Come essere niente

pubblicato in: AltroBlog 0

Come essere niente

del venerabile Ajahn Sumedho

© Ass. Santacittarama, 2010. Tutti i diritti sono riservati. SOLTANTO PER DISTRIBUZIONE GRATUITA.
Traduzione di Samira Coccon e Chandra Candiani

Discorso tenuto a Morlupo nel novembre 1999.

SPERO CHE QUESTO RITIRO vi abbia offerto incoraggiamento, comprensione e ispirazione per proseguire nella pratica meditativa. Ho sottolineato ripetutamente l’importanza della fiducia nella vostra capacità di essere presenti, il senso profondo dell’investire di fede il semplice atto di essere attenti e presenti, e in ascolto, aperti e ricettivi.

Il condizionamento è una traccia molto forte innestata nella nostra personalità, e i suoi punti di forza sono il senso dell’io o della personalità. È da qui che nasce la tendenza a essere autolesionisti, a vederci in una maniera molto ristretta che ci vincola rigidamente a dei limiti, di modo che ci sentiamo scoraggiati o riversiamo nella pratica le nostre paure, limitandone così i risultati.

Nella letteratura buddhista, si parla spesso del raggiungimento di certi stati meditativi, dell’ottenimento dei jhana: raggiungere il primo jhana, e poi il secondo jhana, e il terzo, e il quarto jhana. Ci sono persone che passano anni cercando di ottenere questi jhana, e restano delusi.

E leggiamo anche di cose come l’”entrata nella corrente”, il “tornare una sola volta”, “non tornare mai più” e infine l’illuminazione totale. Avete già ottenuto il primo jhana? Siete entrati nella corrente? È un modo di pensare mondano, che vede me come una persona seduta qui, un’altra persona seduta lì, entrambi intenti a praticare la meditazione sperando di ottenere qualcosa, di raggiungere un qualche stadio. E bisognerebbe essere capaci di farlo. Io vengo da una cultura in cui vige il concetto del ‘lavorare a qualcosa’, e più lavori, più duramente lavori e più devi venir ricompensato per il tuo strenuo lavoro, il duro lavoro va pagato.

Nella letteratura buddhista, si parla anche degli arahant, quelli che hanno superato tutti gli esami e sono andati al di là di tutte le astrazioni e hanno raggiunto il supremo ottenimento. Diventare un arahant sembra uno scopo quasi impossibile, che non ci aspettiamo di raggiungere, perché la maggior parte di noi è troppo limitata dalla personalità e dai propri problemi, ovviamente insignificanti, per sperare di poter mai raggiungere un simile stadio. È un problema anche nei paesi buddhisti, perché spesso le convenzioni si discostano parecchio dal significato originario quando vengono tramandate dopo la morte del fondatore della religione.

Anche alla parola nibbana o nirvana attribuiamo il significato di illuminazione, di supremo raggiungimento: un termine remoto ed enigmatico di cui quasi nessuno conosce il significato. C’è un gruppo rock di Seattle che si chiama Nirvana: dunque, se volete un assaggio del nirvana, andate a Seattle!

Esplorando l’uso del linguaggio, scopriamo come ci rapportiamo a questo genere di parole: come a qualcosa di molto alto, di molto remoto, di lontanissimo da noi. È il modo di pensare mondano, pensare in termini di io che divento qualcosa, io devo liberarmi di tutte queste debolezze, dei miei problemi emozionali; ho certi attaccamenti, amo la mia famiglia, dovrò liberarmi dal desiderio, essere libero dal sé e diventare nessuno, essere un non-sé, un nulla, un vuoto, tutto in una sola vita, per poter ottenere il nirvana.

Riflettiamo sulle opinioni che ci creiamo e su come parole come nirvana, arahant, Buddha diventino delle mete irraggiungibili. Nella nostra pratica semplicemente notiamo le cose come sono. Non cerchiamo di rappresentarcele in accordo con la ragione e con la logica, da un punto di vista mondano, ma cominciamo a risvegliarci all’osservazione di come reagiamo, di cosa proviamo riguardo alle parole, al linguaggio e ai concetti che usiamo. Per esempio, prendiamo l’idea del primo jhana e così via… o dell’ottavo jhana. Già raggiungere il primo è una battaglia; raggiungere l’ottavo sembra quasi impossibile secondo il nostro modo di pensare perché lo vediamo come un ottenimento. Ma non siamo qui per ottenere, né per raggiungere.

Dunque, anziché usare parole come ottenere, raggiungere, diventare, è meglio usare termini come abbandonare e lasciar andare, perché rappresenta meglio la nostra pratica. Più che raggiungere qualcosa lasciamo andare quello a cui siamo attaccati, nel momento in cui comprendiamo la sofferenza che creiamo attraverso l’attaccamento.

La pratica dei jhana, in realtà, si basa sul superamento dei cinque impedimenti (i cinque nivarana, n.d.t.), i cinque stati negativi, e la coltivazione di percezioni salutari, affinandole attraverso la concentrazione fino a giungere al benessere fisico e mentale e infine all’equanimità.

Riprendendo la divisione tradizionale della meditazione in samatha e vipassana, samatha è felicità creativa e comprensione, positività e gioia, mentre vipassana è investigare la sofferenza e le sue cause, e lasciar andare le cause. Ricordo quando cercavo di coltivare la meditazione di samatha come un ottenimento; ero determinato a ottenere questi stati mentali desiderabili, ma il mio atteggiamento era di fondo un atteggiamento di forza caparbia, che non è il genere di condizione mentale che permette di realizzarli.

Le persone che trovano la meditazione di samatha facile e naturale sono di solito persone che hanno molta fede, che non si fanno domande e non hanno dubbi, oppure persone ben educate, che non pensano troppo ma hanno molta fiducia in quello che dice l’insegnante. Dunque la pratica di samatha risulta più facile per persone che non siano molto scettiche, sospettose e paranoidi come invece sono io. All’inizio la trovavo impossibile, perché il mio approccio alla vita era
fondamentalmente negativo, ero una persona molto critica. Mi era più facile rapportarmi alla vipassana, perché la sofferenza la potevo vedere; sicuramente io soffrivo, non c’era dubbio che ci fosse sofferenza. La meditazione vipassana è un mezzo abile tanto quanto samatha, che è un mezzo per allietare la mente, per ispirarla, per elevarla.

Ricordo che nei primi sei anni di vita monastica mi dedicavo molto alla pratica; ero disposto a lavorare duramente, a stare seduto per ore praticando tutte le tecniche. Da un certo punto di vista imparai molto, ma non c’era nessuna gioia né felicità nella mia vita perché nel tentativo di raggiungere qualcosa, ero molto auto-centrato, mi sentivo tanto ‘me’. Mi trovavo in Thailandia, dove c’era un insegnante della statura di Ajahn Chah, dove la società era molto rispettosa e di grande sostegno; la gente mi dava tutto quello di cui avevo bisogno, cibo, riparo, vesti, ma nonostante tutto questo aiuto e
incoraggiamento i miei primi sei anni furono anni di duro lavoro e di grande sofferenza. Ero disposto a soffrire e sicuramente non me ne rammarico, ma in realtà non ero felice della mia vita, era
un’esistenza ancora priva di gioia.

Dopo sei anni partii per l’India in pellegrinaggio. Poiché noi bhikkhu non portiamo denaro dovevo unirmi ai mendicanti, e vissi così per cinque mesi in India, visitando i luoghi sacri del buddhismo. Fu durante quei cinque mesi che cominciai a riflettere sulla mia vita spirituale, e penso che mi abbia aiutato il fatto di trovarmi nei luoghi sacri del buddhismo. Quello che accadde fu che finalmente cominciai a provare un’enorme gratitudine per Ajahn Chah, per tutto il sostegno e l’incoraggiamento che avevo ricevuto per anni. E provai un’enorme gratitudine anche per il Buddha, per il Buddha storico. Questo sentimento di gratitudine cominciò a portare nella mia vita una diversa qualità, una sorta di sensazione gioiosa, perché fu attraverso la gratitudine che sperimentai un’apertura del cuore; non stavo più lì a faticare con la mia forza di volontà e la mia personalità, era una sensazione di sincero apprezzamento per tutte le cose buone della mia vita. Fu una vera svolta nella mia crescita spirituale.

Prima era come se l’apprezzamento per gli insegnamenti buddhisti venisse dalla testa: era molto intellettuale, teorico, come se non avesse ancora raggiunto il cuore, malgrado il mio grande interesse e la grande fiducia. Allora, dopo questa esperienza di gratitudine che per me fu un’apertura del cuore, cominciai a comprendere veramente samatha, in termini di esperienza concreta, l’esperienza di un cuore luminoso, di un cuore felice, la presenza della contentezza nel cuore. Poi tornai in Thailandia, e tornai per stare veramente con Ajahn Chah. E cominciai a sentirmi molto contento, davvero felice della mia vita, cominciai ad amare sinceramente la vita monastica, i monaci intorno a me e la società. Cominciai a rapportarmi alle cose con maggior apprezzamento, e con un amore che, per quanto ricordi, non avevo mai provato nella mia vita.

Con questo sentimento più positivo, con questa gratitudine e contentezza, trovai molto facile concentrare la mente, non era più un problema. Samatha come cosa astratta che cerchi di ottenere, partendo dal primo stadio, per poi passare al secondo e così via non aveva funzionato per me. Cominciò a funzionare solo cambiando di livello. Per quanto riguarda la meditazione vipassana, che esplora le Quattro Nobili Verità, non comportava più una specie di ossessione per la sofferenza, ma un maggiore interesse per la mia sofferenza personale, un desiderio di comprenderla. Così, anziché pensare: “Devo capire la sofferenza” per liberarmene, che è un modo di pensare piuttosto cupo, cominciai a dare il benvenuto alla sofferenza come qualcosa da cui imparare, come un’opportunità; e a sentirmi grato per la sofferenza della mia vita, perché mi dava l’occasione di comprenderla.

Quando feci ritorno in Thailandia decisi che volevo fare qualcosa per dimostrare la mia gratitudine ad Ajahn Chah. Non c’era niente di cui avesse bisogno, non avevo denaro per comprargli un regalo; cosa gli sarebbe potuto piacere? Cosa avrebbe potuto apprezzare veramente? Pensai che avrebbe apprezzato che io fossi un buon monaco, un monaco utile, qualcuno che non andasse ad aumentare il suo fardello, nel senso di creare più complicazioni al monastero, ma che praticasse e approfondisse la vita monastica. Anche questa ispirazione, questo desiderio di ripagare il debito che sentivo mi portò molta gioia, non era un compito pesante, provai molta felicità nell’assumermelo. Il resto della mia vita monastica ne fu influenzato moltissimo, perché l’apprezzamento per tutto quello che avevo ricevuto mi aiutò a stare veramente in contatto con la mia sofferenza, i problemi, le
difficoltà, il mio kamma, le sfide da affrontare, mi diede la forza per far fronte, in certi periodi, a esperienze molto spiacevoli e indesiderate.

Per tornare ai vari stadi dell’illuminazione, sotapanna, sakadagamin, anagamin, arahant, come porsi di fronte a tutto questo? Che
significato ha? E come usare questi termini? All’inizio li consideravo come gradi di avanzamento personale, poi mi sembrò impossibile considerarli in quell’ottica personale.

All’inizio li immaginavo un po’ come diplomi di laurea. Ma poi, riflettendo su questi stadi, come per esempio l’”entrata nella corrente” o sotapanna, mi pare che il termine si riferisca al venir meno dei primi tre impedimenti in una serie di dieci. Il primo è definito come sakkayaditthi, ossia la visione centrata sul sé o la personalità; il secondo è l’attaccamento alle convenzioni religiose o il pensiero superstizioso; il terzo è il dubbio, la tendenza a dubitare. Sono aspetti molto interessanti da investigare, da conoscere dentro di sé, ecco perché si insiste su sakkayaditthi, che è il modo in cui vediamo la nostra personalità. Io incoraggio a investigare la personalità, non in modo critico, ma per conoscere quando diventiamo una persona e quando non c’è persona. E naturalmente l’assenza di persona è in relazione al suono del silenzio, al vuoto della mente in cui ci si può sintonizzare su questa sorta di squillante silenzio e sostenervi l’attenzione, su cui si può riflettere e cominciare a riconoscere l’esperienza della vacuità, o non-sé. Quando sostieni l’attenzione concentrandola sul silenzio, allora c’è piena
consapevolezza, sei conscio, sei sveglio, non sei in trance, sei qui e ora, in quel momento non c’è il senso del sé, non c’è Ajahn Sumedho, non c’è nessuno, nessuna persona, è l’esperienza della vacuità, di anatta, il non-sé.

Quando lo dimentico, se perdo questo silenzio, allora “divento”, divento di nuovo Ajahn Sumedho, una persona che pensa a qualcosa, che si preoccupa di qualcos’altro, che ha ogni genere di obblighi o di difficoltà con la tale persona o la tal altra situazione, ritorno a tutto questo, sono qualcuno, ho dei problemi, sono attaccato ai miei problemi, penso a me stesso e credo a tutto questo.

Posso esplorare, posso intenzionalmente entrare nel silenzio, ho fiducia in questo silenzio e posso prenderlo come oggetto di riflessione. Non è un silenzio ottuso, in cui mi annullo, è un silenzio vigile, un silenzio vivo. D’altro canto posso pensare di essere Sumedho, l’abate di Amaravati, e posso accorgermi quando vengo intrappolato in me stesso come persona, posso vederlo, posso essere consapevole di quando sto creando qualcosa nella mia mente. Talvolta sento che voglio veramente essere una personalità, non voglio essere vuoto. Si tratta di esplorare il sé, non prendendo posizione contro il diventare una persona o l’avere una personalità, ma essendone consapevoli, piuttosto che cercare di liberarsene. Non si tratta di liberarsi della personalità, ma di non permettere più alla personalità di ingannarci.

Il mio incoraggiamento è di usare l’investigazione per vedere consapevolmente, per conoscere intuitivamente e profondamente il vuoto, il silenzio, il non-sé. Cominciare a scoprirlo, a conoscerlo, ad averne fiducia. In questo modo, si può veramente vedere come creiamo la nostra sofferenza, come creiamo noi stessi, i nostri problemi e il mondo in cui viviamo. Nella terminologia buddhista, con ‘mondo’ non si intende il mondo in senso fisico ma quello in cui viviamo: i pensieri, i sentimenti, le percezioni a cui siamo attaccati, questo è il mondo di cui facciamo esperienza. Una volta pensavo che tutti vivessero nel mio mondo, ma non è così, viviamo ognuno in un mondo diverso.

Il secondo impedimento è chiamato in pali silabbataparamasa, l’aggrapparsi alle convenzioni. Per esempio, in quasi tutte le tradizioni religiose si parla di purificazione spirituale, si crede che bagnarsi in un fiume purifichi i peccati o che pregando
continuamente si purifichi la propria vita. Il credere che queste cerimonie possano purificarci è silabbataparamasa. È come pensare che aderendo al buddhismo, aggrappandosi a una convenzione, si possa diventare puri. Cominciamo ad accorgerci che in uno stato di vuoto o di silenzio non c’è convenzione; il silenzio non è buddhista né cristiano, non è niente, non ha nome, è fuori da qualsiasi
convenzione.

Allo stesso tempo ci si comincia ad accorgere che silabbataparamasa è anche un’opinione o una credenza del tipo: “Io non credo al Buddha”, “Io non credo in queste religioni diverse”. Avendo più fiducia nel silenzio e nella vacuità del presente, possiamo vedere ogni genere di punto di vista o di opinione che abbiamo sul buddhismo, sulla religione, o su qualsiasi altra cosa. Non è che ci sia qualcosa di sbagliato nell’avere punti di vista e opinioni, ma l’attaccamento cieco è silabbataparamasa. Sono silabbataparamasa anche le opinioni settarie del tipo: “Il Theravada è l’unica vera via, le altre no”. Ci si può accorgere di tutto questo. Una volta ero molto sicuro delle mie opinioni, ero molto dogmatico; gli americani vengono educati al dogmatismo. Dunque so bene come si possa essere attaccati alle opinioni, e che il risultato è la sofferenza.

C’è poi vicikiccha, il dubbio. Il dubbio è il risultato del pensare: più pensi, più dubiti, dunque se sei attaccato al pensiero, se cerchi di risolvere qualsiasi cosa pensandoci su, non potrai mai sentirti sicuro. Trovo il dubbio molto utile. Quando entri nel silenzio della mente, nella vacuità, non c’è pensiero, non c’è dubbio. Ma poi cominci a chiederti: “Questo silenzio è veramente l’Incondizionato?”. E stai di nuovo dubitando. Noi possiamo ascoltare e osservare, per questo vi dico di aver fiducia nel silenzio, di imparare ad averne fiducia. Dopo, potete anche dubitare, ma vi accorgerete che il dubbio è qualcosa che create col pensiero: “Sto praticando nel modo giusto? Questo è veramente anatta? O me lo sto solo inventando? Ma Ajahn Sumedho sa quello che dice?”. Potrete accorgervi così che il dubbio si crea attraverso il processo del pensiero, che state creando il dubbio.

Dunque, vicikiccha, silabbataparamasa, sakkayaditthi sono tre impedimenti, e potete cominciare a vedere perché siano tali. Fin quando siete coinvolti nella personalità come se fosse una realtà, o siete ancora attaccati e limitati dalle convenzioni, o cercate, senza tregua, di capire le cose in modo intellettuale, rimanete intrappolati nell’incertezza, nella titubanza, in un senso di fallimento, di non approdare da nessuna parte, di non sentire mai di avere quello che meritate.

A questo punto potremmo pensare: “Allora devo essere un sotapanna, perché tutto questo non è più un problema per me”, ma sembra di nuovo un punto di vista della personalità. Se non sento la necessità di descrivere me stesso in alcun modo, allora il problema cade. Ecco perché con la pratica non si diventa mai niente, in questo tipo di pratica non si raggiunge niente. Dunque, rinunciate a questa speranza. Quello che si impara è che non siamo niente ed è un vero sollievo.

Condividi:

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *