CERVELLO/MENTE/COSCIENZA (PRINCIPI E MODELLI) 11

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CERVELLO/MENTE/COSCIENZA (PRINCIPI E MODELLI) 11

tratto da “Enciclopedia olistica”

di Nitamo Federico Montecucco ed Enrico Cheli

CONTRIBUTI

Coscienza: la scienza alle prese col sé
di Susan Blackmore

Presentiamo qui di seguito la traduzione dell’articolo apparso sul New Scientist del 1 aprile 1989.
L’articolo è un bellissimo esempio di intuizione, intelligenza e stupidità, una summa delle più
avanzate ipotesi sulla coscienza del moderno pensiero scientifico non olistico. In particolare è
evidente come predomina, nelle ricerche, l’uso dell’emisfero logico, frammentante e intellettuale
bilanciato dall’acume della Blackmore che, unificando concetti di derivazione sperimentale, con un
linguaggio cibemetico – cognitivista e con la personale esperienza della meditazione, elabora
definizioni geniali e conclusioni interessanti sul fenomeno coscienza.

Si nota un uso ancora non molto discriminato dei termini consciousness (coscienza), awareness
(consapevolezza) e autocoscienza (self – consciousness) che hanno un significato diverso sia
nell’accezione comune che nel linguaggio esoterico e che sono stati rispettati nella traduzione.

L’esperienza di essere

Sappiamo di essere consapevoli di noi stessi. Ma non sappiamo come. E non siamo nemmeno sicuri del
perché. La risposta potrebbe risiedere nei processi fisici di coscienza.

Perché sono consapevole di qualcosa anche in minima parte? Non sarebbe più semplice la vita senza
coscienza? La scienza lo sarebbe certamente. Ma, per sfortuna o meno, questa “esperienza di essere”
non se ne va. Oggi, dopo aver cercato di ignorarla per decenni, la scienza, ancora una volta, sta
affrontando il problema difficile della coscienza. I ricercatori delle scienze neurologiche
potrebbero arrivare a dei risultati sperimentali che potrebbero far luce su questo problema
filosofico tanto dibattuto: la natura del sé.

Uno studio fisiologico condotto da Benjamin Libet, dell’università della California, San Francisco,
ha già prodotto dei risultati interessanti. Il suo lavoro suggerisce che perché il cervello produca
coscienza ci vuole del tempo, di fatto circa mezzo secondo. il ricercatore ha raggiunto questa
conclusione studiando dei soggetti nella cui corteccia cerebrale erano stati inseriti degli
elettrodi. Mandando degli stimoli attraverso gli elettrodi poteva dare ai suoi pazienti la
sensazione che il loro braccio fosse stato toccato, ma solo se la stimolazione elettrica durava
almeno mezzo secondo. Questo risultato sembrava suggerire che ci vuole almeno mezzo secondo di
attività cerebrale per produrre consapevolezza. Arriviamo quindi alla strana conclusione che noi
facciamo esperienza di qualcosa solo mezzo secondo dopo che è accaduta. Quando qualcuno mi batte
sulla spalla, prima reagisco e, solo più tardi, ne divento consapevole. E’ un’illusione che mi sia
voltato perché ho sentito del calore. La consapevolezza cosciente è più un qualcosa di simile a un
pensiero “col senno di poi”.

Questo processo potrebbe servire a impedire che una grande quantità di informazioni non necessarie
entrino nella coscienza.

Ma che cos’è questa coscienza in cui “entra” l’informazione? Certamente non è una cosa o un luogo.
Ma ci deve essere una differenza tra qualunque cosa è “nella coscienza” e il grande numero di
processi che avvengono costantemente nel cervello e che sono, ovviamente, “inconsci”. Qual è dunque
la differenza? Questa domanda rivela la profondità della nostra ignoranza e confusione sulla
coscienza.

Parte del problema è la sua natura riflessiva. La coscienza non può essere studiata nello stesso
modo delle cose di cui sono conscio. Se le rivolgo la mia attenzione, cessa di essere coscienza e
non diventa che un altro pensiero o un’altra esperienza.

Un altro problema è la sua qualità di essere in continuo cambiamento. Quello che significa essere
consci è essenzialmente quello che significa essere me, qui e ora. Eppure non appena lo penso, qui e
ora è già passato io e il mondo attorno a me sono cambiati. Per questo Willliam James, uno dei
pionieri della psicologia del XIX secolo usava la frase “il fiume della coscienza”. E’ un fiume che
scorre, è ininterrotto e non si ripete mai esattamente. La scienza è alla ricerca di configurazioni
e regolarità, quindi è difficile sapere da dove cominciare con qualcosa la cui natura è nel
cambiamento. Il miglior punto di attacco a un problema del genere è sempre quello di rivedere la
domanda. Secondo molti chiedersi “Che cos’è la coscienza?”, è una domanda senza senso perché la
coscienza non è assolutamente una “cosa”. Una domanda più accettabile è “perché abbiamo una
coscienza?”. E’ possibile immaginare degli animali (o persino della macchine) che compiono tutte le
azioni che io compio e nello stesso tempo sono beatamente inconsapevoli di qualunque cosa. Quelli
che soffrono o che godono dell’oblio temporaneo dell’alcool potrebbero anche pensare che sarebbe
preferibile così. Quindi perché la coscienza si è evoluta? L’evoluzione deve aver avuto una buona
ragione per renderci consci, non è vero? John Crook, un etologo dell’università di Bristol, ha
sostenuto che la coscienza umana si distingue dalle altre perché siamo consci di essere consci;
abbiamo la sensazione di aver potere sulle nostre azioni e di avere un’auto-identità. Aggiunge,
inoltre, che queste proprietà sono nate col linguaggio, perché i nostri antenati cominciarono a
usare degli strumenti. Solo un animale che ha bisogno di sapere chi possiede e usa questo o quello
strumento ha bisogno di un forte senso di identità personale.

In contrasto, lo scrittore e psicologo Nicholas Humphrey sostiene che abbiamo sviluppato
un’auto-consapevolezza per ragioni sociali: i primi esseri umani, per tenere insieme una società
cooperativa, avevano bisogno di capire i loro compagni, per diventare, nelle parole di Humphrey,
Homo psychologicus. Il modo migliore di farlo, dice l’autore, era di usare una ‘”immagine
privilegiata” di se stessi come modello di quello che un’altra persona poteva essere. Quindi,
secondo Humphrey, abbiamo imparato a guardare dentro ai nostri processi mentali per poter essere
capaci di predire (e quindi controllare?) i desideri o le azioni degli altri.

Questa connessione tra coscienza e rappresentazione del sé viene resa ancor più esplicita da Richard
Dawkins, uno zoologo dell’università di Oxford. Ha detto “Forse la coscienza sorge quando la
simulazione del mondo da parte del cervello diventa così completa che deve includere un modello di
se stesso”.

Non è un’immagine di neuroni e cellule gliali che è centrale alla mia auto-coscienza. Sicuramente le
persone che non hanno mai imparato nulla della funzione e struttura del cervello sono altrettanto
consce di un neurochirurgo.

Omero era consapevole di se stesso?

Secondo tutte queste teorie l’auto-consapevolezza sarebbe comparsa molto precocemente
nell’evoluzione dell’uomo. Al contrario uno psicologo americano, Julian Jaynes, ha proposto la tesi
controversa che la coscienza sia comparsa solo in tempi storici. I primi greci e gli ebrei del primo
periodo del Vecchio Testamento, secondo Jaynes, non avevano esperienza di se stessi come esseri
pensanti. Invece di attribuire le loro immagini verbali a dei processi interiori, li attribuivano
alle voce degli dei. E cita l’Iliade, scritto circa 3.000 anni fa, come un testo privo di referenze
a concetti mentali quali mente, pensieri, sentimenti o persino il sé. Le persone non venivano
ritenute responsabili delle loro azioni: erano dei meri strumenti delle forze esterne.

Questa idea interessante mette la nostra immagine di noi stessi in una nuova luce. Se gli dei erano
soltanto una teoria inventata per spiegare il comportamento, forse il nostro concetto moderno del sé
non è che un’altra di tali teorie inventate per spiegare noi stessi a noi stessi. Può darsi che sia
una teoria migliore di quella degli dei, ma è veramente accurata? non è forse soltanto un’altra
illusione utile?

Il problema con tutte queste teorie è che nessuna di esse affronta direttamente il problema della
coscienza stessa. Non potrebbe un sistema evolversi con una buona concezione di sé attribuendo il
comportamento a dei processi interni, anche con delle capacità psicologiche di imitare dei modelli
di Comportamento (non consci) di altre persone, senza il bisogno di sentirsi come qualcosa di
particolare? Queste teorie possono far vedere come siano nate l’auto-identità o 1’abilità di predire
il comportamento, ma non dicono nulla di diretto sulla natura della consapevolezza. Possono anche
immaginare un animale o una macchina che facciano tutte queste cose e nello stesso tempo siano
completamente inconsapevoli.

Forse, potreste dire, non è solo la consapevolezza passiva che ci distingue dagli automi inconsci,
ma il fatto che possiamo controllare consciamente quello che facciamo. Delle ricerche recenti
suggeriscono che forse anche questa è un’illusione.

Il cervello diviso

Michael Gazzaniga, un neuroscienziato dell’università di Cornell, ha studiato dei pazienti col
“cervello diviso”, cioè con i due emisferi separati chirurgicamente. In molte persone l’abilità di
usare il linguaggio è localizzata principalmente nell’emisfero sinistro; ma uno dei suoi pazienti
aveva delle capacità verbali in entrambi gli emisferi, sebbene solo il sinistro potesse produrre
delle parole parlate. Quando veniva dato un comando scritto, tipo “ridi”, solo alla parte del campo
visivo connessa col cervello destro, rideva Quando gli veniva chiesto perché rideva, rispondeva
usando il lato sinistro del cervello, ma senza dare la vera ragione: “Ehi, ragazzi, siete veramente
divertenti”. Apparentemente l’emisfero sinistro aveva osservato la risata e cercava, in qualche
modo, di dare una spiegazione. Questa potrebbe essere una proprietà non limitata soltanto ai
cervelli divisi. Molte delle nostre ragioni per agire potrebbero essere del tutto non accessibili
alla introspezione cosciente. I nostri sé verbali potrebbero costruire delle ragioni plausibili per
le azioni che vedono compiere ai loro corpi. Le ricerche sui cervelli divisi hanno rivelato molto di
più sulla natura scienza.

In alcuni casi ogni emisfero manifesta dei desideri, delle intenzioni e persino delle speranze per
il futuro, separate, e anche un senso del sé separato. E’ facile pensare che dividere il cervello
abbia diviso una coscienza originariamente unitaria, ma Gazzaniga crede che l’operazione chirurgica
riveli soltanto un principio generale: che le menti umane sono delle entità multiple contenenti
molti sottosistemi. Pensa che sia solo l’abilità a mettere in parole le cose creando “un senso
personale di realtà conscia partendo dai sistemi multipli esistenti”. Quindi all’idea di una
“volontà” cosciente unica è totalmente falsa, di nuovo alcune ricerche recenti forniscono una
chiave. Libet ha spostato la sua attenzione dalla sensazione cosciente all’azione volontaria e ha
disegnato uri esperimento ingegnoso basato su degli esperimenti precedenti. Usando degli elettrodi
fissati allo scalpo alcuni ricercatori avevano trovato che appena prima di compiere un’azione
volontaria il potenziale elettrico dello scalpo si spostava verso il negativo, un fenomeno’ chiamato
“readiness potential” (potenziale di prontezza, d’ora in poi R.P.). Gli elettrodi rivelano questo
potenziale un secondo o più prima che cominci un movimento apparentemente volontario. Potremmo
assumere, allora, che la decisione conscia di agire debba venire

prima dell’R.P., se è una decisione conscia ad agire che inizia la catena degli eventi. Libet ha
fatto degli esperimenti per dimostrarlo.

La coscienza è un ripensamento

Lo scienziato ha trovato che l’R.P. viene prima e che il desiderio di muoversi viene circa 400 msec.
dopo. Questo potrebbe indicare che anche negli atti volontari apparentemente spontanei nel cervello
accade un evento inconscio molto prima di ogni desiderio o decisione conscia di agire.

Liber ha poi dimostrato che i suoi soggetti potevano bloccare l’azione nell’intervallo di tempo tra
100 – 200 msec. prima che l’azione dovesse essere iniziata. Sostiene che questo fatto la sua aperta
la porta a un ruolo possibile della “volontà”. Altri scienziati, però, hanno interpretato i suoi
dati in modo più estremo. Gli esperimenti potrebbero significare che noi non abbiamo assolutamente
un’esperienza diretta di un’intenzione ad agire. Piuttosto ne potremmo dedurre uno stimolo o
desiderio di agire dopo che il processo è già iniziato inconsciamente. E, poiché, questo
stimolo/desiderio precede l’azione, possiamo mantenere l’illusione che sia la causa dell’azione ma è
solo un’illusione. Secondo questo punto di vista la coscienza non ha nessun ruolo attivo. Questa
disputa riflette la lunga diatriba filosofica sugli eventi mentali: se una qualunque cosa, dal
desiderio di gelato alla sensazione di dolore, possa causare degli eventi fisiologici nel cervello.

Libet sostiene che possono. Pensa che ci sia ancora spazio per una “volontà” che può intervenire a
fermare i processi fisiologici quando è necessario. Altri preferiscono usare i suoi risultati come
prova che non è possibile. La domanda importante, qui, è se la scienza sia o no sul punto di
trasformare un difficile problema filosofico in un problema empirico. Molti ricercatori hanno
sostenuto che la coscienza può essere imitata da sistemi computerizzati e molte discussioni si
focalizzano sul punto se la coscienza si associ poi col livello più alto di questi sistemi.
Discussioni del genere possono essere utili per spiegare il funzionamento del cervello, ma nessuna
teoria del genere può spiegare perché i contenuti di una parte (qualunque essa sia) debbano avete le
qualità del sentirsi come un qualcosa di particolare mentre il resto no.

Sentire di essere

Il filosofo americano Thomas Nagel, nel suo famoso articolo “Come ci si sente a essere un
pipistrello?”, pubblicato nella sua raccolta di saggi “Mortal questions”, ha sottolineato questo
punto cruciale sul problema della coscienza. Il suo punto era che quando diciamo che qualcosa è
conscio, intendiamo essenzialmente che c’è “qualcosa” che sente di essere” quella cosa. Ora, se gli
uomini sono dei sistemi complessi di elaborazione di informazioni, perché ci dovrebbe essere
“qualcosa che sente di essere” in alcuni livelli di quel sistema e non in altri? Qualunque parte del
sistema scegliate, il mistero di fondo rimane intoccato. Una soluzione radicale è di eliminare
completamente il problema e dire che tutti i modelli mentali sono consci. I modelli mentali sono
delle rappresentazioni interne del mondo che i computer, come gli animali e gli uomini, usano per
controllare il loro comportamento. Non potreste cavarvela andando in giro senza un buon modello del
vostro corpo e del mondo che lo circonda. Quello che suggerisco è che non significa nulla “sentire
di essere” la pelle, il sangue o le ossa di un pipistrello; ma è invece molto significativo “sentire
di essere” il modello di pipistrello di un pipistrello.

Il che equivale a dire che non ci possono essere dei modelli mentali non consci.

L’obiezione principale a questa teoria è che non ci sembra affatto che tutti i modelli che il nostro
cervello costruisce siano consci. Ma la risposta dipende completamente da che cosa sia quel “noi”.
Che cosa è quel “io” che deve essere conscio di tutte quelle attività? Possiamo suggerire una
risposta. L'”io” non è che uno dei modelli del sistema, un modello di sé nel mondo, costruito in
gran parte dal linguaggio.

L'”io” diventa una auto – immagine, un’immagine del corpo, una costruzione dell’essere umano. Questo
rende perfettamente chiaro perché il resto del sistema sembra essere inconscio. E’ inconscio al “me”
ma non a se stesso.

Prima di iniziare a pensare ai sistemi umani come popolati da infiniti modelli consci, dovremmo
riflettere su che cosa potrebbe significare “essere” la maggior parte di quei modelli. Non molto,
penso. Per esempio, i modelli nei livelli più bassi di elaborazione percettiva non includono alcun
concetto di sé, di azione o di mondo esterno. La loro coscienza quindi sarebbe limitata
proporzionalmente. Soltanto il modello complessivo del “sé nel mondo” è in grado di sostenere una
consapevolezza pienamente riflessiva. La coscienza di essere conscio. Ed è questo che sembra essere
“me”. Molti di noi ne hanno soltanto uno, a meno che non includiate anche il sé dei sogni.
Probabilmente le persone con personalità multiple hanno parecchi modelli del sé, ognuno a suo modo
conscio e in competizione per essere dominante sugli altri. E’ una situazione anomala ma che
possiamo vedere come una forma estrema del caso normale. Ogni cervello umano costruisce molti
modelli consci, ma c’è solo un “me”, il mio modello del “sé”.

Questo spiega anche il fenomeno dell’attenzione selettiva. Quando “io” rivolgo la mia attenzione a
qualcosa, sembra che quella cosa entri nella mia consapevolezza. Da un certo punto di vista
informazionale, possiamo dire che il sistema ha incorporato il modello di quella cosa nel modello
del sé. Quindi “io” divento consapevole di quella e quella di “me”.

L’evoluzione della coscienza

In questa prospettiva non c’è bisogno di un alto e di un basso, di una coscienza che controlla il
resto. La coscienza non è un qualcosa che controlla. Non è una cosa, un posto, una sostanza o una
parte del sistema. Infatti non ha alcuna funzione. E’ soltanto come “essere” un modello mentale.

Questo approccio trasforma l’intero processo evolutivo. Non c’è scopo in essa. Qualunque organismo
che costruisca delle rappresentazioni (anche le più primitive) avrà corrispondentemente una
coscienza primitiva. Quelli che si creano anche un modello di sé saranno anche consapevoli di sé. I1
progredire dell’evoluzione, la qualità della coscienza si sviluppa in relazione ai tipi di modelli
costruiti. Quindi forse Jaynes ha un punto a suo favore. Una volta che le voci degli dei sono state
sostituite da un concetto di sé attivo, l’autocoscienza ha fatto un altro passo avanti. Quale sarà
il prossimo passo? Su questo punto la ricerca dei mistici per una coscienza più alta o
l’addestramento per l’illuminazione” dei buddisti potrebbero non essere fantasie oziose, ma passi
verso nuovi modelli mentali.

Mente e meditazione

Nel cuore dell’addestramento buddista ci sono la meditazione e l’attenzione consapevole
(mindfulness). Si pensa che queste qualità, coltivate a sufficienza, trasformino la coscienza e
liberino chi le possiede dalla sofferenza. Per capire questa trasformazione ci può aiutare chiederci
come vengono cambiati i modelli di realtà?

Buddha sosteneva che molti di noi sono continuamente distratti da oggetti visivi, suoni, idee.
Viviamo in un turbine di confusione e fantasia: più nel passato o nel futuro che nel momento
presente. Combattendo per trovare la felicità ci attacchiamo disperatamente al nostro concetto del
sé e alle cose che pensiamo che ci renderanno felici. Ma, paradossalmente, è proprio questo che ci
rende infelici.

Al contrario, la consapevolezza (mindfulness) significa vivere nel momento presente, sempre attenti,
svegli. Nella meditazione questa abilità viene praticata durante delle sessioni in cui si sta seduti
tranquilli. Ogni pensiero che sorge viene lasciato passare. Può tornare ancora e ancora, ma non c’è
nessun attaccamento, nessun lasciarsi andare a fare delle fantasie. I pensieri continuano ad andare
e venire finché la mente, prima o poi, diventa immobile.

Questi differenti modi di essere possono essere capiti in termini dei modelli mentali di cui sono
costruiti. Nel modo normale l’attenzione si sposta da una cosa all’altra. Eventi che sorprendono
richiamano l’attenzione: altre catene di pensiero aspettano che ci sia un intervallo per poter
essere finite. Non c’è mai pace. Questo è un modo efficiente di usare tutte le capacità di
elaborazione disponibile, ma come ci si sente a essere un modello di un simile sistema? Suppongo che
per molti di noi ci sia molta confusione. L’unica cosa che gli dà una qualche stabilità è la
pressione costante di un modello stabile del sé. Nessuna meraviglia se ci aggrappiamo ad esso.

D’altro canto essere consapevole (mindful) significa non seguire tutte le associazioni significa non
mettere in pila tutte le idee che devono essere completate né fare strategie, pianificare o
selezionare. I modelli diventano sempre più semplici in quanto tutta la capacità di elaborazione non
viene usata immediatamente. Più e più cose possono essere connesse in un unico modello perché si
viene sempre meno modellati.

E come ci si sente a essere” un modello in un simile sistema? Ovviamente molto diversi. E per questo
che durante la meditazione tutto sembra più luminoso e più reale? Perché si sentono chiaramente i
suoni più deboli e il battito del proprio cuore è sempre presente? Se è così potrebbero farsi delle
previsioni verificabili. Per esempio quelli che praticano da lungo tempo potrebbero rivelare una
maggior consapevolezza dei modelli di basso livello normalmente inaccessibili.

Alla fine della storia non è nemmeno necessario che venga costruito un modello del sé. Immaginatevi
che cosa potrebbe essere un sistema che elabora l’informazione entrante ma non ci costruisce sopra
nulla, nemmeno un sé da osservare. Senza nessun modello di distinzione tra il sé e l’altro, immagino
che il mondo sembrerebbe tutt’uno.

Le persone che passano attraverso questo addestramento e queste esperienze trovano molto difficile
descrivere quello che succede, che non meraviglia se si pensa che “essi” (il loro modello di sé) si
sono dissolti. Infatti può essere impossibile descriverlo usando le assunzioni del nostro linguaggio
consueto. Forse ora può nascere una nuova possibilità: che la scienza possa almeno sviluppare i
concetti e il linguaggio necessari per capire le esperienze mistiche in termini di elaborazione di
informazioni.

Il buddismo insegna la dottrina del “non sé”. Non c’è un’entità conscia ma solo la coscienza stessa.
La psicologia della conoscenza rivela che il sé è un modello mentale; se la coscienza non è che
essere un modello mentale non c’è nessun sé conscio di qualcosa, ma solo una serie di modelli di sé
che cambiano.

Quindi adesso posso rispondere alla mia domanda: “Perché sono consapevole?” Sembra che la risposta
sia che poiché sono soltanto un modello mentale non può essere diversamente.

continua…

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