ARTE COME YOGA 2

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ARTE COME YOGA 2

(SECONDA PARTE)

mercoledì 25 maggio 2011

L’esperienza artistica nella classicità del pensiero indiano.

Secondo la tradizione psicologica indovedica il desiderare è funzione insopprimibile ed essenziale
allesistenza. Ogni individuo esprime determinate necessità che corrispondono alla natura della
specie a cui appartiene. Il Vishnu Purana ci parla di ben 400.000 specie umane, che non hanno nulla
a che vedere con differenze razziali, ma che scaturiscono dalle diverse, potenzialmente infinite,
combinazioni delle tre influenze materiali (guna) che ciascuna di esse subisce in proporzioni
variabili, e che costituiscono gli elementi di base dellintera realtà psicofisica: ignoranza
(tamas), passione (rajas) e virtù (sattva). Ad ognuna di queste diverse combinazioni corrisponde
dunque uno specifico desiderare, che è immediatamente coordinato al piano dei comportamenti e della morale, e a quello dei valori di riferimento e delletica.

Che moralità del desiderio e moralità dellesistenza coincidano è confermato da Krishna stesso(1), che nella Bhagavad-Gita afferma:

Dharmaviruddho bhuteshu
Kamo smi bharatarshaba

Negli esseri viventi Io sono il desiderio che non contraddice lordine cosmico(2). La stessa
società tradizionale dell’India riflette le medesime condizioni. La vita indiana è stata per
millenni modellata su tipi di condotta sanciti dalla tradizione, che riflettono la armoniosa varietà
che compone il corpo sociale e che hanno il loro fondamento proprio su questo ordine cosmico. In
questa sociologia non trova nessuno spazio la rigidità e la cavillosità del sistema castale che si è
andato affermando negli ultimi secoli, fondato sul diritto di nascita e non sulla valutazione delle reali tendenze ed esperienze di cui ciascuno è portatore.

Catur-varnyam mayashrishtam
Guna -karma-vibhagashah

Io [Dio, la Persona Suprema] ho creato le quattro divisioni della società umana sulla base delle
tendenze e delle esperienze di ciascun individuo(3). Un modello sociale questo, che sospinge ogni
individuo, attraverso la coopartecipazione a un progetto superiore, a sviluppare al massimo la
propria personalità, in vista della propria piena realizzazione. Per l’indiano questa conformità
esteriore, grazie a cui l’uomo si perde nella folla allo stesso modo in cui la vera architettura
pare essere parte del paesaggio locale, costituisce una privacy entro cui il carattere individuale
può fiorire liberamente. Una società che pretende che ciascun uomo salvi la propria anima -dove
prevale l’idea del self-made man- in realtà condanna ciascuno, in risposta ai propri bisogni di
autoaffermazione, a un’esibizione delle proprie irregolarità e imperfezioni, e tali imperfezioni si
trasformano fin troppo facilmente in un esibizionismo che fa della vanità una virtù, e che ci si
compiace di definire espressione di sé. L’artista svolge, in quel contesto, una specifica e
riconosciuta funzione sociale, ed è chiamato a rispondere a determinate esigenze; non si dedica alla
produzione di opere d’arte spinto da una vana ricerca del bello, oppure nel tentativo di fuggire alla vita.

Quello dell’artista è a un tempo mestiere e vocazione, coerentemente con il sistema tradizionale del
varna-ashram dharma. L’artista non è né un filantropo né un parassita; è chiamato a lavorare per il
bene dell’opera in sé e per questo lavoro merita le sua ricompensa. Il mondo ha ogni diritto di
sapere su cosa sia e per cosa sia un’opera d’arte; e se l’artista risponde, su niente e per niente,
oppure su aspetti della mia personalità e per la mia gloria, il mondo non gli è debitore di nulla.
Coerentemente a questo modello di riferimento, e come vedremo meglio in seguito, nel processo di
creazione ed esperienza delloggetto artistico è attribuito, al gusto soggettivo e condizionato
dellartista come dello spettatore, un ruolo marginale. Come per il pensatore (jñana yogi) o per
colui che agisce (karma yogi), così anche per lartista esiste una norma, suddivisa in canoni
particolari di cui si è serbata memoria (smrita) nei trattati tecnici e in base a cui lopera deve essere fatta.

Solo le opere conformi a tali criteri sono belle attraenti secondo il giudizio di coloro che sanno.
Lo spettatore, come lartista, non deve lasciarsi guidare nella sua esperienza dellopera da
opinioni e gusti individuali; si può giungere a essere un conoscitore, nel vero senso della parola,
solo attraverso un processo di umile apprendistato; rettificando lintera personalità e non
semplicemente studiando o collezionando opere darte; altrimenti i condizionamenti e i meccanismi
automatici della psiche soggettiva finiranno per sovrapporre all’autenticità dell’opera i loro
contenuti preesistenti. La conoscenza estimativa, vale a dire la conoscenza delle cose in quanto in
se stesse gradevoli o sgradevoli, è del tutto diversa dalla conoscenza intellegibile, ed è propria
degli animali che reagiscono alle sensazioni istintivamente, e non intelligentemente. Solamente un
oggetto naturale, la cui esistenza è fine a se stessa, e non un’opera d’arte, può essere detto inintelligibile e puramente sensibile.

La competenza nello spettatore, dunque, non meno dellabilità nellartista sono necessariamente
delle conquiste; la pratica dellarte è una disciplina (sadhana) che inizia con lattenzione
(dharana), giunge a perfezione con lidentificazione (samadhi) di sé con loggetto o il tema della
contemplazione (dhyana), e si traduce in abilità ad agire o a riconoscere. La cosa fatta con arte,
in cui bontà e misura si corrispondono, qualunque sia il suo genere, manterrà inalterato il suo
valore sempre e comunque, indipendentemente dalla variabilità di quei desideri che determinano il
corso della vita di un uomo in individui differenti o in differenti epoche. Laffezione, o gusto,
non è un criterio estetico (pramana); riflette la disposizione soggettiva a essere affetti da
determinate forme e non è in alcun modo disinteressato. Nella produzione dellopera darte ne
determina lo stile, che non è parametro di riferimento per la valutazione e il godimento dellopera,
ma manifestazione di aspetti superficiali e transeunti della personalità storica dellartista. La
conoscenza innata dei criteri e dei prototipi è propria degli esseri celesti (deva), che hanno una
natura puramente intellettuale, e le opere darte delluomo sono portate a termine in modo conveniente solo quando sono fatte a imitazione delle arti angeliche.

Sono proprio questi prototipi a essere ricordati nei trattati canonici e incidentalmente anche
altrove, affinché i fabbricanti di immagini possano servirsene come norma. Ciò non significa che
lartista debba attingere le sue conoscenze solo direttamente da testi scritti o recitati; esse
possono anche venirgli dagli insegnamenti (upadesha) o dalla pratica (abhyasa). La relazione tra il
maestro e il discepolo è improntata alla tradizione: la conoscenza si trasmette da guru a shishya e
in questo modo i professionisti che si succedono luno allaltro nella serie dei maestri e dei
discepoli (guru-parampara) imparano a lavorare secondo la loro arte, perpetuando di generazione in
generazione, con immensa gratitudine e con devoto spirito di servizio, i modelli misericordiosamente
ricevuti, che finiranno per sprofondare nella coscienza collettiva dellarte e per costituire un
capitale di riferimento a disposizione di tutti coloro che volessero intraprendere questo sentiero
(marga). Allo stesso tempo non è affatto esclusa la possibilità di un accesso diretto alla più alta
forma di conoscenza, ovvero al Signore che con lemanazione creativa di luce gravida di immagini
realizza tutte le possibilità. Questa visione superiore (darshana) implica un livello coscienziale
che travalica i limiti dellosservazione sensoriale e della riflessione, e che si riferisce alla
percezione del suono trascendente e della divina parola creatrice (vac) che dimora nel nostro cuore.
È nel cuore che si vede o si ode la Sapienza (Vac-Sarasvati); è nel cuore che prendono forma gli stimoli improvvisi dellintelletto, o che il pensiero viene formulato.

(1) Secondo la tradizione Vaishnava, Dio come Persona Suprema. (2) Bg. 7.11.II
(3) Bg. 4.13.I

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