Condivisione profonda e guarigione spirituale

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Condivisione profonda e guarigione spirituale

di Mauro Scardovelli

(introduzione al libro “Musicoterapia e malati terminali”, di Ghiozzi-Scardovelli)

Origine della sofferenza: l’illusione della separazione

Secondo la psicologia asiatica, i concetti di separazione, che, attraverso
il linguaggio, dominano la nostra cultura e la nostra vita, sono la causa
prima della sofferenza. Ciò che consideriamo come reale, la divisione tra
‘io’ e ‘altro’, è, di fatto, un’allucinazione.
Tale allucinazione, condivisa dalla scienza ufficiale, è frutto di ignoranza
rispetto alla vera natura della mente, quale essa emerge dalle tradizioni
sapienziali e dalle conoscenze accreditate dai maestri e dai saggi di tutti
i tempi.

Essa comporta inesorabilmente la perdita del nostro potenziale umano più
alto: la capacità di amare in modo incondizionato. “Il momento critico del
cammino, che schiude il cuore che ama, è la comprensione che non siamo mai
esistiti come esseri isolati e separati. Quando la saggezza riconosce la
nostra unità e vede l’interconnessione di tutti gli esseri, ci riempie di
una felicità tale da trasformare tutta la vita” (Salzberg, 1995).

La nostra psicologia, invece, considera il concetto di separazione
indissociabile da quello di individuazione (Epstein, 1998). L’esperienza d’
interconnessione profonda – negli stati mistici, negli stati profondi, nelle
esperienze delle vette – è considerato nient’altro che una forma di
regressione ad un precedente stato di indifferenziazione o fusione.

In tal modo collude con l’allucinazione collettiva, di cui anch’essa è
figlia. Confondendo il prepersonale con il transpersonale (Wilber, 1995),
non può fornire un grande aiuto nelle questioni di fondo, nei problemi
esistenziali più gravi: vecchiaia, malattia, morte.

Recentemente un allievo mi ha riferito di una conversazione avuta con uno
psichiatra di formazione psicoanalitica ortodossa. L’allievo aveva espresso
la convinzione – da noi condivisa -, che lo scopo finale di un percorso
evolutivo o di una terapia riuscita è ricontattare uno stato di gioia, un
senso di felicità e di pace, che si compagna naturalmente al contatto con il
sé profondo e ad una vita pienamente vissuta. Lo psichiatra reagì a quest’
affermazione con malcelata aggressività ed indignazione: “Voi siete una
setta, un’associazione pseudoreligiosa, non certo una scuola di formazione o
psicoterapia. Voi alimentate illusioni e false speranze. Ciò che si può
realisticamente ottenere è solo una sostenibile infelicità!”.

Ho sentito spesso pronunciare parole simili, da parte di riconosciuti
esponenti del mondo della psicologia e della psicoanalisi.
E ho anche visto parecchie persone dopo anni e anni di psicoterapia che
dicono di stare “così così”. Non troppo infelici, ma neppure contente. Non
più nel baratro, ma neppure nella luce. Certamente prive di ogni entusiasmo.

La “sostenibile infelicità”, versione moderna della “media infelicità” di
freudiana memoria, può considerarsi un risultato accettabile, per il quale
vale la pena di spendere tanto tempo e tanto denaro? Dal nostro punto di
vista la risposta è univoca: no!

Accettare questo come unico obiettivo possibile comporta una profonda
svalutazione dell’essere umano e del suo potenziale spirituale, del quale
l’amore, la compassione e l’empatia nella gioia sono componenti essenziali.
Non casualmente uno dei sette fattori d’illuminazione indicati nello Yoga è
il “gioioso entusiasmo”.

La nostra cultura, non contrastata dalla scienza psicologica tradizionale,
ci ha abituato a considerare normale il cattivo umore, l’irritazione cronica
per i fatti della vita, l’incapacità di relazionarci in modo amorevole e
gentile. Troviamo sempre delle ottime ragioni per non essere soddisfatti,
con l’avvallo della scienza ufficiale!

La psicologia clinica occidentale ha l’indubbio merito di aver sviluppato
molte tecniche per contattare l’ombra e trasformare le emozioni negative. Ma
ha ben poco da dire circa la capacità di sviluppare emozioni e atteggiamenti
positivi, come l’amorevole gentilezza e il gioioso entusiasmo (Walsh,
Vaughan, 1993). Anzi, tende a guardare con sospetto di superficialità e di
mistificazione ogni pratica che sia indirizzata a favorire direttamente lo
sviluppo di tali qualità.

Durante tutta la vita ricerchiamo la felicità. Nel profondo sappiamo che la
felicità può essere raggiunta solo se amiamo noi stessi e gli altri e ci
sentiamo uniti (Krishnamurti, 1993). Ma spesso ci isoliamo, temiamo
l’intimità e soffriamo di un disorientato senso di separazione. Imploriamo
l’amore e tuttavia siamo soli, anche in mezzo alle persone.

La nostra illusione di essere divisi l’uno dall’altro e di essere differenti
da ciò che ci circonda è la causa di questo grande dolore.
Riconoscere la natura spirituale dell’uomo significa uscire dal tunnel della
separazione, che conduce all’inferno della frammentazione, della solitudine
e dell’isolamento interiore.
La guarigione spirituale passa attraverso il recupero del senso di
connessione con gli altri esseri umani e con tutti gli esseri. Tale
consapevolezza genera un naturale senso di gioia, qualunque cosa accada.

Il conflitto fondamentale

Le esperienze negative dell’infanzia, l’errata interpretazione degli eventi
infantili e del loro significato, i dolori e le ferite non accettati e non
assimilati, sono tutti aspetti della psiche che vanno esplorati ed elaborati
al fine di liberarsi dalle coazioni e dai vincoli di copione. Il lavoro
personale, come insegna la nostra psicologia, non può essere evitato. Ma
dietro le dinamiche personali, esiste un conflitto di fondo comune a tutti
gli esseri umani: il conflitto tra la spinta evolutiva e l’opposizione ad
essa.

L’ultimo Freud l’aveva intuito ed espresso in termini di contrapposizione
tra Eros e Zanathos. La visione materialista gli aveva però impedito di
esplorare gli aspetti spirituali del conflitto, costringendolo dentro un’
interpretazione riduttiva. Per tale interpretazione Zanathos è espressione
del principio d’inerzia e si traduce nell’aspirazione degli organismi
viventi a ritornare allo stato di materia inorganica.

Secondo la corenergetica, invece, in accordo con molte tradizioni
spirituali, la controspinta fondamentale è dovuta a paura (J. Pierrakos,
1997). Paura di che cosa? Perché mai l’uomo dovrebbe temere proprio ciò che
gli consentirebbe di realizzarsi pienamente e di vivere più felice? Le
possibili risposte a questa domanda sono numerose: perché evolvere significa
abbandonare le certezze del presente per un futuro sconosciuto
(Krishnamurti, 1993); perché significa perdere il senso di appartenenza,
uscire dal gruppo, affrontare la solitudine (Hellinger, 2002); perché
significa abbandonare i piaceri più facili, rinviare la gratificazione,
impegnarsi e faticare (Peck, 1978), ecc.

C’è però una risposta che le sovradetermina tutte: l’uomo ha paura di
abbandonarsi alla spinta evolutiva perché ha paura di essere annientato,
distrutto, perdere la sua identità, morire (E. Pierrakos, 1997).

La spinta evolutiva che permea l’universo è l’amore o forza di attrazione.
Tale forza si manifesta spingendo gli individui gli uni verso gli altri, e
facendo in modo che la separazione risulti penosa e priva di significato. La
spinta verso gli altri si accompagna a piacere supremo. Vita, piacere,
contatto, unità con gli altri, sono pertanto una sola cosa. L’energia vitale
stimola continuamente l’uomo ad uscire dal suo isolamento. Lo spinge verso
il contatto e la fusione (Ibidem).

Ma l’uomo, nel suo profondo, non si fida dell’energia che lo ha creato e che
lo permea. Tale stato si manifesta come sfiducia nei confronti dei suoi
istinti più profondi. In tal modo egli non può avere fiducia nel nucleo del
suo essere. Non può davvero aprirsi ed essere totalmente indifeso e
rilassato. Per questo ha imparato a distinguere tra corpo e spirito, ha
imparato a reprimere e a controllare pulsioni ed istinti, a chiudere il
centro del cuore.

L’uomo che ha paura non può veramente amare, perché amare significa aprirsi
totalmente, rendersi vulnerabili, senza barriere (Osho, 1978).

E qui inizia il circolo vizioso, la profezia che si autoadempie. Ciò che
viene represso per paura, non scompare, ma alimenta l’ombra e il sé
inferiore. Tutto ciò che finisce nell’ombra prima o poi imputridisce e
assume una valenza davvero negativa, come un cane che viene chiuso dentro
una gabbia e diventa furioso. Ciò che fuoriesce dall’ombra fa sempre più
paura, perché si è corrotto e pervertito. E questo rinforza il bisogno di
reprimere.

L’individuo diventa così preda di due forze contrapposte: la spinta verso il
contatto e il rifiuto di questo, prodotto dalla paura. La paura genera due
fondamentali reazioni difensive: il desiderio di ferire o la paura di essere
feriti. Dal momento che il principio del piacere è parte integrante dell’
energia vitale, si lega alle forme distorte che il contatto assume.

Si finisce così per puntare il dito e condannare le manifestazioni più
distorte della corrente vitale e del principio del piacere – ad esempio il
sadismo e il masochismo – ,come se fossero prova del loro carattere
negativo, anziché frutto della repressione.
E così si continua a predicare che il corpo è peccaminoso, e che lo spirito
è buono e puro.

“Questo è uno degli errori più tragici dell’umanità – tragico perché nulla
ritarda il piano evolutivo più di questo malinteso, condiviso anche da
individui, per altri versi, illuminati e ben intenzionati, ma che non sono
disposti a vedere le proprie paure e i propri errori” (Id., p. 120).

Non è possibile avere fiducia nella vita se non si ha fiducia nei propri
istinti profondi, in quanto sono parte della natura divina. L’unica
soluzione è comprendere che gli istinti si esprimono in modo positivo, se
non si interferisce con essi, se non vengono negati o separati dalla loro
origine, a causa di un artificiale dualismo, che li vede contrapposti od
ostili alla crescita spirituale.

La vera guarigione è recuperare la connessione con la totalità, cioè
recuperare i contenuti dell’ombra (Dethlefsen, 1984; Osho, 1978).

“L’uomo può ritrovarsi solo quando comprende questo fatto, e cessa di
lottare contro se stesso, contro i propri istinti, contro il proprio corpo e
la propria natura e, dunque, contro la natura in generale. E’ questo il
grande conflitto in cui l’umanità è intrappolata. Quando tutti i leader
spirituali se ne saranno resi conto, l’umanità potrà fare un grande balzo in
avanti nel proprio sviluppo” (E. Pierrakos, 1997).

La fuga dal dolore

La prima delle quattro nobili verità del buddhismo insegna che la vita è
difficile, che c’è la sofferenza (Peck, 1978). Per quanto ci diamo da fare,
non possiamo sfuggire al dolore che si accompagna indissolubilmente alla
vita. Non possiamo sfuggire alla malattia, alla vecchiaia, alla morte.
Eppure è ciò che tentiamo continuamente di fare: cerchiamo la felicità
sfuggendo al dolore. Ma il dolore negato, rimosso, ci segue come un’ombra.
In tal modo, al posto del dolore reale, ricadiamo in un dolore molto più
durevole e grande: il dolore nevrotico.

Il dolore reale, se accettato fino in fondo, vissuto pienamente, condiviso,
ci fa crescere e maturare come esseri umani (Pierrakos, 1989). Attraverso
l’esperienza del dolore che ci accomuna, nessuno escluso, ci apriamo ad
un’intimità più profonda e compartecipe. Ci rende più empatici verso gli
altri esseri che soffrono, e desiderosi di aiutarli a superare la loro
sofferenza. La perdita di un genitore, di un figlio, di un amico, una grave
malattia, un abbandono, un tradimento, sono autentiche prove sul nostro
cammino. Se superiamo la nostra tendenza narcisistica a rifuggire al dolore,
ad arrabbiarci con il destino, a sentirci vittime perseguitate
ingiustamente, se solo apriamo gli occhi e vediamo che questa è la
condizione umana comune, allora possiamo considerare il dolore una sorta di
chiamata, una missione che ci viene affidata. Attraversando e superando la
prova, ne usciremo non solo rafforzati, ma in grado di comprendere e aiutare
gli altri. Saremo in grado di sviluppare autentica compassione, senso di
unione e fratellanza.

Una giovane donna di nome Kisagotami perse il suo unico figlio di circa un
anno, a causa di una malattia. Disperata girava il villaggio di casa in
casa, stringendosi al petto il cadavere del bambino e implorando una
medicina che lo facesse tornare in vita. I vicini pensavano che fosse
impazzita, ne avevano paura e cercavano di evitarla. Un uomo, invece, cercò
di aiutarla indirizzandola al Buddha, dicendole che lui aveva la medicina
che cercava. Kisagotami andò dal Buddha – come noi andiamo dallo
psicoterapeuta – e lo implorò di darle quella medicina.
<>, disse il Buddha, < bisogno di una manciata di semi di senape provenienti da case in cui non
siano mai morti né bambini, né genitori, né coniugi, né servi>>.
Mentre faceva il giro del villaggio, Kisagotami lentamente comprese che non
era possibile trovare una casa di quel genere. Depose il cadavere del suo
bambino nella foresta e tornò dal Buddha.
<> chiese questi.
< i morti sono molti”>>
<>, disse il Buddha, < la legge della morte vuole che nessuna creatura vivente duri in eterno>>.
Qualche tempo dopo Kisagotami prese i voti e divenne una seguace del Buddha.
Una sera si trovava in cima alla collina e lontano vide giù nel villaggio le
luci che splendevano nelle case.
<>, rifletté.
Si narra che il Buddha le comparisse in una visione, confermando questa sua
intuizione. < lampade>>, le disse, < che raggiungono il Nirvana sono al sicuro>> (Epstein, 1998, p. 17).

Questa storia è una parabola sulla morte, sull’impermanenza e sulla
trasformazione del dolore. Kisagotami guarì nel momento in cui si rese conto
che il suo problema non era unico, ma universale. Spostando l’attenzione dal
proprio trauma alle luci vacillanti del villaggio aveva compiuto un salto
percettivo: aveva visto con chiarezza che la sua tragedia era la più comune
delle esperienze. Accettando la sua perdita, e non più negandola o
rifiutandola, Kisagotami aveva potuto scoprire una realtà più grande.
Il dolore, accettato come parte della realtà, e attraversato
volontariamente, ci rende dolci e gentili. Il dolore rifiutato, ci rende
duri e crudeli, con noi stessi e con gli altri (Pierrakos, 1989).

Egocentrismo, alienazione e disumanizzazione

Perché rifiutiamo il dolore? Perché ne abbiamo paura. La paura ci assale nel
momento in cui ci identifichiamo nel nostro piccolo ego, ci sentiamo
separati dal mondo, divisi dagli altri, e quindi frammentati al nostro
interno (Elenjimittam, 1990). Come una foglia che ha perso consapevolezza di
essere parte di un grande albero. In tal modo ci rendiamo impotenti.
L’identificazione nell’ego è espressione di orgoglio: “Io, io, io”. “A me
non deve succedere”, “I miei genitori non mi hanno dato sufficiente
affetto”, “La società mi ha tarpato le ali”, “Io meritavo di più”.

La persona egocentrata sviluppa una volontà personale in continua
opposizione alla coscienza-volontà del sistema più ampio di cui fa parte.
Nuota contro corrente. Non può rilassarsi: deve sempre controllare, lottare,
contrapporsi alla sorte. Non si affida, ma sviluppa la tendenza a forzare.
Perde sempre più connessione e integrità. Soffre per un dolore non
necessario, un dolore sterile, distruttivo. In quel dolore non c’è senso
alcuno: di qui la crescente disperazione, il senso di inutilità e
fallimento. Tutto ciò che ottiene è precario, perché si attacca alla
superficie delle cose, alle apparenze, a ciò che non è veramente importante.

A fronte di questa malattia comune, la società edonistica in cui viviamo
offre i suoi rimedi: la ricerca della felicità attraverso il possesso di
beni materiali, il potere sulle persone, l’identificazione in un ruolo di
prestigio, la carriera, il successo. E’ la via dell’alienazione dal vero sé.
E’ la via delle dipendenze – cibo, alcol, sesso, droga, denaro, potere – una
via distruttiva, che aggrava il male che pretende di curare. La nostra
società ha orrore per ciò che non può controllare e assoggettare ai suoi
schemi. Così incoraggia la soluzione più facile: alimentare il narcisismo
perseguendo la soddisfazione immediata dei bisogni carenziali. Di fronte al
vuoto esistenziale, alla mancanza di significato, ci propone un continuo
carosello di stimoli: alimentari, acustici, visivi, cinestesici. Ci culla
dal mattino alla sera in un mondo falso e illusorio. Non c’è più luogo in
cui si possa stare in silenzio, senza radio, senza musica, senza
televisione, senza rumore del traffico. Meditare, riflettere, stare in
intimità con se stessi e con gli altri è sempre più difficile. L’uomo di
oggi ha paura della solitudine e del silenzio (Fromm, 1941). Nella
solitudine affiorano alla sua coscienza i demoni che ha cercato
disperatamente di affossare nell’ombra. Per fuggire ai demoni, sfugge a se
stesso e alla propria umanità.

La ricerca della felicità

La strada verso la felicità è quella che integra e accetta pienamente tutti
gli aspetti della nostra esperienza. Quest’integrazione è rappresentata dal
simbolo taoista dello Yin-Yang, un cerchio mezzo scuro e mezzo chiaro. Al
centro dell’area chiara c’è un pallino scuro. Al centro dell’area scura c’è
un pallino chiaro. Anche nelle tenebre più profonde c’è un punto di luce.
Anche nella luce più grande è presente l’oscurità.
Essere integri significa abbandonare il tentativo di perseguire il piacere,
sfuggendo al dolore, che non può essere controllato ed eliminato. Significa
connetterci, aprirci e continuare ad amare, indipendentemente da ciò che
succede (Salzberg, 1995).

Amare significa essere completamente presenti, prestare attenzione totale a
ciò che accade, essere indivisi e non frammentati.

In un autentico stato di amore, non ci sono desideri, non ci sono
aspettative. Non c’è proiezione nel futuro, non c’è rimpianto del passato.
C’è solo totale appagamento, nel qui ed ora. C’è un contatto profondo con la
realtà delle cose e con le persone, un contatto così gratificante in sé che
ci assorbe completamente. In uno stato di amore si comprende la relatività
del senso del tempo e dello spazio. Il tempo e lo spazio ordinari non
esistono più. Il tempo presente sembra eterno, in quanto è vissuto con la
totalità del nostro essere (Osho, 1978).

Ricordo una sessione di terapia, condotta insieme ad un collega, nella quale
aiutammo una persona ad attraversare un dolore tremendo, che aveva
condizionato tutta la sua vita. La sofferenza che la persona dovette
affrontare fu davvero spaventosa: più volte sembrò sul punto di cedere e
andare in pezzi. Ma continuò con coraggio, attraversò il fiume impetuoso
fino all’altra sponda. Continuò perché si era affidata a noi, al cento per
cento. E noi potemmo incoraggiarla, e guidarla, finché raggiunse un luogo di
pace e di luce, come mai aveva sognato. Improvvisamente fummo tutti immersi
in quella luce. Fu un’esperienza straordinaria, di profonda intimità e
connessione. In quel momento di pienezza e totale appagamento, ci venne in
mente che la vita ha una fine, che ci aspetta la morte. Ma questo pensiero
non intaccò minimanente il nostro stato di benessere: il pensiero della
morte aveva perso completamente il suo usuale significato. In quel momento
il vivere e il morire erano diventati parte di qualcosa di più grande. La
paura era del tutto svanita. Al suo posto c’era un senso di sicurezza e pace
assoluta.

Per un attimo, grazie al lavoro svolto, che ci aveva connesso ad un livello
molto profondo, eravamo entrati in contatto con quella che Aurobindo e altri
maestri definiscono la “vera natura della mente”. In quello stato di
coscienza non può esistere la paura, perché non si è più identificati nel
proprio corpo e nel proprio ego. In quello stato si scioglie l’illusione
della separazione, e ci si connette e ci si identifica con qualcosa di
infinitamente più grande.

Quando nello stato di coscienza ordinario pensiamo ai grandi illuminati, ai
santi, ai maestri, proiettiamo su di loro i nostri desideri, e crediamo che
loro siano immuni dai fatti spiacevoli della vita, che siano risparmiati
dalle malattie e dalle altre sofferenze. Ma non è così: S. Francesco soffrì
di varie malattie, Krishnamurti morì di cancro.
Così siamo portati a dubitare del loro potere, e a continuare a cercare
qualcosa che ci garantisca l’immunità. La nostra medicina sta prolungando
sempre più la nostra vita. Chissà che un giorno non ci risparmi anche i
dolori della vecchiaia. Così ci sono sempre più persone anziane che
letteralmente vegetano per anni e anni nelle cliniche e nelle case di
riposo. Ciò che conta è prolungare la vita. Per la medicina conta la
quantità, non la qualità.

In uno stato di coscienza allargato, un minuto può valere cento anni, o
addirittura l’eternità (Ikeda, 1982). I veri maestri sono consapevoli
dell’impermanenza di tutte le cose. Non sviluppano attaccamento a desideri e
speranze, ma vivono al cento per cento nel presente, in uno stato di amore,
connessione, totale appagamento (Osho, 1978). In tale stato i fatti
sgradevoli della vita assumono un significato del tutto diverso. Un
cucchiaino di sale rende imbevibile l’acqua di un bicchiere, ma lascia
pressoché invariata l’acqua di un lago. La coscienza che da bicchiere si fa
lago è in grado di abbracciare i fatti dolorosi per quello che sono: piccoli
cucchiai di sale in un’infinita distesa d’acqua.

L’amore come fonte di guarigione

I saggi e i guaritori di tutti i tempi concordano sul fatto che l’amore è
l’unica vera fonte di guarigione. L’ascolto profondo, senza giudizio, senza
aspettative e desideri, è un autentico atto d’amore. Colui che ascolta deve
essere in grado di mettere tra parentesi i suoi bisogni, le sue certezze, le
sue convinzioni, per essere totalmente presente, nel qui ed ora, a completa
disposizione dell’altro, senza teorie, senza giudizi e condizioni. Solo così
si fa vuoto contenitore per accogliere la sofferenza dell’interlocutore,
senza temerla, negarla e bloccarla in alcun modo.

Chi riceve l’ascolto profondo si sente via via alleggerito di un fardello
che credeva solo suo. Grazie al profondo scambio energetico che intercorre
con l’ascoltatore, si rende conto che il trauma che credeva più personale,
in realtà è parte dell’esperienza universale. Il dolore autentico, condiviso
con coraggio, senza riserve, con la pienezza del proprio essere –
all’interno di una relazione di totale fiducia – dalla durezza e oscurità
originaria si trasforma in un ponte che conduce verso la luce e la dolcezza.
Dalla negazione, dall’isolamento e dalla scissione si apre alla via
dell’intimità e dell’integrazione.

Perché questo accada, occorre che il terapeuta o guaritore sia presente con
tutto il suo essere, pronto ad attraversare a sua volta le personali ferite,
che risuonano con quelle del facilitato. Non può chiedere all’altro di fare
ciò che lui stesso non ha fatto. Un’autentica relazione d’aiuto presuppone
genuinità, trasparenza e coraggio. Tutto ciò che è atteggiamento di
superficie, senza radici nella profondità dell’essere, viene colto
dall’inconscio del facilitato, che inizia a frapporre ogni sorta di
resistenze al lavoro. La via migliore per superare le resistenze è la
congruenza e autenticità del terapeuta.

Innumerevoli sono le testimonianze che confermano queste affermazioni.
Indipendentemente dal contesto in cui la guarigione è avvenuta – di fronte
ad un maestro, ad un saggio o ad un terapeuta – c’è in comune l’elemento
dell’essere stati pienamente accolti, compresi, accettati nel livello più
profondo.
Questa è la vera natura dell’amore: comprensione e piena accettazione della
realtà così come è. In tal modo la realtà interna del facilitato non ha più
bisogno di occultarsi, di nascondersi, di sfuggire nell’ombra. Senza
giudizio, senza distinzioni tra buono e cattivo, giusto e ingiusto, bene e
male, l’ombra non ha più ragione d’essere e si dissolve.

Come dice Osho, non sono necessarie tecniche per trattare con l’ombra.
L’unica vera tecnica è la consapevolezza: nel momento in cui vedo la corda,
ove prima vedevo un feroce serpente, non ho più bisogno di lavorare per
dissolvere la paura. La paura si dissolve come naturale conseguenza del
cambiamento di percezione.

Preparazione alla morte: ciò che è essenziale

In punto di morte, gli esseri umani tendono a fare un bilancio della propria
esistenza: se il bilancio è attivo, se nella vita ha prevalso l’amore, la
morte sarà serena. Si è fatto ciò che si doveva, si può morire in pace. Se
il bilancio è negativo, se ha prevalso la distruttività, si combatte con la
morte, la si rifiuta, ci s’impegna in una lotta disperata.

Ma quali voci compaiono nel bilancio? Nei momenti finali della vita, ci si
avvicina alla realtà vera, a ciò che è veramente importante: le relazioni,
gli affetti, gli aspetti spirituali dell’esistenza. Se una relazione si è
chiusa male, se ci sono dei sospesi, cose che si volevano dire o fare, se si
sono compiute azioni distruttive, tutto questo si trasforma in tormento, in
rimorso, in sofferenza.

Chi muore male, lascia in eredità a parenti, amici, conoscenti, un senso di
disperazione e fallimento. Lascia un fardello che pesa sulla loro coscienza.
Nella loro vita ci sarà un’ombra in più con cui confrontarsi.

Chi muore in pace, lascia a chi rimane un senso di serenità e fiducia, e
fornisce ai presenti un dono prezioso: li aiuta a superare la paura più
grande, quella della fine della vita (Yalom, 1989). Toglie loro un peso, li
rende più leggeri. E’ un esempio di luce che li accompagnerà nei momenti più
scuri.

I malati terminali di AIDS, per la loro storia personale, si trovano spesso
nella condizione di avvicinarsi alla morte con un senso di rabbia e
disperazione. Stare accanto a loro nelle ultime fasi della vita ed aiutarli
a recuperare speranza e significato, in modo da giungere ad un trapasso
sereno, è impresa difficile e delicata. Il lavoro di Roberto Ghiozzi con i
malati terminali, attraverso l’uso della musicoterapia, ci mostra come
questa disciplina, relativamente nuova e ancora poco conosciuta, sia
particolarmente efficace nel costruire una relazione di profonda fiducia con
il terapeuta, anche nei momenti di estrema disperazione. Attraverso la
comunicazione empatica da cuore a cuore, agevolata dall’espressione
musicale, e la condivisione della sofferenza, il musicoterapeuta è in grado
di facilitare il riaccesso della persona alle sue risorse spirituali e la
trasformazione del suo stato di coscienza. Quanto più la persona ammalata
era chiusa e identificata nella sua sofferenza, tanto più grande è la gioia
alla quale può accedere insieme al terapeuta, nel momento in cui
dall’oscurità dell’isolamento sbuca alla luce della condivisione. La
condivisione autentica, nella quale entrambi accedono alle loro ferite, con
il coraggio di attraversarle, apre un nuovo spazio di consapevolezza dove i
confini personali tendono a sfumare e si accede ad un senso di connessione
profonda con qualcosa di più grande, che accomuna tutti, giovani, vecchi,
sani e ammalati, credenti e non credenti, indipendentemente dalla sorte
personale e dal destino.

Bibliografia

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Estratto dal sito: www.pnlumanistica.it

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