa” mi aveva
abbandonato. Vissi felice e spensierato per un anno. Ancora non sapevo che una volta aperta quella
porta bastasse volgere un attimo lo sguardo verso di essa per essere nuovamente trascinati nel
“vortice della paura”. Puntualmente durante le feste di Natale dell’anno 1975 “lei” tornò. Furono
altre drammatiche settimane e altro ne seguirono durante l’anno e negli anni successivi ma sempre
con una maggior frequenza durante le feste di Natale. Qualcosa però stava cambiando, ad ogni nuova
crisi, giorno dopo giorno, imparai a conoscere quella “cosa”, ad accettarla, ad ignorarla, o
addirittura a rievocarla, a sfidarla; imparai a provocarmi una crisi in qualsiasi momento volessi e
ad uscirne subito scuotendo la testa e sorridendo: ero riuscito a beffarmi di “lei”…

Ciò che fino a ieri stupidamente ritenevo fosse una condanna riservata solo e me in realtà la stavo
condividendo inconsapevolmente con tante altre persone. In realtà avevo già maturato l’ipotesi
logicamente fondata sull’esistenza di altre persone con lo stesso disturbo ma il prezzo da pagare
per ricercarle sarebbe stato troppo alto: uscire allo scoperto con il rischio di non essere capito.
Nel corso degli anni, dopo aver temuto di avere qualche disturbo mentale o di essere epilettico (per
contro ho anche sospettato di essere un individuo alieno), ho cercato di dare una mia spiegazione
logica pur avendo limitatissime conoscenze in campo medico psichiatrico, a ciò che mi accadeva e
sono arrivato alla seguente conclusione: quella “cosa” che mi accompagna da anni è tutt’altro che
una maledizione, una condanna o una grave malattia ma altro non è che la capacità della mente umane
di imboccare un percorso insolito e alternativo nella percezione del reale.
Quando studiavo al liceo cercai delle affinità con alcune personalità artistiche e le trovai nel
Manzoni con le sue crisi di agorafobia, nel raptus suicida di quel bambino che, se non ricordo male,
era un Alfieri sofferente in tenera età di un ingiustificato “male di vivere” e in tanti altri casi
che lasciavano trasparire visioni che andavano oltre la piatta realtà del quotidiano.
Insomma da diversi anni ritengo che convivere con quella “cosa” o per meglio dire con quella qualità
non sia così negativo e che il fatto di possederla (preferisco pensare di essere io a possederla che
non “lei” a possedere me), mi contraddistingua come persona speciale dotata di una sensibilità
particolare.

Ora che so che forse non sono il solo, mi si apre il cuore e per me è un’ulteriore conferma del
fatto che esistono persone che hanno una sensibilità maggiore o comunque differente rispetto ad
altre nella percezione della realtà. E’ come scoprire l’acqua calda. Sono perfettamente d’accordo
con quel poco che ho letto dei vostri scritti a taglio scientifico che una reazione sbagliata
dell’individuo che prende coscienza di quel qualcosa di strano che gli accade possa generare seri
problemi di natura medica e psichiatrica.
Posso dire al giorno d’oggi di aver reagito alle mie crisi con coraggio e forse nel modo più
corretto, ho sviluppato un discreto self-control sin dall’insorgenza del fenomeno a tal punto da
affermare di non aver subito alcuna influenza negativa in nessun campo da quello affettivo
relazionale a quello professionale (non sono in grado di dire se ci possono essere state influenze
sull’inconscio).
Non pensate però che io sia un presuntuoso o che mi creda un superuomo perché quando mi capita di
addentrarmi in quel “buio sentiero” della mia mente… la paura fa a novanta!, credetemi, e dopo
aver percorso un po’ di strada torno indietro (ahimè! sono un fifone, ho paura di non trovare più la
strada del ritorno che, in altre parole, significa aver paura di rimanere sempre nella condizione di
crisi). Se le mie si possono definire “crisi dì panico”, ciò che differenzia il mio caso da altri,
che si manifestano con evidenti sintomi somatici (sudorazione, tachicardia, ecc.), è dovuto al fatto
che io torno da quel sentiero alla chetichella mentre altri tornano urlando e strepitando…

Non voglio dilungarmi oltre, per cui fornirò altre informazioni che possano rendere più chiara la
sensazione che provo perché possa essere più o meno identificata come crisi di panico.
Se penso razionalmente ad un astronauta che sganciandosi dalla sua navicella si perda nello spazio,
l’idea mi terrorizza ma non più di quanto non accada a tutti, ma se riuscissi a provare veramente
quello che proverebbe l’astronauta in questione, potrei dire di essere molto vicino a ciò che provo
in una delle mie crisi.
Potrei dire che nel corso di una crisi mi sento “altro” rispetto alla realtà che mi circonda, è come
se improvvisamente io fossi “fuori” dal contesto, ma in una posizione dominante: la realtà che mi
circonda mi appare solo una parte di qualcosa di più grande che riesco a percepire.
Nella speranza che la mia esperienza possa essere utile anche ad altri, così come le altre lo
saranno per me, Vi saluto porgendovi un caloroso grazie.

R.C.

(Originariamente pubblicato su: Psicoterapia Dialettica)

www.neuroingegneria.com/

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